mercoledì 28 febbraio 2007

MADRIGALETTI NOTTURNI (Francesco Randazzo)


Videopoesie

v. qui

Una notte a Caracas. Nel flusso d'immagini e pensieri, una voce poetica accompagna l' io narrante nel suo personale viaggio notturno, fatto di sguardi sugli oggetti e sulla città dall' alto, di pensieri rarefatti, di domande senza risposte.

Testi poetici tratti da: Come un pesce azzurro, Edizioni Il Filo 2003

Altre poesie di Francesco Randazzo in FP

martedì 27 febbraio 2007

i volti achei delle campane (Davide Brullo)


si allargano solo dei bagliori ampi e squadrati nel niente – sembrano monoliti messi in luoghi strategici da genti a cavallo
d’inverno la steppa siderale è scabra – come qualcosa che dev’essere messo a memoria perché poi sparirà per sempre
non possiamo più spiegare nulla pensava ma accorgerci delle cose scieglierle o disprezzarle
e non abbiamo altro che le costellazioni – e nelle spaccature ultraterrene crollano il muso bestie basse – e la paura per le cose immortali


perché il Khan non accetta l’assalto delle cronache né la carta su cui gli avvistatori hanno calcolato la discendenza – «le cose sono lineari» risponde «e tutto ha un destino di fine» – così egli è davvero invulnerabile
e questi suoi territori tornano i luoghi di ciò che non ha rimedio – né ritorno – no non è la sosta – pedane di raccolta tra il rimpianto e la memoria – ma zone di spedizione in cui scorrono le vite – senza che nulla s’introduca e influisca nell’altro – ed egli è lì sulla piazza alta – aperta – e li vede
e puoi pensare che non ci sia un’azione più pura per l’uomo


qualcosa dice che non c’è più via – poi sopra i sedili di pietra che sembrano cose marziane il ghiaccio scoppia – su questo rifugio degli uomini grandinano meteore – dove hai passato la tua infanzia? dice
esistono solo luoghi di reclusione o spazi inconcepibili
e mentre dice che a decretarlo è il Khan egli vede l’erba semiscuoiata attorno ai gambali della chiesa – l’unico edificio attivo
«essere più aderenti di una lettera» ecco cosa può insegnare
ma basta una misera presunzione per perdersi – i volti achei delle campane guardano da pianura a pianura giudicando
almeno portassi tenerezza per lei – è lei che ha voltato la sua violenza in compito e onore
– in che cosa credi? dice la campana che lui ha chiamato Agamennone
il casco brucia come quello dei re santi per cui uccidere non è uccidere ma un ornato cenno di compassione –
sulla stanga al limite naturale della città una schiera di lucertole è fissa nella luce – ne sono una solida emanazione – e questa è l’unica giuria per gli uomini


"non possiamo più spiegare nulla pensava ma accorgerci delle cose scieglierle o disprezzarle": questo lungo verso (?) è un flutto tra gli altri che movimentano queste strofe dalle cesure a volte nette a volte elusive, il respiro è epico, paragonabile a quello di Alessandro Rivali per la forza di immagini come quella dell' "erba semiscuoiata attorno ai gambali della chiesa", immagini che stendono le parole a KO perché ne salti fuori l'anima. Non a caso l'autore frequenta e traduce la Bibbia.
Davide Brullo (1979) ha pubblicato due libri in versi (Annali, Atelier Edizioni 2004; Annali. Lustro, Mimesis 2006) e due volumi di traduzioni dall’Antico Testamento (Scanni, Raffaelli 2003; Il libro della sapienza, Medusa 2006). Fa parte della redazione di “Atelier”.

lunedì 26 febbraio 2007

Il duende in Stabile (intervista di Luigi Metropoli)


Luigi Metropoli: Più che nello stile, la creolità, il tema ricorrente della tua raccolta di poesia fin dal titolo (con rimando anche alla materia musicale), sembra emergere dallo sfondo: luoghi, rimandi, alcuni paesaggi e frutti tropicali che abbondano tra i versi. Tuttavia lo spagnolo, il portoghese-brasiliano e l’inglese si innestano sull’italiano. “La verità sta nel contrappunto”, scrivi nella prima poesia. Cosa è per te la creolità e come un poeta dell’Occidente “Sviluppato” può renderla nei suoi versi e/o farsene portavoce? Quale il suo valore politico?

William Stabile: Per quanto mi riguarda, la creolità è un moto interno; il veicolo di espressione del mio essere poeta nel mondo, di trasformarmi ogni volta in uomo nuovo.
Non molto tempo fa, con un amico ben grasso, che oramai ha scelto di trasformarsi in un sottile ectoplasma metropolitano, mettemmo su carta questi assiomi che tengo sul mio tavolo di lavoro:
“Sense can transmit between languages. There is no need for communication to be held within one set of symbols. Order is not significant… Inspiration of Amalgamation is shared and boundless.”
Ciò che mi interessa è esplorare il concetto di creolità o quello che io chiamo (mutuandolo dalla Teoria dei Grafi che ho conosciuto grazie al Prof. David Cariolaro e al grande scienziato Prof. Crispin St. John Alvah Nash-William) Amalgamation.
“Amalgamation means that communications through symbols can have multiple authors.”
L’obiettivo finale è quello di poter scrivere, un giorno, un poema, in varie lingue, un opera che tutti possano leggere ed intendere, che a tutti possa comunicare…

Il resto dell'intervista si può leggere qui

domenica 25 febbraio 2007

Intervalli ardenti (Daniele Bottura)


C’è sempre un posto vuoto nelle tavole su cui mangio. Ogni volta immagino che vi sia seduto qualcuno. Nessuno mi dice il suo nome.

Il tavolo della cucina è sempre apparecchiato per due, la bottiglia di vino mezza vuota, i giornali piegati di lato. Magari arrivi da un momento all’altro.

Certi giorni tra me e il mondo c’è una distanza infinita colmabile solo con il sonno. Niente altro mi avvicina agli umani nei giorni in cui il vero non si appiccica ai sogni.

Di un abbraccio mi piace quello che c’è in mezzo.

Faccio fatica a stare in piedi su questa terra, con queste gambe stanche, con questi pensieri pesanti.

Un abbraccio silenzioso nella notte, ovunque, ogni tanto se proprio anche nel passato.

Non mi piacciono le definizioni. Le trovo strette come le magliette di un neonato e sgualcite come il soprabito di un defunto parente.

Quando ti guardo vedi il mio sorriso?
Mi leggi dentro?
Riesci a capire cosa penso quando ti guardo mentre ti sorrido formalmente?

Perdersi tra le strade del centro di Verona non fa badare al cielo grigio.
Essere accompagnati nella vita da uno spirito vivo e allegro è la stessa cosa.

I passi che facciamo sono le idee che abbiamo.

La felicità è un incrocio a doppio senso di circolazione.
La felicità è un rimbalzo.

Vivo aspettando una tua telefonata. So che questo non sconvolge te quanto me.

Il solo modo per fare pace col passato è scrivere, che sembra essere il solo modo per parlare.

Certe relazioni sono alimentate da qualcosa.
Non si può scrivere quel che non si può dire.


Ci si sposa per paura di rimanere soli.
Si rimane soli in amore per paura di soffrire.


La prima volta che ti ho vista ero più attento a me che a te.

C’è questo guardarsi tra le persone. Irrispettoso, indiscreto,
intimo senza conoscersi.
Sguardi che vanno subito al sodo senza un respiro che li sostiene.

Ovunque mi trovo tengo alto il volume della radio nella speranza che tu la possa sentire.

Ciò che accade è necessario.

Il tempo è in scadenza sugli scaffali del supermercato.

La somma delle cose non dette produce una malattia.

La somma delle incomprensioni da un risultato insopportabile.

Ho unito su un foglio bianco i puntini che avevo stampato nei pensieri. È apparso il tuo volto.

Ci siamo persi nell’idiozia dei giorni, scambiando l’abitudine per la vita. Non poteva andare peggio.



Questi aforismi sono davvero belli, scavano e vanno ben oltre il gioco di parole perché dietro c'è un percorso e davanti il desiderio di dargli una meta per cui valga la pena camminare: "Di un abbraccio mi piace quello che c’è in mezzo."
Daniele Bottura vive a Mantova e lavora in ambito socio-culturale. Ha pubblicato Transatlantici di carta.

nuova di Simone Lago

venerdì 23 febbraio 2007

Poesie di febbraio (Antonella Pizzo)


Le foglie con le nocche tocchi

Le foglie con le nocche tocchi
decisi palmi poi le coccoli
oh due ciliegie
tre albicocche
le imbalsami in anelli
ne fai bracciali
grappoli l’uva
e ne fai orecchini
col roveto ti fai un diadema
le vespe e le spine
s’attorcigliano ai polsi
ricci di castagne
s’attaccano ai capelli
che frastuono, che clamore
la terra trema
precipitano gli uccelli
le gote si gonfiano, si sciolgono le lingue
si biforcano le linee in mezzo agli occhi
se tagliano il calcagno si ferisce la mano
s’alza il piede
s’apre la bocca e si rivolta la verità
di bocca in bocca


4.2 .07

la vita passata a cercare
quarti di pollo tranciati
una moglie che potesse sgravargli
due figli, che potesse portargli
un cuscino e potersi sedere sul trono
lei inchinarsi di giorno e di notte
in un senso diverso
poi dirgli signore
la minestra è servita, il vino versato
qui giace una fetta di pane raffermo
sulla tavola dell’ultima cena
apparecchiata alle scure
placente malate
a un liquido d’acido d’amnio


5.2.07

il mattino era giallo e si stendeva ozioso
fra ripari assopiti e portoni chiusi
le cuffie si impigliarono nei rami alla finestra
il coprifasce nell’aria si muoveva lento
come onda di fiume appena accennata
poi si strappò sulla schiena
in un taglio sottile di lacerazione
fu allora che si confuse la coccinella
ma nessuno se ne accorse o aprì le mani per cercare
una linea che potesse ridisegnarla intatta
eppure tutto era stato costruito a coronamento
la palizzata eretta, il cancello pitturato
le tegole del tetto incastrate ad una ad una

allora ditemi di muri innalzati
di quanti mattoni avete impilato
di quanta calce, quanto cemento e quando
e come con ferro legati, impalcature elevaste
quando scavaste le fogne e la fossa
ditemi dei tubi che avete allineati e quando infissi i pali
i fili passati, quando digitali terresti e parabole
ellissi divaricate e quando sanguinante
dispiegò se voi sapete esattamente il quanto
e il quando, se sapete misure e formati
lo specifico peso
ma dove si ruppe le ali Icaro
le sue elitre malate il suo zoppo volo
il bambino che dice
fortuna è passata, fortuna già
passata



17.2.07

facendo la misura trovo che la mia vita
sia un guazzabuglio, un rivolo che non ha trovato
la discesa giusta per andare lì dove vanno tutti i fiumi
a morire


17.2.07

se tu dormi e se tu esci
se io resto
posso scrivere una poesia se mi viene ma se penso
mi perdo e se mi perdo quando tornerete
può essere che non mi troverete


17.2

così sono sei anni che manchi
così sono sei anni che aspetto
anche se so che non tornerai

le tombe di Pompei sono lì
che aspettano
da più di mille anni
questo mi dico quando giro per casa
e poi m’affaccio alla finestra quando
sento salire per strada
un motorino cinquanta scoppiettante.


20.2

posso scrivere il tuo nome mille volte
e mille volte cancellarlo
posso avvolgerti in carta di riso
e bruciarti nel forno crematorio
posso coprirti di zucchero al velo
tagliarti torta di mele
posso mangiarti e digerirti forse
ma prima masticarti, insalivato bolo
posso alitare il tuo specchio
col dito disegnarti meglio
farti un profilo unico
che vada nella giusta direzione
ma tu ti ritrai e io non posso


22.2

E che per te si compia e che per me si faccia
e che per noi l’anta si apra, s’allarghi e non s’infanghi
la parola che crea o che distrugge. Ferisce
l’imputazione, l’amputazione d’arti e fatti
colore e pentimento, soffocano
in un cassetto bugie e menzogne, i fili di polvere, i pani attorcigliati
corone e spine, groppi e zoppi, inverecondi irati; e per te che nascesti
in un giorno d’estate chiaro ti sia sempre chiara la ragione
il lume accesso, splenda e risplenda la verità lucente
ti sia un bucato al sole steso, sui prati di trifoglio e camomilla
ti siano le ortiche care e le gramigne, le serpi amiche
t’allattino le lupe al seno, ti bacino i fiumi e le correnti
ti donino le salvie inflorescenze
a mazzi, a fasci le spighe piene
così per te si faccia, così per te si compia
così per te per sempre la rinascita


Questi versi, intensi e icastici come è nella cifra dell'autrice, offrono sillabe perforanti e immagini che ossimoricamente uniscono una visionarietà metaforica sontuosa e originale (ma non esibita) a un lessico sobrio dal ritmo asciutto e dagli echi tragici: "… un rivolo che non ha trovato / la discesa giusta per andare lì dove vanno tutti i fiumi / a morire". Una poesia da assoporare e meditare.
Antonella Pizzo (Palazzolo Acreide, 1954) vive a Ragusa. Scrive dal 2002. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in concorsi letterari. Ha pubblicato il romanzo Di rosso smunto (Prospettiva Editrice, 2004) e sillogi sia in vernacolo che in lingua. Nel 2005 è uscita per Lietocolle la raccolta A forza fui precipizio. Nel 2006 ha pubblicato con Fara Catasto ed altra specie ed è stata giurato del concorso Pubblica con noi. Sue poesie sono state pubblicate in riviste e rubriche on-line (tra cui Liberinversi, La costruzione del verso, Poiein e diverse altre altre) e in alcune antologie (tra cui Verso i bit: poesia e computer, Lietocolle, 2005 e Lo stormo bianco - Edizioni d’if, 2005). Gestisce il sito Poetienon, è tra i fondatori de L'Attenzione e fra i collaboratori de La poesia e lo spirito.

Animaelegentes (fragmenta) (Chiara Daino-Massimo Sannelli)


Attrice: Massimo?
Poeta: Mi chiamano.
Attrice: Che lavoro fai?
Poeta: Prego?
Attrice: Parli mai?
Poeta: Preferisco scrivere.
Attrice: Sai quando ti chiedono: che lavoro fai?
Poeta: So, ma non ti rispondo. Tanto non mi ascolti.
Attrice: (continuando nel suo discorso come se nulla fosse) E tu che ti sgoli, fremente di passione: attrice, poeta, pittore e quelli… Quelli ridono e ti chiedono ancora e ancora e ancora… Che lavoro fai? Seriamente? Seriamente. Non è un hobby. Vivo di questo.
Poeta: Seriamente: moriamo per questo.
Attrice: Basta!
Poeta: Basta che?
Attrice: Basta tutto.
Poeta: Monastero io, convento tu?
Attrice: No e niente silicone e niente compromessi e… ‘fanculo!
Poeta: Dlin Dlon! No, decisamente, niente convento.

[…]

Shakespeare, Riccardo III, ultimo monologo di Gloucester

Datemi un altro cavallo! curatemi!
Gesù, pietà di me… No, era un sogno.
La fiamma brucia, è blu. La notte è piena.
Sulla carne che trema sudo freddo.
E ho paura? Paura di me?
Sono solo. E Riccardo ama Riccardo:
io sono io. C’è un assassino? No.
Sì: io. Allora fuggi. Da me stesso?
La vendetta è migliore? Io su di me?
Ma io mi amo. Perché? Per qualche bene
che io mi sono dato? Veramente
odio me stesso per i delitti e l’odio.
Sono un uomo cattivo. Non è vero!
Parla bene di te, pazzo; e, da pazzo,
non ti gonfiare. La coscienza ha mille
lingue, ogni lingua ha una storia diversa,
ogni storia mi chiama criminale.

Non ho l’amore di nessuna anima,
né la pietà del cuore, se muoio oggi.
E mi è dovuta? Io stesso non la trovo,
qui in me. Prima, sembrava che ogni anima
di ogni ucciso fosse in questa tenda:
giuravano vendetta, sul sangue di Riccardo.

[fuori campo: Signore, via! Vi troverò un cavallo!]

… sei Richmond sopra il campo. Cinque uccisi;
e Richmond vive. Un cavallo! Un cavallo!
Il mio regno per un cavallo!

[…]

Poeta: (Tra il gaio e l’esaurito) C’era una volta un’attrice dalla pelle bianca come la neve che viveva con alcuni nani…
Attrice: (Lo interrompe) Sì, Grappolo e Luppolo! Lo vedi che non mi aiuti?
Poeta: Tanto tu non mi ascolti.
Attrice: Non è vero (sospira e, tutto d’un fiato, sciorina): vuoi fare la parte di un trans che si chiama Simone e vive in un soppalco, ma scopre di essere allergico alle rime baciate e per questo si chiude in un convento a distillare birra per amore di Riccardo III che voleva fare il comico, ma amava Leopardi e si rifece le tette per non andare ad un sistema reggae dove spacciavano aulin recitando Emily Dickinson che aveva la bolla papale conferita da Garibaldi mentre uccideva Jim Morrison, per sfuggire alla peste portata in Sicilia da un ranocchio infetto dalla pioggia di “Ed” impestati che hanno seminato terrore in Danimarca rendendo Tristano malinconico perché Lucia era scappata sugli elefanti di Annibale con Palazzeschi, coadiuvata da una certa Berté, approfittando della gioia generale per il goal su rigore segnato da Eschilo, dopo aver tramortito con rabbia una velina di nome Archiloco, usando il giambo chiaro ereditato dal Gladiatore con l’hobby della poesia, che si diede ai reality orgiastici con Laura e Beatrice, su consiglio di Baraldi, nel nefasto giorno in cui Agamennone cavò l’occhio di bue trovandosi a gridare dlin dlon, dopo essere inciampato.
Poeta: Manca qualcosa…
Attrice: E che cazzo!
Poeta: (Fiero, battendo il pugno sulla scrivania) Si va in scena!
Attrice: Banale
Poeta: Chi? Io? Simone? Riccardo?… Manzoni?
Attrice: Il titolo!
Poeta: Quale titolo?
Attrice: Si va in scena!
Poeta: Non era il titolo!
Attrice: È brutto lo stesso!
Poeta: Ci rinuncio…
Attrice: Il solito decadente: troveremo un titolo, non ti abbattere (Lo abbraccia e poi inizia a passeggiare con l’atteggiamento del filosofo pensatore)



Animaelegentes è il titolo di un libro delle Edizioni di Cantarena (Genova, 2006), che riunisce la commedia Permis de traduir di Chiara Daino (da cui sono tratti il primo e il terzo brano) e una riduzione per due attori del Riccardo III di Shakespeare, in versi italiani di Massimo Sannelli (il monologo al centro, come parte cupa, qui). La commedia originale di Daino – costruita con frammenti orali e «piccoli fatti veri» – e la tragedia tradotta da Sannelli si pongono in dialogo: ossimorico, biografico, biologico, autoironico, fantastico. I libri non sono tutti uguali. In ogni caso, come sempre – anche se non sembra e non ci si crede – habent sua fata libelli.

www.chiaradaino.blogspot.com
www.massimosannelli.splinder.com

giovedì 22 febbraio 2007

Dolcissimo perdonami le ombre (Gladys Basagoitia)


(da Infinito Amore, 1986)

MADRE

Poiché nei miei sogni
ti incontro
sempre intatta
umana
vera
io non so la tua tomba.
Non conosco altri fiori
se non quelli che accesero
i tuoi occhi e il tuo alito
quelli che nelle tue mani
lontano dalle loro radici
fiorivano.
E nutro
le rose che tu amavi
nella mia canzone.


TI AMO

Dolcissimo perdonami le ombre
i segni mortali del domani
tutta la luce che non possiedo
l’assenza del chiarore dell’infanzia
che mi lasciò smarrita prima molto prima di incontrarti.
Io vorrei aghi eterni stellati
e con profonda tenerezza
trafiggerti di gioia e di piacere.
Io vorrei intrecciarmi al tuo sorriso
al fulgore che da non molto ci allaccia da pupilla a pupilla.
E mentre le colline si distendono nella linea del sole
e gli uomini predicano la pace fra violenze inaudite
io sono triste infinitamente triste
ma ti amo con l’amore che sboccia dalle più profonde radici
con la presenza del miracolo che vive e mi fa vivere alla tua presenza.
Demoni violenti mi assalgono al pensiero del tempo che ignaro prosegue
alle nere catene della nascita e della morte
fissate inesorabili nella storia nello spazio
in tutto quello che pur non volendo siamo.
Ma ti amo con ferma ribellione sebbene
oggi la luna è quel malocchio luminoso che mi deride
e ci sono pugnali che dal passato e dal futuro
inchiodano le mie viscere.
Non voglio impadronirmi del tuo spazio.
Io sono qui un piccolo corpo che racchiude splendide emozioni
sogni fantastici che mi innalzano dalle macerie.
Io sono qui così povera e così ricca senza pretese.
Nulla vorrei chiederti e ti amo caparbiamente
mentre questa notte abbraccio soltanto ombre
mentre questa notte io brucio al tuo ricordo e ti cerco nel sogno.


AMICA

Nell’ora del silenzio ho bisogno di te
per guardare i miei pensieri
popolare i tuoi occhi
per sentirli e sapermi.
Mi è necessaria
quella canzone
sollevare la mia notte
fino alla luce
farla vibrare
quella canzone che tu cantavi
come si ama
che tu cantavi
con tanta vita come muoiono
il sole il bacio una lucciola.


AMICO (più che amico, fratello, più che fratello, amico)

Con te non voglio il quotidiano
benché ci uniscano dolcissime abitudini
come quel cercarci nello sguardo il miele
che inconsapevoli e comunque ci doniamo
sebbene io ti ami vivendo lungi da te
nel nascere e nel morire
dei sogni bellissimi con altri.
benché ti ami senza averti e senza voler averti
lampada miracolosa che dalla propria luce si alimenta
accesa sempre dalla propria energia sempre accesa.
Che nulla né l’addio né silenzio né dimenticanza
potranno uccidere. Nonostante
non voglio svegliarmi ogni giorno a te vicina
né abbracciarmi a te come chi abbraccia una coperta
così che il nostro abbraccio sempre sia
non una sensazione ma la emozione sempre inedita
piena di meraviglia.
Per te io voglio le passioni di altre splendide ragazze
che ti diano pace che ti versino il vino dell’Amore.
per te io voglio tutta la bellezza e la letizia della vita
perché nemmeno tutto questo potrebbe togliermi
la viva tenerezza che per sempre e in libertà ci allaccia.


ALTRO MODO D’AMARE IO NON CONOSCO

C’è una forza immensa in questo amarti
così lungi dalla tua presenza concentrata ed eterna.
non c’è vento che mi spenga.
Più di me stessa ed il mio desiderio intenso
più della mia sete la mia fame ed il mio respiro
importano il tuo spazio e la tua estensione
il verificarsi del tuo tempo
la sostanza delle tue scoperte.
Non io come limite come frustrazione benché dolcissima.
non io come campana che trattiene il tuo suono
non io che imprigiona le tue luci a nome dell’amore.
Che regalo più alto della mia assenza
adesso che le tue ali si stendono!
Che canto più grandioso del difficile silenzio
di ciò che mai avrò di dirti
così che nulla ti trattenga.


MIO PADRE

Come se la rugiada attraversasse
il volto di un leone incanutito
come se il ferro piangesse fuoco lento
così era il volto di mio padre.
Dovetti essere sua madre e consolarlo.



"Io vorrei intrecciarmi al tuo sorriso": liriche di "ferma ribellione" che ci giungono fresche, a volte sferzanti, sempre coinvolgenti: "Nell’ora del silenzio ho bisogno di te / per guardare i miei pensieri / popolare i tuoi occhi…"


Gladys Basagoitia D., Peruviana. Bilingue, cittadinanza italiana. Pluripremiata in concorsi nazionali e internazionali, ha pubblicato dodici raccolte in lingua italiana e spagnola: a cominciare da La zarza Ardiendo (1964), fino a Rêverie(2004) e Il colore dei sogni in FaraPoesia(2005).

Un nome ci lascia sulla terra (Andrea Temporelli)



(da Meridiano del nome)


Il medico in silenzio
controlla l’emorragia, non reprime
i lamenti. È paziente.
Contiene la sua scienza
fino al punto di quiete,
poi compie l’opera con molta cura.
Raccoglie in unità
il corpo in corruzione, gli spasimi e la febbre
con calibrate dosi
sconfigge a poco a poco dall’interno.
Rende l’attesa eterna
in precisione.




LETTERA DI RICCARDO


« Si alza l’arco del giorno
da questi luoghi
anche se aspiro i sogni di mio figlio
come un’ultima tirata di fumo
che so impiccato all’altalena azzurra
del cielo e dei miei occhi
sul lago che dorme il sonno del mondo
su cui mi affaccio
lungo le curve l’asfalto i paesi
fino al lavoro, qui, dove non parlo,
mangio in fretta un panino
o dall’ufficio vuoto scrivo lettere
come questa per te
quando il dolore allo stomaco è un sasso
che mi accompagna a sera.
Mi piego anch’io
che mi credevo la schiena di marmo,
ho il fiato rotto e gli occhi spalancati
(eredità non chiesta)
ci dormo, col fiato rotto, mi sveglio,
mi precipito ch’è già tardi.
È che non siamo mai partiti:
ce ne accorgiamo a un lampo di cristallo
risvegliati a una storia
al fianco di una donna sconosciuta
e amici, proprio loro, che si sposano.
I figli mai vedranno
che siamo innocenti nei nostri errori.
Ma è tardi e ti saluto,
ancora devo uscire
per sapere alla fine che non c’è,
la partenza: l’inizio
è irraggiungibile »



LA FORZA DEL LUOGO COMUNE


In un frangente inerte della vita
m’invitasti a fissare una mattina
le cime che graffiavano
biancoperfette il vetro.
Era un giorno fra i molti che dispersi
disperato in nessuna direzione
e proprio allora mi dicesti,
in quel punto schiarito
dalla furia del vento,
lì, tra il niente della mia voce
e il verdazzurro delle tue pupille,
che somigliava al mare
il tremito lontano.
Portavo – e non sapevi – come un bacio
l’addio della stagione;
non capivo l’assurda rispondenza,
ma tra febbraio e marzo udii
un rosso fremito
sul filo delle labbra
e mi esposi alla voce
come i ghiacciai alla luce che non nuoce.
In quel tratto preciso
in me piovve una fiamma e tu fingendo
indifferenza, senza più voltarti,
uscisti dall’inverno.




DOMINA


Tu sei gli anni più belli della vita,
gioventù che non torna,
e l’amore, l’amore senza fiato.
Tu sei slancio e ferita.

Presto sarai la piega delle labbra,
il solco accanto agli occhi e l’alta fronte.
Il tuo regno è di sale che corrode.

Sei la perdita in cui avanzo, il millennio
lasciato per un’epoca diversa.
Sei il proiettile puntato alle spalle
che non esplode.




LA STELLA A CHI SMARRISCE


La stella a chi smarrisce
io non esiste.
Quasi morto
tira su la testa a pelo d’acqua
e si dimentica: suona.

Troppo alto, troppo alto!

Troppo tardi:
un nome ci lascia sulla terra,
marcio.



"e mi esposi alla voce / come i ghiacciai alla luce che non nuoce": la parola poetica ha bisogno di orecchie che sappiano intenderla, altrimenti svaporano anche i più belli cristalli di ghiaccio e marciscono i nomi.
Andrea Temporelli (1973) è uno dei 120 poeti della sua generazione. Ha pubblicato Il cielo di Marte (Einaudi 2005)

mercoledì 21 febbraio 2007

Sta nel fare l’energia per fare (Alessandro Sichera)


(inedita:)

Sta nel fare l’energia per fare,
nella costanza l’ambizione dei sogni…
… mani astemie che producono fatica,

tese ad una propria soddisfazione.
Sta nella volontà la forza di volontà



(da Le smagliature del sonno:)


Se ne sta in piedi sugli occhi, affannato
coccolando il proprio paradigmatico male
di vivere: schivando la noia, invecchiando.

Acquisisce abitudine di mancanze, misura
gli ascolti, eccede in assenze… non per età
ma per abuso di vizi, senza rispetto per la rotondità
dell’alba. In attesa: per difesa forse o per offesa.

… Che la parola non è garanzia d’immunità
ma l’inconscio in prepotente emersione…

***

… Puntuali le quattro di notte: discrete
ma affollate di istanze perenni. Non gridano
la propria necessità, avvolgono: oppresse
di concetti, intrappolate in eccessiva verbosità,
soffocanti. Albeggia l’afa, costringe
a variazioni di ritmi, a declinare gli inviti…

Chi vive nel lento digradare del giorno, quando
la rena si copre di sguardi, chi esiste senza
ingombro di sé, ignaro di una propria consistenza
e chi ostinatamente assume ad esperienza
i fasti di errori e sbandamenti…

***

Sul lato del torto

Il sapore del pianto cucito sul volto di notte
traccia un solco di dolcezza
alla compiacenza del cuore, in caduta di stile
sul lato del torto
nell’accezione più intima del ricordo: a smaltire sconfitte
in gocce rimbombanti il desiderio. Soppeso

delicati stenti, reduci azzoppati di pulsioni
mille volte esplose in sordina su donne
spiumate con gli occhi.

Il sapore del pianto evaporato in bocca di giorno
svilisce di pause il vuoto
sulla pelle scavata di vita e mutila
in forma di lama i segreti del fegato.

***

Il rumore del vuoto

Scrivere a dirotto nel rumore del vuoto
tra la quiete del mare e scrosci d’inchiostro
per svelare gli occhi curiosi

i ricami segreti del sole, a strapiombo
sulle pendici del collo e pensare a squarciagola

ai disastri sospesi nel cuore: luogo
di lacrime, deposito d’amore.

E mi riconosco apolide nella dimensione d’uomo…

***

Oggi la vita mi pare

Oggi non voglio vedere nessuno
che la vita mi pare una menzogna del sole
e non ho una vita sposata, rimbomba
un frastuono di voci su un gelido fiume alieno
al quale pago la tassa sui sogni.

Oggi la vita mi pare
un guazzabuglio di errori repressi, pestilenziale
affanno che brucia come il capestro del condannato;
rallentato tramestio di sguardi
su un materasso sporco di promesse
disattese.

Azzeratemi la memoria
amici,
che oggi la vita mi pare
un autentico lerciume di piedi.

***

Questa contusa assenza di suoni e parole
è forse ancora più insostenibile della tua malattia:
crea un imbuto nelle viscere, un mutismo

che più non appartiene… E la obbligata complicità
dei commensali, una lama a ferire la devozione innamorata…

… L’ostinato riempirsi di cibo e poi svuotarsi
sedimenta un’acredine di vuoto, un’intercapedine di urla
a cui è difficile sottrarsi, mentre un livido sussulto
del cuore cede il passo alla vergogna
nella quotidiana amarezza di sé.

***

La paura dell’addio

… Trasferisci il tuo dolore su altre necessità,
aspro disagio di te e pretendi attenzione estrema
costante esame degli altri…ti cauteli

nel nasconderti. Forse è la paura dell’addio:
legittimo timore di quanti sdegnano se stessi…
Ora che dormi ti accarezzano lacrime, celato

contrasto di spine smarrite, fradiciamente innamorate:
perché non ti accorgi quando piango?
Perché temi di ricevere nell’intimo?

Ti sottrai al mondo disarmata
a un’infezione di grida, che fa risacca
di soprusi nel tacere di ferite profonde.

(Ed io dietro, la mia ombra pesante
a farti da scudo
restituisco alla vita paure residue
col sapore del mosto autunnale)

***

Milano

Nel suo rigoroso torpore grigiastro
Immerso, ritorno a camminare Milano
Perdutamente, d’un fiato ritrovato.

Un ritorno inchiodato al domani
senza ammissioni di abitudini
o intrusioni, ma rinnovato rossore da fatica.

Svicolo il traffico di auto e parole veloci
calloso passare per ciottoli e merde
tra profumi al naso inediti dell’autunno in declino

e sfuoca, lentamente, la sonnolenza opaca
e quest’anonima anomalia, severa nei viali
e misurata nei bar, del pallore da benessere:

accurata mescolanza di sfrenata vita notturna
e devota abnegazione al lavoro,
mai casuale l’accostamento, direi quasi maniacale,

(e) allo sfrenato – ma al riparo discreto –
consumo di vizi, al turbinio di discorsi
leggeri, preferisco per attitudine

accontentarmi del cielo terso
di mezzogiorno, denso di luce, colmo
di quiete, dopo il vento di maestrale.

***


Le smagliature del sonno


L’infinito variare del tempo
ne smussa a se medesimo l’entropica assurdità
come quando, crescendo, si smette
di comunicare: per viltà o timore d’essere noi stessi
o come quando, per una strana distrofia del pensiero
l’ipocrita non riconosce davanti alla vittima
le proprie remote debolezze, paure o difficoltà.

E se la solitudine è il più nobile pensiero dell’uomo
se un’atavica nostalgia di ciò che fu
è la cura
alla comunicazione corrotta dell’uomo, sono anch’io
uomo marcio nei sentimenti, profondamente,
per cercare una libertà, forse posticcia, che è ricordo
passivo di un’assenza
deliberatamente ricercata e coccolata.

***

Dietro la porta

L’isolamento necessario dell’esilio
dal sangue materno e patrio
impedisce al cuore quella distensione
sospirata di emozioni e trasmette
inadeguatezza ai colori del giorno:
prezioso silenzio della disperazione, qualcuno
si ubriaca per poterla fuggire. Ascoltate
il lamento di un uomo che non vuole
rinunciare a sognare ma scrive e balla
per sopravvivere ai sogni: quell’uomo porta i segni
evidenti di un’introspezione rumorosa
che si alimenta dietro la porta.
Nella discrezione notturna dell’anonimato, in armonia
con se stesso, un altro piange gli stenti dei figli
lontani a una bottiglia svuotata
di chimere: in un tragico delirio di ideali
invoca a Pacha Mama,
veridicità di essenza.



"Se ne sta in piedi sugli occhi, affannato / coccolando il proprio paradigmatico male / di vivere: schivando la noia, invecchiando": una poesia con lati grotteschi e ironici, moderna e intritagante. Sa disporci con maestria il verso sorprendente (in senso positivo e negativo) e paradossale del vivere (e questo mi ricorda Massimo Pensante)
Alessandro Sichera è nato a Milano nel 1975, nel giorno dei natali di Roma. Ha pubblicato intime frane (2004) e Le smagliature del sonno (2006). Lavora in modo frammentario nell’editoria, collabora con il quotidiano on line la voce d’Italia, ballerino e insegnante di tango argentino, cerca di sbagliare da solo.
Da un anno abbondante innamorato della sua compagna, che ha riportato il profumo di primavera nella sua vita.

da Avrebbe amato chiunque (Davide Rondoni)


(Guanda, 2005)

I

Conoscere il respiro, esattamente
è l'occupazione degli amanti
toccare
l'acqua misteriosa
del volto silenzioso

dire mio
amore come dire niente

la impaziente luce delle dita
quel che trema e non smette
di tremare.


II


Conoscere
il respiro del giorno, quel che dirada
nella sera
è ansia dolce
se l'oro buio, il nada
l'ombra infiammata
dei volti che si toccano -

e brucia via l'ipnosi
dei cerchi d'orologio.

Non alzate le braccia
contro l'arrivo delle sere, la luce pura
esclamativa delle stelle.

Amare è l'occupazione
di chi non ha paura.

***

Quando la casa di notte
se inizia la pioggia
si anima

finestre che toccano,
porte che un'aria improvvisa
le muove e non si richiudono
piccoli
passi di corsa
sul legno - -

il viso
della città è stanco, riceve
quell'acqua.
Luminose diventano le oscurità.

Mi ritrovo sveglio come un neonato,
il cuore un evento.

***

La vita nei condomìni
a metà mattina quando

sono usciti
i bambini e c'è
poco rumore, qualche battito
di panni alle finestre,

una signora sbuca con la testa
al suono alto dei postini

e uno aggiusta
la bici giù in cortile,
un primo sentore di minestra

la vita nella tromba delle scale
che in questa luce sembra più grande

nei suoi gironi discesa lentamente
da donne anziane, sole,
angeli delle ore medie,

la vita, vedi, anche a metà mattina
se guarda nei suoi oceani
com'è smarrita

***

Ci vuole pazienza nell'amore
e anche impazienza,

luce ma lasciare
spazio anche per l'ombra.

Lo sa il vecchio pino, alto, nel cortile
che ha veduto dalle finestre
e fermato il volo
di parole che per tristezza volevano buttarsi
e poi ha veduto

vetri spalancarsi al sole
spinger via paura, stanchezza
e il morire delle case.

Lo sa che ha trattenute appese
le voci cambiate dei ragazzini
e le occhiate delle donne
sole a fumare alle finestre.

Ci vuole pazienza nell'amore
e anche furia,
la furia bella dei bambini
che ridono e capriòlano
quando ritorna qualcuno,
e fan le corse in corridoio, si fan notare

e quella del pino antico che nel gelo
e nel cupo silenzio della città
stringe le radici, nascoste
come un ferito le sue cicatrici.


***

Trovare in casa all'alba abbandonati
i vostri giochi, uno Zorro
trasformato in motociclista
o su un cavallo sproporzionato,
un telefono colorato senza pile
un laccio delle scarpe
o una maglietta che sollevo adagio

è ricevere dal mare della notte
i segni di una terra,
di una riva che non vista
si sporge al mio naufragio.


"e brucia via l'ipnosi / dei cerchi d'orologio": questi versi si offrono come ondate dai ritmi inattesi, anche se i settenari sono abbastanza presenti. Ma il contrappunto ha effetti madrigalistici, cioè segnala passaggi particolarmente carichi di senso, e così fanno le dislocazioni sintattiche e gli enjambements: "dire mio / amore come dire niente". Il lessico è volutamente quotidiano ma accoglie ma riferisce in maniera poetica anche i minimi eventi facendone un'istantanea di valore assoluto.
Davide Rondoni è nato nel 1964 a Forlì. Ha pubblicato diversi libri di poesia tra cui Il bar del tempo, Guanda 1999, e Avrebbe amato chiunque, Guanda 2003, con i quali ha ottenuto i più importanti premi di poesia in Italia. Sue poesie sono presenti nelle migliori antologie italiane di poesia contemporanea. È tradotto in volume o riviste in Francia, Spagna, in Russia, negli Stati Uniti. Dirige le collane di poesia de Il saggiatore e Marietti. È autore di teatro e di programmi televisivi di letteratura. Ha fondato e diretto la rivista «clanDestino». Dirige il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.

martedì 20 febbraio 2007

da Biometrie (Italo Testa)

(Manni, Lecce, 2005)

Retine


Di ora in ora, appena scatta un allarme
da qualche parte una luce si accende
tra le tende il tuo corpo si nasconde
dalla donna che nella stanza dorme.
Poi dal frigo un sibilo si propaga:
imbevuto di una tinta acida
il quadro luminoso della strada
sovresposto sulla pupilla dilaga.
Se un elicottero verde veleno
sovrasta le insegne della notte
battendo ai vetri, dal decimo piano
manda il tuo segno al profilo alieno
fondi la retina al cerchio radiante
del dio in acciaio metropolitano.


Gli altri

Hai visto gli altri in fondo al giardino
l’uomo in divisa che pianta la tenda
quello è tuo padre, sorpreso si volta

e scarica l’arma, brilla nel piombo
la fronte dell’ombra che al suolo ricade
e nella sabbia conficca la lama.

Hai visto nella luce del prato
la maestrina distesa e morente
la ferita del ventre si allarga

e combacia con il taglio di vita
l’apertura che al mondo ti invita
ad uscire dall’incavo al giorno.

Hai visto a brevi tratti sul verde
dissolto da un moto o un respiro
uno che lento si porta nel mezzo

quello è tuo figlio, col sangue alla bocca
schiude i passaggi, ripete l’oblio,
simula un gesto e addenta un papavero.


Nel ventre dei canali

Poi scendiamo a scrutare il fondo dei canali,
nella melma lascia un’impronta la tua spina
dorsale: l’acqua non soffoca, l’acqua
arrossa le congiuntive, gonfia le orbite
in cui si consumano i resti del giorno.

Scendiamo ad immergerci sotto le coltri
di rottami: alla corrente si affidano,
nella corrente corpi indifesi mutano,
di umori s’infiltra la secrezione dell’onda
di linfe s’intarsiano le vene degli occhi.

È con la marea che poi i resti riaffiorano,
la tua pelle dilavata a macerare
nell’incavo di copertoni affondati;
con la marea si specchia il cielo, a morsi
gli sparsi rifiuti riflettono le iridi.

Scendiamo a misurare le buie tane
il ventre dei topi, i desideri infetti;
all’acqua che piaga, nell’acqua che dilava
si ispessisce il manto, si dilata il sesso,
di questa laguna ogni anfratto è palude.


Dopo i segni della mente


Nuota via dalla barriera sommersa
quando il sole si scioglie nell’acqua
come un embrione impastato di sangue:
quando la motonave attracca ad un molo
su cui la nebbia si coagula a strati
nelle piume di un gabbiano tramortito.

Svolta via dalla barricata bruna
che compatta si stringe nei vagoni
e batte alle lamiere come tempie
quando una testa porta il suo cappello
dentro il flusso indistinto dei tunnel
affondati sotto il peso del duomo.

Dormi via dalla barena sepolta
nella volta piombata del cranio
cicatrizza i segni della mente
come la medusa grigia si scioglie
l’ansia, liquefatta nello sterno
nuota via nella placenta nascosta.



Le cose


Ma questo sogno che cadano i denti
una volta ogni due, tre mesi,
e tutti a far finta di niente,
che poi, a tradirci, sono le cose;

la luce intermittente degli allarmi
ci sorprende, irrigiditi, tesi;
il neon che manda lampi sulle scale
ci fissa a un'istantanea delle cose.

La chiave, quando scatta nella porta,
fa scorrere le palpebre sugli occhi,
e l'airbag che tutto a un tratto esplode
ci invita a smarrirci tra le cose;
e l'altro sogno di non arrivare
mai in nessun luogo, da qualche parte
dove valga la pena di fermarsi,
di segnarsi, piegarsi a caso,

imparando attenti a respirare,
e a stringersi negli spazi vuoti
se abbagliati dai fari sulle strade
cediamo all'assedio delle cose.



Alcune delle atmosferse evocate da queste poesie mi hanno ricordato Il mio Carso di Slataper (segnatamente la scena del Dagli, ma anche altre): "Poi scendiamo a scrutare il fondo dei canali, /nella melma lascia un’impronta la tua spina / dorsale: l’acqua non soffoca, l’acqua / arrossa le congiuntive, gonfia le orbite / in cui si consumano i resti del giorno."
Una capacità di usare anche in non semplice decasillabo e le assonanze e le polisemie sintattiche per creare un ritmo a volte giocosamente sinuoso vitalistico e sensuale, ma forse slataperaniamente venato di una Angst che fonde tratti neocrepuscolari a immagini posfuturistiche. Una poesia filosofica, ma senza snobismo.
Italo Testa (1972), vive attualmente a Milano. Ha pubblicato per la poesia la raccolta Biometrie (Manni, Lecce, 2005) e il poemetto Gli aspri inganni (Lietocolle, Como, 2004). È co-direttore della rivista on-line di poesia L’ULISSE. Per la saggistica ha pubblicato di recente il volume Ragione impura (Bruno Mondadori, Milano, 2006).

Parola & Immagine 2 (Bernardo M. Gianni)


il precedente intervento è qui

«Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire la tua voce sopra il clangore della metropoli. Sono stanco, Dio. Non riesco a scorgere il tuo volto in questa storia». Scriveva così, a ventisei anni, Jack Kerouac (1922-1969), autore “di culto” della letteratura americana del secolo appena trascorso. Dieci anni dopo medesima è la domanda e ansiosa resta la sua ricerca: «Cosa sta cercando? Mi chiedevano. Rispondevo che aspettavo che Dio mi rivelasse il Suo Volto».
Abbracciando con lo sguardo la città dal crinale di San Miniato al Monte, nonostante la vertiginosa eloquenza dei suoi grandiosi organismi di architettura spirituale, lo stesso interrogativo abita e deve abitare anche nei nostri cuori. Sangue, potere, vapore e rumore assorbono e sfocano i segni della presenza di Dio, il Suo Volto pare levigato se non inghiottito dalla quotidiana erosione di un tempo vorace e impaziente: è la storia dei nostri giorni, quella storia che Giorgio La Pira definiva «inquieta», quella storia che quasi sempre si lascia ricostruire solo come arida cronaca, refrattaria a qualsiasi disegno che sia una pur tenue filigrana di senso…
Ci doni allora il Signore un cuore capace di attendere, ascoltare e sperare –è l’umile e gloriosa epopea dell’autentico credente-, attesa fervida e fruttuosa, ma anche silente, perché «è bene per l’uomo attendere in silenzio la salvezza» (Lam 3, 26). Un cuore capace d’esser grembo di un occhio audace che sappia intuire, oltre la nebbia sporca del vetro, oltre il riflesso fallace delle nostre sembianze, e anche dentro al ventre scuro della nostra città, l’orma di luce del passaggio fedele del Dio-con-noi, la trascendenza dipinta sul volto del prossimo, la bellezza sofferta ma autentica della realtà creata, che è segno, bagliore e prolessi dell’eterna beatitudine del Regno.

«Mantieni, o Signore, la mia carne nella Tua eternità»
(J. Kerouac)


Amen!


Bernardo Francesco Maria Gianni, O.S.B. Oliv.
Abbazia di San Miniato al Monte Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
bernardofm@libero.it

lunedì 19 febbraio 2007

Tre poesie (Milo De Angelis)


da Tema dell’addio (2005)

Milano era asfalto, asfalto liquefatto. Nel deserto
di un giardino avvenne la carezza, la penombra
addolcita che invase le foglie, ora senza giudizio,
spazio assoluto di una lacrima. Un istante
in equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi,
si fece luminoso, si posò respirando sul petto,
sulla grande presenza sconosciuta. Morire fu quello
sbriciolarsi delle linee, noi lì e il gesto ovunque,
noi dispersi nelle supreme tensioni dell’estate,
noi tra le ossa e l’essenza della terra.


*

Non è più dato. Il pianto che si trasformava
in un ridere impazzito, le notti passate
correndo in Via Crescenzago, inseguendo il neon
di un’edicola. Non è più dato. Non è più nostro
il batticuore di aspettare mezzanotte, aspettarla
finché mezzanotte entra nel suo vero tumulto,
nella frenesia di tutte le ore, di tutte le ore.
Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola
la morte, poche le ossessioni, poche
le notti d’amore, pochi i baci, poche le strade
che portano fuori di noi, poche le poesie.

*

Tutto era già in cammino. Da allora a qui. Tutto
il tempo, luminoso, sfiorava le labbra. Tutti
i respiri si riunivano nella collana. Le ombre
di Lambrate chiusero la porta. Tutta la stanza,
assorta, diventò il primo battito. Il nero
dei tuoi capelli contro il giallo dell’ultimo raggio.
Da allora a qui. Era il primo giorno dell’estate.
Il silenzio ci riempiva la fronte. Tutto era
già in cammino, da allora, tutto era qui, unico
e perduto, nostro e remoto, ardente. Tutto chiedeva
di essere atteso, di tornare nel suo vero nome.



"Morire fu quello / sbriciolarsi delle linee, noi lì e il gesto ovunque": già solo questo frammento ci rivela la qualità della poesia e la statura del suo autore.
Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna nel carcere di Opera. Ha pubblicato Somiglianze (1976), Millimetri (1983), Terra del viso (1985), Distante un padre (1989), Biografia sommaria (1999), Tema dell’addio (2005).

ma di me, passante al cellulare (Gabriella Bianchi)


EPIGRAFE

sparge, precor, flores
supra mea busta, viator

(Ostia, tomba 18 della sacerdotessa isiaca)

Quando la generazione della play station
sarà matura,
l’erba selvatica sarà cresciuta
sul mio nascondiglio,
avrò perduto tutta la mia luce
e invidierò della schiuma
una goccia frantumata in mille schegge

perché è viva sotto il sole
e lo riflette come un diamante
ma di me, passante al cellulare,
non resteranno che parole in forma di poesia:
disegni dell’anima, forse,
o graffiti del pensiero (il mio
esule dal circo mediatico

e perciò immerso nei ghiacci
della solitudine ennuyée).
E tu, passante, che conosci i risultati
delle partite di calcio
mentre tua moglie cucina immersa
nei vapori del gossip,
non fermarti su quell’erba selvatica

che sigilla i miei passi pellegrini
ma procedi verso il nero lucente SUV
per il quale hai ipotecato
l’infanzia dei tuoi figli
e sorridi, perché è sabato
e una ragazzina slava
affamata e triste di percosse
soddisferà le tue voglie.



FERRO di CAVALLO


Viviamo come animali prigionieri
nel padiglione ovest del dormitorio suburbano
ai piedi della città superba e in trono
governata da piccoli lacchè.

Dei boschi antichi restano le antenne.

Il vento ha strie di benzene.

Gli umani urlano eresie.

Il mercato dei corpi lambisce le case.

Il cielo avvampa.


Con una leggerezza che coglie abilmente nel segno, queste poesie di vivisezionano questo oggi così carico di gesti irresponsabili o di responsabilità eluse. Notevele anche l'aggancio classico al senso della morte per gli antichi paragonato alla sua odierna (desiderata ma mai attinta) rimozione: "non fermarti su quell’erba selvatica // che sigilla i miei passi pellegrini…"
Gabriella Bianchi è nata e vive a Perugia. Laureata in Lettere, lavora in Biblioteca. Ha pubblicato quattro libri di poesie; ha vinto alcuni premi nazionali sia per la poesia che per la prosa. E' presente in tre raccolte liriche nazionali. Ha avuto apprezzamenti da Mario Luzi, Giorgio Barberi Squarotti, Maurizio Cucchi (in "Scuola di poesia") e da Mariella Bettarini.

domenica 18 febbraio 2007

da Luce instancabile (Stefano Maldini)


L’ordine dei venti silenzioso

saltellano i tuoi occhi
vento viola nella luce
ancora breve di febbraio

onde radio intermittenze
che io capto tra le mani
conche radar le raccolgo

saltellano i tuoi occhi
ripetono il mio nome

***

c’è un ordine dei venti silenzioso
nell’intreccio dei tuoi capelli
nell’elastico rosso, nello scorpione
della coda – tu diventi una gazzella
io mi inalbero e mi disperdo
faccio le capriole tra i fili d’erba
ti tocco nella luce e lì fiorisco
prendo l’aria nei polmoni
poi mi tuffo e ti scendo scivolando
sulla fronte – adesso sono
una farfalla e gioco con le ciglia
ti giro intorno e mi faccio respirare
nuoto nel tuo collo, nelle tue caviglie
mi sollevo come danzano i delfini
sorvolo l’ambra il profumo della sera
risalgo sbuffo, poi mi poso
soffio lieve sulle rive del tuo cuore

***

promettono pioggia
le nuvole sulla tua fronte
adesso volteggiano intorno
anarchici si infilano i falchi
sono loro le arcate
nei tuoi occhi finestra loro
Matera nudo bianco la sera
scivolosa, senza vento


Un erotismo elgante come un ukyo-e aleggia per questi versi che ci offrono sentimenti e sensazioni amorose in modo metaforicamente ricco, originale e attento a particolari insoliti.
Stefano Maldini è nato a Cesena nel 1972 e vive a Rimini, dove lavora come insegnante. La sua opera prima in versi, Luce instancabile, con prefazione di Ezio Raimondi, è stata pubblicata a Rimini da Raffaelli Editore nel 2005. È inoltre autore di numerose guide dedicate alle regioni italiane, tra cui Puglia (Mondadori, 2003) e Provincia di Forlì-Cesena (Touring Club, 2003).

Inediti da “Correzioni” (Andrea Ponso)


In luogo di lui ci sono io
O mio figlio o nessuno.


(Franco Fortini, Questo muro)


*
Questa ruvida premura di padre che sento
Sulle mani che non vogliono generare.
I boccioli e le gemme che esplodono nelle
Articolazioni per aprirsi alla polvere,
al ronzio estivo delle vespe sul davanzale.



*
Farsi restituire la misura risicata
Del sale prima del prossimo
Dormire. Piantare la mani nei
Grani tiepidi, nei sacchi di lavorato
Vicino ai concimi. Sgravare poi
Dalle scarpe il dolce dello sterco
Vicino alla brace.



*
Ci tiene in vita questo stipendio che ogni
Giorno riverso nella tovaglia a quadri
Grandi del bar della stazione. Colazione
Col vermuth e niente che riesca a deglutire
In pace. Sulla tua voce ho costruito case
Di costrizione e di redenzione.



*
Monconi e chiodi, strato su strato. Detergono
Dal dolore la stretta dei selciati: fermano
L’aria illegittima sulla punta delle dita: come
Cavare la seta dai bachi, d’inverno, o
Dalla vita.


*
E non ti nascondo niente. Sono presente giù in cucina,
con la radio accesa, le orecchie fattesi chiare nel sentire;
ogni giorno scendo le scale, faccio la mia solita colazione
e guardo Samuele: dove l’angelo impasta e germoglia
le viole fresche con il fiele.




*
Le radici sterrate seccano vicino al muro
E l’ultimo errore verrà, e sarà il gelo -
Un angelo chiaro, analgesico, setaccio
sincero e denso, farina. Rimangono li,
con gli altri strumenti: scarpe, bastoni,
suole sporche e camice. Qualcuno,
sudato, te lo dice, passa sul filo
delle tue labbra
lebbra e lavanda.




Che dire? A me i versi di Andrea Ponso (nella foto qui sopra è a sinistra, a destra Massimo Sannelli) ricordano (più che rimembare) che ogni nostro gesto (volontario o meno) è il nodo di una trama sorprendente (piacevole ma anche cruda) e così le parole, specie quelle poetiche, ne sono forse i punti luminosi, quelli visibili a distanza (di tempo e di luogo). Questa loro luce è purificata, netta, chiara in questo autore in modo davvero carico di senso, perché se ne vede la necessità, se ne intravede l'humus e il riverbero su linee di pensiero che è vita, è spirito.

sabato 17 febbraio 2007

da Double click (Marco Giovenale)


(Quaderni di Cantarena, Genova 2005; sono state fatte delle variazioni ai testi, tutti sostanzialmente mutati dalla versione a stampa)



Alza la mano destra, di’ questa
è la mano sinistra. Lo specchio ragiona, ti rivolgi a una
nuvola di doppi di crani a forni di senzienti
e rotori o rasoi che confermano attraverso
lentissime lenti con i calibri con i cenni
cenni in prismi di altri è / hai raison
e che un’ombra - del tiglio - alle spalle mentre parli
non potrebbe
testimoniare meglio al posto tuo.

Fatto scialo dell’ultima razione, nessuno sente
il discorso. Rovesciano le sedie e cercano di divorare il ventre,
fracassano dietro scaffali, razziano con la lingua
denti, terra, aperte
le scheggiano le unghie contro intonaco, a
sangue. Vuoterebbero in un boccone il cranio
alle madri non l’avessero già fatto. Dé-jà-vu-vé-cu.
Incollanerebbero da bocca ad ano feti non ne avessero
già fatturato copyright. («Modulistica? La? Pacchi, fiumi, mari»).

È questo. È il
coetus - pensato pensante - ha distribuito i beni
- riferiti inversi. (Mano di carte).

***

Quaranta minuti non sono molti
per l’immortalità dell’anima prima
del lavoro.

Nessuna convocazione per Adapa, né babbi carne oro.
Gesti di altri, solo, sospettati
con la coda dell’occhio sinistro
- alla fine un insetto invisibile sul dorso
della mano, l’angelo della realtà,
che non ha soglia - nemmeno un minuto
di apparizione nel clip. Ma schiacciamento
a terra dell’orizzonte di vertebre
su cui la vipera lascia nel sangue
scaglie esagonali, calcolabili - forse
compiute in loro nulla presa
a senso.

A sciami i giovani ragni passano i gusci
dorati divorati, dei vecchi, e i batteri
ne hanno sciolto le giunture
che si sfaldano. Rimane la cheratina
sonora, trasparente sotto i raggi

***

Gli sbirri più vicini
vedono che disegna,
tornano indietro nella
pellicola, uscire escono
nel campo opaco.

La donna che è prossima oltre
finestra, in pratica nuda,
in un verso di Ashbery,
prima della cortina. Di cornice
a verdi alterni - ferri a cigni - dubbi.

Dopo sveglio per un periodo
- minuti - non riesce a vedere le cose
lo ferma la piega, il curvarsi
come pensato, o carta impressionata
(tesi/arsi) contro
ogni oggetto, fatto tempo - interrotto.
Sì - poi diceva - è così
e poteva vedere.

Pianeta materia eco - tutto
è tempo compresso, più denso
e tutto in un punto, e cruna, getto
insieme luce sovrascritta.

Lo sbocco del fiume sa e sta contro
muro, cieco che non ragiona

***

Dopo tanti schiamazzi in rottami di sanscrito,
chilometri cubi di sangue
è arrivato al cadere del sole, come dicevano,
occidente lui precisamente
- via Boncompagni - già sotto visiera
Yale, leggera, senza felpa, ha duty, cleaning
floors, or a huge crystal-green
loft of light,
come ricorda
Vienna, stando in una
goccia di Boemia risospesa
ellittica - mentre ballano
vittime e la valse ha soffio, al cuore, da fuori
lo guardano passando quando apre
a ventaglio i cenci - sta a pulire
alzàti rari gli occhi poi perché
in alto, sulla parete, anche di notte, mentre lui lavora
può vedere l’orologio, che gli dice
a che punto siamo





"Dopo sveglio per un periodo / - minuti - non riesce a vedere le cose": un esempio della sintassi franta di un autore che illude (mette in gioco) la/e lingua/e, ingloba lacerti di citazioni, lascia indizi per riferimenti letterari e non solo e, con accostamenti lessicali stocasticamente improbabili, crea cortocircuiti spiazzanti e immaginosamente stimolanti (a volte indubbio segnale di un assurdo che provoca tutti noi, credenti o meno): "Lo sbocco del fiume sa e sta contro / muro, cieco che non ragiona"; "Dopo tanti schiamazzi in rottami di sanscrito…"

Marco Giovenale è nato a Roma, dove vive e lavora - in una libreria antiquaria. È stato organizzatore di mostre. Sito: Slowforward. È redattore di GAMMM, IEPI (International Exchange for Poetic Invention), Absolute poetry, Italianistica OnLine, Biagio Cepollaro E-dizioni, «Akusma», «Bina» (con Massimo Sannelli), e «Sud» (ed. Dante & Descartes). Collabora con recensioni di poesia e letteratura alle pagine culturali del «manifesto». Testi in riviste: su «Nuovi Argomenti», «Poesia», «Rendiconti», «Semicerchio», «Private», e altre. Sei libri di poesia: Curvature (2002), Il segno meno (2003), Altre ombre (2004), Double click (2005: da cui qui si estraggono testi variati), Superficie della battaglia (2006), e l’imminente Criterio dei vetri. Un e-book di prose: Endoglosse (pdf, 293 Kb, 2004, Biagio Cepollaro E-dizioni); e un chapbook di nuove “endoglosse” pubblicate da Arcipelago: Numeri primi (Milano, 2006).

venerdì 16 febbraio 2007

Tre inediti (Filippo Davoli)



(il volto di Filippo è inserito all'interno di un noto quadro di Edward Hopper)


Escono la domenica mattina
con le fiammanti utilitarie
e un’andatura da accompagno,
quasi fermi nel sole invernale.
I contadini solidi nel riposo
col cappello che rade la cappotta
sorridendo bruniti
al ciglio deserto della carreggiata,
frenando nelle discese, rallentando
al ticchettio del contagiri.
Vanno alla passeggiata con la macchina
e tutta la famiglia.
Sono piceni assennati, porosi
nel tratto bianco delle residue mulattiere.
Le donne hanno il vestito buono fiorato,
l’oro di casa le orna come madonne.
E le bambine portano le orecchine
con il pendaglio, e un filo di smalto
e le trecce imbrigliate nei fermagli.
Ostentano con garbo un italiano
che l’assedio dei simili tritura.
I fumatori arrochiti parlano basso,
pasteggiano le parole con sobrietà.
Le vecchie si salutano per strada
sollevando la testa e le mani,
beate nel cappotto coi bottoni grandi
e il collo di finto pelo. Vanno alla messa
dolci nel passolento della lucidità.

(aprile 2006)


Quieti palazzi della periferia
che vi ergete a baluardo contro i monti,
che difendete le disperazioni
di chi vi abita. Quieti palazzi domenicali,
dove le donne che piangono
tacciono nel segreto di passi leggeri
trascorsi al fuoco basso della tenacia,
al giusto della pazienza.

Quieti palazzi della periferia
dove i figli sonnecchiano aspettando
di sentire i rumori di cucina
coltivando il riposo
e una luce radente veste i letti
prima dell’abbandono. Adusti salgono
i giovanetti come la mattina.
Fingono nelle loro sicurezze
di non sapere quello che conoscono
nel fondo dei loro muscoli. Guardano
il giorno con apparente tranquillità,
appesi al filo fragile dell’infanzia.

Quieti palazzi indenni
alle usure del sentimento, alle ubbie
dei cani, al graffio ripido dei gatti,
che resistete
immobili alle tempeste, nell’antica
saggezza del sopravvivere.

(agosto 2006)


Ritornano dal calcio con i borsoni
grondanti. Pregano alta
la calata di casa, azzurrobianchi
sul nero luccicante della pelle.
E un sorriso che abbaglia
quando all’amico scorto di lontano
porgono un cenno.
Il traffico li lambisce come un vento
leggero, ne asciuga la pena.
Vorrebbero
essere come il carpino
mentre cresce il meriggio abitato
dai moschetti e dai passeri,
dal fondo della radice negli ariosi
fiocchi lungo i pendagli
spiccando il volo breve primaverile,
la fragile allegria di un riscatto.

(maggio 2006)




"Fingono nelle loro sicurezze / di non sapere quello che conoscono": credo sia una riuscitissima definizione dei poeti… sì qui si parla di giovinetti, ma questi appunto ci rimandano al fanciullino di pascoliana memoria, a quella mistura di ingenuità, stupore, captazione ed espressione meno schermate dei sentimenti, delle persone, del mondo (visibile e invisibile) e degli eventi che dovrebbero caratterizzare l'occhio tendenzialmente iperlinguistico di chi si esprime in versi.

Filippo Davoli (autopresentazione):
«Da ottobre 2005 sono educatore professionale di minori extracomunitari senza tutela. Grazie a questa esperienza, tutto quello che ho fatto prima, pur non rinnegandolo, mi appare oggi, se non inutile, asfittico (la stanchezza, peraltro, era in corso già da un po’). Se dunque qualcosa ancora ho scritto (e tuttavia volutamente senza progettualità), è per significare che non ho chiuso snobisticamente un ciclo, ma – per così dire – ho assecondato il successivo, il cui invito continua a indicare ancora una volta più in là, ma la percezione se ne fa più certa.»

giovedì 15 febbraio 2007

Prendere il largo (di Marino Mazzola)

monaco camaldolese

Omelia Lc 5,1-11

«Prendi il largo e calate le reti»
Sotto la brezza leggera che increspa il lago, due barche avanzano faticosamente verso la riva, colme fino all’orlo di pesci ancora pulsanti di vita. Dopo una notte trascorsa senza prendere nulla, la pesca, alla fine, è stata eccezionale: un segno di buon auspicio per quel domani che il Signore annuncia ai futuri pescatori di uomini, pronti a lasciare tutto per seguirlo.
Un avvio certamente sorprendente e, per molti versi incoraggiante…
Ma oggi, per noi, ci chiediamo: quale tipo d’impatto provoca questo testo di Luca, su quali aspetti della vita ci spinge a riflettere? Come incide i nostri giorni?
Ho identificato almeno tre spunti di riflessione e, forse, altrettanti insegnamenti.

Il primo: affidarsi al largo: prendi il largo, dice Gesù a Simone. Anche oggi riceviamo lo stesso invito; “in questo mondo, di cui sempre più veniamo a conoscere le forze che lo muovono; in questo mondo, cui siamo riusciti a carpire il segreto della molecola fondamentale della vita; in questo mondo, nel quale l’uomo ha imparato a badare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’ipotesi di lavoro Dio e dove si è visto che tutto funziona anche senza Dio” (cf. Vito Mancuso, Per amore, rifondazione della fede), oggi, siamo ancora invitati a prendere il largo.
In quale senso? - ci domandiamo. Io credo che ci si muova al largo del mare e, metaforicamente, della vita, quando apprendiamo a distanziarci un poco dai litorali conosciuti, da un già attraversato, da una certa visione di noi stessi e degli altri; ci spingiamo al largo quando non ci concediamo totalmente al mondo e quando abbandoniamo una falsa idea di onnipotenza umana; non per chiuderci, per sottometterci al destino o rinunciare all’uomo, al contrario, per avere vita piena, per scommettere nuovamente su energie rinnovate, per stupirci ancora dell’inedito, del gratuito, del sovrabbondante.
Scriveva Bonhoeffer che le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare.
Chissà quante volte anche questo brano evangelico di Luca è stato così superficialmente interpretato; le capacità umane non ce la fanno, dunque interviene Gesù sostituendosi all’uomo. E la pesca è miracolosa!
No, Gesù non si sostituisce all’uomo; Simone e i suoi calano e, presumibilmente, ritirano le reti; Gesù è colui che incoraggia a un’azione che apparentemente sembra vana ma che si rivelerà feconda. Dio consola chi soffre, ma “egli non sta ai limiti, quando le forze umane vengono a mancare, bensì al centro, non nelle debolezze ma nella forza, non in relazione alla morte e alla colpa ma nella vita e nel bene dell’uomo”. È qui che l’uomo può trovarlo: se non si rassegna alle prime sconfitte, alle prime cocenti delusioni ma continua a ricercare il bene, la vita, la bellezza, l’amore! È qui che la pesca può farsi abbondante!

Secondo insegnamento: rimanere umili: a questo punto Simone si prostra: Signore allontanati da me perché sono un peccatore!
Simone si è affidato, è partito alla ricerca della verità, del bene e ha trovato; ha pescato molto, moltissimo, ma ciò che ha imparato è soprattutto la disciplina dei sensi e dell’anima. Cosa significa?
Immaginiamo per un momento quello che Simone può aver sentito dentro di sé dopo una notte di vana fatica: sconforto, impotenza, incredulità. Sì, ma tutto non è come appare. Dopo la visita di Gesù, Simone percepisce i cambiamenti, si sensibilizza all’alterità, si libera da un’immagine della vita statica e ne sposa una più dinamica, segnata dalla grazia! Perché tutto può mutare!
Ed è la percezione del cambiamento che gli consente di riconoscere il suo peccato; confronta due situazioni e non cade nella superbia, nell’arroganza dei potenti; - quanto sono stato fortunato, vediamo se mi riesce ancora una tale pesca, riproviamoci subito!
No, Simone ha capito che non tutto dipende da lui, che una parola autorevole l’ha preceduto e che edificando su tale parola può compiere, a sua volta, cose grandi!
Simone ora sa guardare il vuoto di cui è fatto, di cui siamo fatti anche noi e non è più succube del suo io. Vigila sulla realtà, ha sviluppato uno sguardo più attento, uno sguardo interiore.
Come possiamo imparare a vigilare? “Una delle più importanti forme di vigilanza è ricercare per l’anima il nutrimento buono. In mezzo a tante dannose tossine, il nutrimento buono esiste e occorre riconoscerlo. Vi sono riviste buone, libri buoni, musica, cinema buoni!” (Vito Mancuso)
Il nutrimento migliore, insegnavano i monaci antichi, è dato dalla contemplazione, che non è un esercizio astratto ma la capacità di porsi in contatto con la sorgente più pura dell’amore, Dio, che dispensa la sua energia come luce assoluta del bene. Nutriti da questa energia si diventa in grado di immettere gratuitamente forza positiva nel sistema-mondo attraverso il proprio lavoro. I contemplativi tentano di fare questo nel modo più alto (cf. Mancuso). E ce ne sono, anche nelle nostre città!

Terzo insegnamento: radunare l’umano. Gesù risponde a Simone: Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini. Che cosa può significare? Un banale invito a fare proselitismo? No, certamente. Gesù invita Simone a radunare l’umano; Gesù invita tutti quelli che lo seguono e lo seguiranno a rintracciare, in mezzo al fango, il pesce d’oro, sotto la corteccia sbrecciata del male, la resina preziosissima del puro bene, nella pietra infranta il metallo nobile della vita. Radunare l’umano, farlo uno, non all’insegna di un falso monismo di facciata (del quale siamo continui spettatori, speriamo non protagonisti); radunare l’umano non per appiattire la realtà.
“L’unità del reale – scrive Mancuso – si dà per il cristiano a livello spirituale. Per chi cerca il bene e la giustizia, l’unità del piano dell’essere non è data a livello storico o naturale; una tale unità si può ottenere solo a prezzo della propria energia”, della sequela autentica, in un processo di liberazione da tante catene e affinché gli altri non diventino il nostro inferno (Sartre) ma il nostro paradiso, il Regno qui, ora, multiplo, plurale, divino!
Si tratta di agire, radunare, pescare, tutti verbi che coniugano azioni. Questo manca, talvolta, al nostro cristianesimo, un cristianesimo da sacrestia, comodo, troppo comodo!
Lo scriveva bene Bonhoeffer per il giorno del battesimo del nipotino: “L’origine dell’azione non è il pensiero ma la disponibilità alla responsabilità. Per voi pensare e agire entreranno in un nuovo rapporto. Voi penserete solo ciò di cui dovrete assumervi la responsabilità agendo. Per noi il pensiero era molte volte il lusso dello spettatore, per voi sarà completamente al servizio del fare”. Non si tratta di attivismo sterile e forsennato, ma di azione lucida e coerente. Sarà davvero così? Lo è? – ci chiediamo.
Il Signore del tempo, il Dio della vita ci doni l’energia del suo Spirito, il sostegno del suo Amore per compiere la Sua volontà.

mercoledì 14 febbraio 2007

La caduta del mulo (di Alessandro De Santis)



Vaghiamo simili a fantasmi coi nostri avambracci

dal codice a barre

Tutti sommersi e tutti salvati

L’Eterno in un trolley come tanti

Gli occhi fissi nella terra, sul percorso

Sbucciamo le pelli della mano

nel nostro circo dell’ipocondria

I pali dei filari come croci

solo presente

immemore & motorizzato

Nella grotta il pianto mescolava col sudore

Era il rombo

assassino della luce

L’odio come posa

nei begli occhi di un padre

(e ) tra le botti sgorgato il sangue all’assaggio

Prima che ancora le nostre bombe ci strappino le carni di dosso,

prima che ancora il calore si porti via i nostri poveri denti,

prima che ancora qualcuno abbia il tempo di ingiuriare la nostra memoria,

prima che ancora qualcuno racconti una verità dalle labbra straniere,

dopo che mai la paura ci avrà riempito i polmoni,

dopo che mai l’oblio si sarà incubato nelle nostre ghiandole,

dopo che mai le nostre unghie avranno smesso di scavare,

dopo che mai la Messa avrà consumato le sue lacrime,

Signore prendici e tienici vicino a te…


La caduta del mulo è un testo «che ho scritto di recente per la giornata della memoria, nel mio paese Lanuvio (Rm) legata al sanguinoso bombardamento da parte tedesca. Èun testo particolare, una sorta di preghiera che mescola alcuni miei testi passati nella parte al tempo presente, aggiunge dei versi legati alla memoria del passato bombardamento alle grotte ed un finale giaculatorio»: così mi scrive Alessandro De Santis la cui poesia, specie in questo caso, penso sia molto vicina alla sensibilità storica di Luca Ariano e Alessandro Rivali: anche se ciascuno di loro la declina in modo del tutto personale, il valore etico e sociale della parola – espressione di una tradizione che non nasce solo dallo ieri ma anche dall'altro ieri – viene infatti sobriamente ribadito da tutti loro.
Alessandro De Santis è nato a Roma nel 1976. Si è laureato in Storia contemporanea con una tesi sull’emigrazione marchigiana verso la Capitale nel secondo dopoguerra. Vive a Lanuvio. Suoi testi sono apparsi su diverse riviste e le sue Pupille sono presenti nell’antologia poetica Voci Condivise (Fara Editore, 2006). Ha recentemente pubblicato la sua prima raccolta autonoma per Joker edizioni, Il cielo interrato.

Poesie e Manifesto dei poeti irpini (Vincenzo D'Alessio)

Nelle mie montagne c'è la morte!
La respiriamo nei fili d'erba nera
Nelle macchie malate dei castagni
Cancro che sgorga dalla terra
Madre dei nostri padri
Merito infame dei politici assassini
Carichi di denaro e di potere illesi
Dopo ogni frontiera di voto
Immondizia cerebrale invicibile domani
Noi poveri uomini sconfitti di libertà.

gennaio 2008


ai giovani laureati

Andare via dall'Irpinia
terra benedetta dai politici
servi dei padroni
nel dolore degli onesti
di notte senza regole
coi bagagli affastellati
fuggire dai saltimbanchi
dalle immagini di strada
abbiamo bisogno d'acqua
per i figli e i nipoti
pane del duro lavoro
frutto del nostro sudore
torneremo solo al sabato
con Rocco e Leonardo*
resteremo sempre distanti
partigiani repubblicani.

(7 maggio 2007)

* Rocco Scotellaro e Leonardo Sciascia.


(pubblico su cortese segnalazione di Vincenzo D'Alessio, uno dei firmatari – a sinistra nella foto assieme a William Stabile – questo documento che "compie" 10 anni e che stimola a una riflessione sul legame tra poesia e territorio, inteso anche come milieu sociale e politico)

Dal cuore verde di questa antica terra dove "Stettero un dì per queste balze irpine / i vecchi padri come rocce immoti / ed, al fulmin de l'aquile latine, / offerser petti a libertà devoti." (Pietro Paolo Parzanese)
noi, eredi dei troppi inganni perpetrati dagli ipocriti politici, innalziamo la nostra poesia al di sopra delle barriere delle ideologie, delle falsità, delle menzogne, per lasciarle respirare la libertà da sempre avversata: "Passano ore vuote / nell'orologio della vita, / sotto il bianco soffitto / che osserva animi / fermi al parcheggio. / Chiedo perché il tempo / come senza valore, / ti è sottratto / per la patria inesistente." (Domenico Cipriano)
Noi sappiamo di costituire una minoranza continuamente emarginata.
Troppe volte presa di mira dalle calunnie inutili e dalla stampa prezzolata. Conosciamo il silenzio delle stanze dove viene tormentato il nostro spirito, questo delle malinconie, dei poveri inascoltati: "Noi usciamo dal collo / dello stivale / il duro sud / l'Egitto degli ebrei / un ghetto di coloni e braccianti / che hanno abbrancato secoli / di ceneri / e mietute spighe di elemosina." (Pasquale Martinello)
Siamo per questo stanchi di esodi inutili e di egemonie violente portate in nome della politica dello Stato. La poesia è chiamata all'amore per la propria terra.
In un secolo come il nostro, che chiude con troppe infamie, è necessaria la testimonianza civile. Nello spirito della semplicità che ci unisce agli uomini senza una patria, nel segreto che distingue la nostra attivit, lanciamo nell'azzurro il nostro aquilone di parole: ”E se ci affoga la morte / nessuno sarà con noi, / e col morbo e la cattiva sorte / nessuno sarà con noi. / I portoni ce li hanno sbarrati / si sono spalancati i burroni. / Oggi ancora e duemila anni / porteremo gli stessi panni. / Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti." (Rocco Scotellaro)

Guardia Lombardi, 13 aprile 1997