martedì 27 dicembre 2011
Concorso Pubblica con noi sc. 6 gen 2012
Art. 1 Fara Editore bandisce la XI edizione del concorso Pubblica con noi. Due le sezioni a tema libero: sez. A. racconto o raccolta di brevi racconti inediti; sez B. silloge poetica inedita.
Art. 2 Le opere dovranno essere inviate entro il 6 gennaio 2012 direttamente al nostro indirizzo elettronico info@faraeditore.it in un unico file.
Art. 3 L'opera inviata (non più di una per autore) deve essere inedita (o comunque l'autore deve ancora detenerne i diritti; a tal fine l'autore deve dichiarare l'opera frutto della sua inventiva e di sua libera disponibilità) ed essere: per la sez A. tassativamente compresa fra un minimo di 10 cartelle (o 18.000 caratteri spazi inclusi) e un massimo di 25 cartelle (o 45.000 caratteri spazi inclusi); per la sez. B. comprendere un massimo di 30 poesie e non meno di 20 e non superare comunque il numero complessivo di 1200 versi (righe bianche incluse).
Art. 4 È richiesta una tassa di lettura di € 25,00 che dà diritto a ricevere (solo in Italia) il romanzo di Daniele Borghi Pinocchio non abita più qui e il Poema dell'esilio di Gëzim Hajdari: la tassa verrà pagata solo dopo aver ricevuto i libri (nel plico inseriamo bollettino di c/c postale già compilato).
Art. 5 Il partecipante dovrà allegare o inserire nel messaggio di posta elettronica un breve curriculum vitae (non più di 10 righe) con dati anagrafici, indirizzo tradizionale, e-mail e recapito telefonico.
Art. 6 Premi. I primi 3 classificati della sez A. e i primi 3 classificati della sez. B. verranno pubblicati congiuntamente in un libro a cura e a spese dell'editore, che si riserva gli interventi editoriali che riterrà opportuni. Gli autori pubblicati riceveranno 3 copie omaggio godendo dello sconto del 40% (+ spese di spedizione) sulle altre copie che volessero eventualmente acquistare.
Art. 7 Ogni autore selezionato per la pubblicazione riceverà un accordo di edizione che gli lascia la libera disponibilità della sua opera previa citazione dell'edizione Fara. Non verrà dunque corrisposto alcun diritto d'autore.
Art. 8 Il giudizio verrà operato insindacabilmente dall'editore ed da giurati di sua fiducia. I risultati verranno comunicati ai partecipanti via posta elettronica (v. Art. 10).
Art. 9 Qualora si ritenesse non soddisfacente la quantità e/o la qualità delle opere pervenute, la pubblicazione premio potrà non aver luogo.
Art. 10 I risultati verranno comunicati ai partecipanti e nel web presumibilmente entro il mese di marzo 2012 (saranno pubblicizzati nel nostro sito www.faraeditore.it e nei blog narrabilando e farapoesia). Non è prevista una cerimonia di premiazione.
Art. 11 La partecipazione al Concorso Pubblica con noi implica l'accettazione di tutte le norme indicate nel presente bando.
Art. 12 Ai sensi della legge 96/675 i partecipanti al concorso consentono a Fara Editore il trattamento dei dati personali e delle loro opere secondo quanto previsto dal presente bando. Resta inteso che potranno in ogni momento richiedere di essere cancellati dalla nostra banca dati.
Gli indirizzi ai quali mandiamo la comunicazione sono selezionati e verificati, ma può succedere che il messaggio pervenga anche a persone non interessate. In caso ci scusiamo e vi preghiamo di rispondere a questo stesso messaggio specificando l’indirizzo mail che volete venga cancellato dalla nostra mailing list.
lunedì 26 dicembre 2011
Un inedito di Luca Artioli
RIFLESSIONE
Dal ’54, lo Stato della Somalia è indipendente grazie all’intervento dell’ONU. In loro onore, il popolo somalo ha è deciso di adottare una bandiera nazionale capace di ricordare i colori della stessa Organizzazione: un’unica stella bianca, al centro, su sfondo azzurro.
L’indipendenza conquistata è quella dal nostro Paese, per la cronaca.
Poi, è vero, le cose sono andate come sono andate e, di certo, oggi, in Somalia - soprattutto fuori da Mogadisco - è un vero far west.
Ma su questo non possiamo definirci esenti da colpe.
Questo “Corno d’Africa” è come la cartina tornasole della cattiva coscienza “made in Italy”.
L’abbiamo infatti colonizzata, perduta, ri-colonizzata, gestita, sovvenzionata, politicizzata, consegnata agli americani, lasciata a se stessa, ai Signori della Guerra, ad Al Quaeda, all’Etiopia ed ai trafficanti di ogni genere.
Insomma, con i tempi che corrono, la Somalia è divenuta un vero e proprio “duty free” a cielo aperto.
Chi può “prende”, gli altri se ne stanno un passo indietro.
E spesso, hanno vita breve.
Come i bambini soldato, ad esempio.
Come Ahmed, che è appena nato e ancora non sa nulla di ciò che lo aspetterà.
Come la storia dei suoi fratelli, quella che sto per raccontarvi.
ESERGHI
“Quando l’infanzia muore, i suoi cadaveri vengono chiamati adulti ed entrano nella società, uno dei nomi più garbati dell’inferno. Per questo abbiamo paura dei bambini, anche se li amiamo: sono il metro del nostro sfacelo.” (Brian Aldiss)
“Poiché non ci è possibile ritornare bambini, la sola cosa che possiamo fare è impedire loro di diventare come noi.” (Anonimo)
“Voglio eliminare tutti i bambini degli zingari.” (Giancarlo Gentili, leghista, ex Sindaco di Treviso per 2 mandati)
PANE NERO
Figlio della luna, Ahmed
è qui il cuore rimasto
è qui il cielo di Somalia
intero, infinito
-tutto-
che fan male, ancora,
le stelle da contare,
troppe per la vista
nella notte faticosa
del primo pianto.
Sei un guscio di noce
venuto da un pertugio,
da un cono remoto
di utero stuprato
sul nome “madre “,
un colpo di fucile
nel buio ribelle
ti festeggia maschio, ti prepara
presto al mondo
che non vorrai.
Tuoi sono gli occhi
catrame languido,
pane nero,
tua è la fame che
chiede con la mano
e poche, pochissime
le risposte: sette sono
i fratelli che ti precedono,
sette le bocche, le lingue,
la parola “aiuto” da saziare.
Sul campo delle esercitazioni
Tahlil, undici anni
(seme primo della progenie
chiamata bastarda)
già ti aspetta,
stringe AK-47 e buca teste
fatte ora con la paglia,
ma presto d’ossa, cervello
e pensiero assetati
di una fuga che non si placa.
Sorella Amita nelle cucine
spenna polli
ogni giorno taglia verdure
per i soldati di turno,
piccolo fiore del deserto
lavora rapida, precisa
sa della promessa:
qualche frattaglia, qualche patata
e si manda avanti la famiglia,
ma l’altra deve restare.
Saadyya, sangue del tuo sangue,
soltanto nove gli inverni
per essere donna
i capelli scuri, lunghissimi
le labbra piccole del lampone
e quel terribile trattenersi
la sera, a comando,
che la guardia vuole rispetto
e una bocca ubbidiente
ancora un po’, fra le sue cosce.
Nazri, Mohammed, Kahlil, Zhabiya
benedica Allah questo giorno
mentre cede alla terra,
sani e salvi anche oggi,
l’età appena per correre
in avanscoperta, quando
sui sentieri è pericolo di mine
e nessuno sa che i giochi
sono altri, che la Valmara
le gambe non le restituisce.
L’alfabeto muto dell’oppresso,
è tutto qui, Ahmed, dove
vivere è “dimenticare”
fare in fretta, dove troppo
è lo sforzo del tenersi
addosso questo vuoto
(nel cucchiaino la bava
bianca già sfrigola, chiama l’ago,
il demone che ti salva
da un male più grande).
La Somalia è così, Ahmed
un po’ vittima e un po’
puttana, con una bandiera
che parla di liberazione
e dice basta all’Italia fascista,
quella che offriva
la vergogna del mitra
e poi la mano aperta,
il bacio di Giuda, la replica
nei secoli dei secoli.
Figlio della luna,
sogno per te questo
mondo al contrario
sogno della rosa, dunque
e non più della violenza
del viaggio e non più
delle catene, sogno che tu
possa un giorno sognare,
vedere il tutto - sempre -
anche nel nulla.
domenica 25 dicembre 2011
Un poema di Gabriele Rossetti
con le Università di Napoli "Federico II", Caen Basse - Normandie (Francia),
Birmingham (Gran Bretagna), Oxford (Gran Bretagna) e Yale (U.S.A).
venerdì 23 dicembre 2011
POETI: ORGOGLIO DI FRONTIERA
POETI: ORGOGLIO DI FRONTIERA
Non poeti, né lustrini. Prima uomini, donne, persone capaci, abili nell'espressione poetica. Pessoa diceva “Poesia, farfalla che ti posi sulla testa e rendi più ridicoli maggiore è la tua Bellezza”. Bene, ma sulla testa di chi? Di cosa? Di persone, di uomini. La poesia sta solo sulla testa di chi vuole diventare poeta, non di chi lo è già. “Non dimenticate che siamo tutti apprendisti” sentii dire qualche anno fa a Buffoni. Perché il Poeta troppo spesso incarna il participio passato di un freddo amore per la Poesia, e di fuoco c'è solo il ricordo sostituito dal tiepido che gli sale alle guance nominando i grandi gruppi editoriali che se lo contendono. In questi giovani, nell'elenco di sacrifici che fanno per fermare qualcosa della loro produzione, nell'umile lavoro lontano dai facili applausi, e spesso senza ritorno; nell'affanno di chi forsenna sé stesso per entrare nelle cose, qui sarà più facile osservare il germe della Poesia. Questo reading è pensato per promuovere e incoraggiare il loro pensiero anche nella Terra d'origine. Se la Sicilia è Frontiera, loro debbono essere il nostro orgoglio. Per la tenacia, l'impegno e i sacrifici con cui portano avanti la loro differenza.
giovedì 22 dicembre 2011
Carmelo Lauretta
POETHREE: Andrea Garbin, Luca Artioli e Fabio Barcellandi secondo Dave Lordan
Edito nel giugno 2011 dall’Associazione Culturale Thauma, Poethree: new italian voices, contiene una selezione di testi tradotti in inglese dal poeta irlandese Dave Lordan. I testi che Luca Artioli vede pubblicati su questo libro appartenente a un progetto di scambio e baratto culturale tra Italia e Irlanda, fammo parte di quel corpus poetico che poi è diventato Suture, l’ultima raccolta del poeta mantovano, pubblicata da Fara Editore. Diverso è per Andrea Garbin, le poesie qui tradotte sono estratte da Lattice, libro già edito da Fara nel 2009. Due di queste non sono tradotte da Dave Lordan, bensì dall’americano Jack Hirschman. Infine Fabio Barcellandi, poeta bresciano, non fariano, che vede inserire nel libro alcuni testi poi divenuti parte del libro Folle, di gente, pubblicato nel 2011 da Montag.
Il progetto mette le sue radici a Mantova, al Caffè Modì, come scrive Lordan nella sua prefazione, dove Andrea Garbin, Alessandro Assiri e Fabio Barcellandi si esibiscono con Alexandra Petrova e Jack Hirschman, serata a cui il poeta irlandese, al tempo residente nella città gonzaghesca, assiste. Da Mantova all’Irlanda il passo è breve. Lordan, dopo aver partecipato ad alcuni eventi, tra cui quelli del Movimento dal Sottosuolo presso il caffè Galeter di Montichiari,e quello che vede Chiara Daino presentare Barcellandi a Milano, sfida i nuovi amici a raggiungere l’isola verde con un libro tradotto e presentarlo davanti ai poeti irlandesi. Detto fatto. Il libro esce grazie all’interesse e all’intraprendeza di Serse Cardellini, viene presentato in una tournè che dura dieci giorni e che tocca le città di Dublino, Galway, Bray, Trim, Cork e Derry, tra Istituti di Poesia, Musei e Pub malfamati, ha un buon successo e ora diviene titolo stesso della collana Poethree, che vede Thauma impegnarsi per far conoscere i poeti italiani all’estero.
Doverosi dunque i ringraziamenti a: Dave Lordan; Dr.Kit Fryatt & Dr.Michael Hinds (Irish Centre For Poetry Studies Mater Dei, Dublin); Dr.Philip Coleman (Trinity College, Dublin); poet Nina Karakosta (Greece); poet Kei Miller (Jamaica, Scotland); Aoife Doyle, Kalle Ryan & friends of Garden Party Bray Head; MC Stephen James Smith (for The Glor Session - International Bar, Dublin); Michael Farry, Paddy Smith & others Boyne Writers poets (performance in Trim); poet Elaine Feeney (Galway); poet Kevin Higgins (performance at Sheridan Wine Bar, Galway); poet Connor Kelly (Castle Bar, Derry); poet Paul Casey (Ó Bhéal Poetry Event at Long Valley Pub, Cork); poet William Wall.
Prefazione di DAVE LORDAN
Non ci sono abbastanza lingue nel mondo per la poesia, non ci sono abbastanza voci, non abbastanza parole, non abbastanza linguaggi. Così come il vuoto-spazio in cui si espande costantemente e il vuoto-silenzio in cui incessantemente versa, la poesia è inesauribile. La poesia vuole essere in grado di comprendere ogni cosa, a dirla tutta, vuole e non vuole il mondo secondo il suo capriccio. Anela all’impossibile unione fra parola e carne, o, come suggerisce Barcellandi, all’inverso di questa possibile relazione. Forse questa magia non potrà mai accadere, ma volere che accada è l’unica cosa che potrà mai capitare a un poeta. Se la poesia non è magia, se non possiede poteri divini, non è nulla. Se non può fare accadere le cose, è solo una parte di quella montagna di merda che è tutto il resto. Noi poeti, non crediamo in nulla di umano. Tutto l’umano ci è alieno e noi vogliamo solo uscire da ciò che è umano e andarcene il più lontano possibile. Il linguaggio, ancora più alieno degli alieni, è il nostro assistente, il nostro collaboratore. Noi poeti, non crediamo in nulla, se non nella remota e sacra possibilità di diventare angeli e abbandonare così la nostra razza e il nostro pianeta. Guardateci. Guardate come ce ne andiamo. Essere un poeta significa condividere, o almeno provarci, l’insaziabilità della propria arte. Questo vuol dire essere sempre delusi da come stanno le cose, essere sempre disgustati da come le cose sono andate finora. Significa essere un attore con un infinito appetito per le novità, per le nuove immagini e i nuovi suoni, significa essere un attore dall’inesauribile energia per la ricerca e lo scarto, cercando e scartando sempre nuove forme e nuove sonorità. Significa anche saper riconoscere che ogni novità si esaurisce nella sua iterazione e deve essere immediatamente abbandonata in favore del successivo atto creativo, quello che ancora non si è verificato. La poesia è una pratica di totale distacco dal passato, di totale disprezzo per il presente, di totale orientamento verso il futuro e verso ciò che sarà. I poeti possono essere confusi come meschini, frustrati, cinici, distanti, distratti. E così sia. Se ci odiate è perché ve lo permettiamo, o perché non ci siamo nemmeno accorti di voi. «Non ci può essere alcuna poesia dopo Auschwitz». Chi conosce l’imprecisione poetica che attraversa gli spassosi scritti di Theodore Adorno avrà già sorriso all’ironia insita in questa assurda dichiarazione, soprattutto quando viene citata da quegli idioti che cercano di dimostrare come la poesia abbia a che fare con la morale o il suo affossamento, balle. La poesia è completamente disumana e amorale. È altrettanto citabile, cioè può perfettamente prestarsi, sia ai torturatori che alle vittime. Può fornire scuse ai presidenti. Può impedire ai rivoluzionari di vivere i momenti più bui della prigionia. È del tutto indifferente ai destini e alle fedi sia dei rivoluzionari che dei presidenti. La poesia ante- e post- data l’umanità. Nel lungo periodo non ha nulla a che vedere con noi e non ha alcuna responsabilità per i nostri orrori, che potrebbero altrettanto essere gli spasmi neonatali del prossimo stadio evolutivo quanto le mortifere convulsioni di gorilla mutanti. Ma la poesia riconosce e reagisce soprattutto alla terza possibilità, quella della stagnazione, che ci si possa aggrappare come muschi alla terza pietra dal sole, che la nostra cronica e impestata sacca di dolore e contaminazione sia qui per restare. Non sappiamo a cosa serva la poesia, ma sappiamo a cosa si oppone: stasi, inerzia, umanità. Così il poeta, per essere un poeta, deve essere antiumano. Non esiste qualcosa come un poetico umanista. Non fatevi ingannare da Barcellandi. È a sua volta un espansionista. Infatti, il minimalismo è la più astuta di tutte le tecniche poetico espansionistiche. Concentra il mondo e tutte le sue noiose correnti e storie nello spazio di poche righe che ci assalgono con la massima energia e potenza. Gli stupidi non ne verranno influenzati. Non ne saranno travolti. E questo è un altro aspetto della poesia: ci aiuta a dividere lo stupido gregge dal visionario eletto. Il visionario è colui che vede come l’umanità, nella sua forma attuale, non sia abbastanza buona, debba essere superata. Gli stupidi sono molto felici di come sono, e, inoltre, desiderano che il resto di noi li ammiri per questo. Quando qualcuno ti dice “non sento” la tua poesia, “mi è del tutto indifferente”, quella persona sta scrivendo la parola ignorante nella sua anima. E questo è vero soprattutto se questa persona è, o si definisce, un poeta. Bisogna ricordare sempre che la medesima percentuale di poeti conosce la poesia, come i sacerdoti conoscono davvero Gesù. Un sacco di idioti diventano poeti perché pensano che sia un modo facile per ottenere una posizione o un modo semplice per farsi notare, ma tutto quello che realmente fanno, anche e soprattutto quando una stanza piena di altrettanti idioti viene coinvolta in una rituale estasi di applausi alle loro parole-rifiuto, è affermare la loro grassa idiozia. Questo è tutto: un poeta che lo fa per l’applauso è un idiota-totale. Barcellandi è sottile e pericoloso. Lui non vuole piacerti o pendere dalle tue labbra. Non gli importa cosa pensi di lui. L’ha già fatta finita con questa merda tanto tempo fa. Noi poeti abbiamo molto per cui ringraziare i nostri primi bulli. Ci hanno purgati. Ci hanno detto la verità. Ci hanno reso intoccabili. Luca Artioli è un metafisico dell’ubriachezza e delle incontrollabili pulsioni del corpo, dell’estasi di uscirne per andare oltre. Egli ci ricorda che il sé deve essere munto di tutto ciò che valga davvero la pena per poi essere abbandonato il più velocemente e spietatamente possibile. Il corpo umano è una specie di capsula utile per breve tempo, per una forma esotica di evoluzione, una capsula che deve essere scambiata con urgenza per un’altra non appena la capacità e la possibilità di farlo ci si proporrà. Questa urgenza è quello che noi chiamiamo gioventù, spesso artificialmente aiutata
e prolungata da make-up e giocattoli, narcotici e medici. Erotismo, amore, infatuazione, sono la parte della reiterazione del mondo che possiamo meglio sopportare. Il tempo, così come ha fatto con scarafaggi e costellazioni, ci ha formati per sopportare la noia del sesso, facendocelo passare come qualcosa per cui eccitarsi. L’evoluzione non può assolutamente permetterci di annoiarci con il sesso, anche se, visto dalla luna o da un raggio di Sirio il sesso umano è la cosa più noiosa e prevedibile di qualunque altra. Non importa quante altre volte sia già successo in precedenza un giovane amore deve sempre sentirsi speciale, come fossimo i primi a cui sia mai capitato. Ma l’amore è una truffa perpetuata dal DNA per motivi impossibili da indovinare. Queste poesie di Artioli documentano, ed esprimono in maniera totalmente nuova, queste antiche, sovra- e disumane pulsioni che associamo con il termine di amore. Per garantire la sua sopravvivenza il sesso imita la novità, e Artioli, ebbro di desiderio, traboccante di esso, imita questa imitazione, con stimolanti novità. Come nel lavoro dei grandi maestri Rumi e Baudelaire, ubriachezza e sesso, chiamati vino e amore, sono molto di più dei simboli di una mera intossicazione carnale.
Sono la via d’uscita, la via attraverso, la via oltre. Essi sono il mezzo con cui trasformare un flirt in un amplesso, l’autodistruzione in un’arte vanagloriosa. Elevarci e fare sesso sono gli stessi mezzi con cui liberarci da noi stessi, da quegli orribili grovigli di tabù e di memorie, mentre avvertiamo la sensazione / che tutto possa ricominciare / sulle labbra rosse del vino. Per rinascere è necessario essere terribilmente ubriachi, nudi e ricoperti di sangue. È difficile poter dire di essere davvero rinati senza essere risacrificati. Un vero erotista, come Artioli, sa che lo scopo dell’orgia è proprio quello di diventare insensibili e indistinguibili, in un modo o nell’altro. Il corpo dell’amante tenta anche Andrea Garbin come l’unione fra oblio ed eterno ritorno.
È forse lì:
che si rifugia
è forse lì che si ricorda la
[sera.
Sono capelli che odorano
e che colorano la notte
come liane che portano di
sogno in sogno
cullando la flebile crocefissione
dei nostri cespugli vitali.
Ma non è sufficiente, non lo inganna, né tantomeno il suo pubblico:
half-man, half-beast mi dice Jack
non riusciamo a uscire
dai sentimenti del letto
Quando non crediamo più nei sentimenti del letto, quando non serviamo più i nostri cespugli vitali: ci resta solo la fine di ogni cosa? Leggendo Garbin si ha l’impressione di un grande volatile, o di un uomo volante, che passi sopra le città alla fine del tempo mentre bruciano e sprofondano, urlando l’elenco di quanto si stia perdendo mentre fuma e si eleva. Alla fine l’uomo volante sarà anch’esso
inghiottito dalla fiamma, scomparirà nel fumo su, su, su nell’alta atmosfera fino a disperdersi e diventare irrintracciabile nel nero e infinito oltre. Diverse forme di metamorfosi e scomparsa sono tropi importanti nella poesia di Garbin. Ed è qui che si rivela l’intuizione di un’ultimativa e fondamentale identità di trasformazione e scomparsa. È come se ogni porzione di un infinito e infinitamente diviso essere fosse costantemente alla ricerca di potersi allontanare dall’attuale forma decaduta in un’altra, futura, stabile e idealizzata. Cerchiamo il nostro riposo, senza posa. Alla fine della giornata, don Chisciotte cerca sempre una locanda in cui riposare, in cui dormire. La poesia ha organizzato il mio incontro con Fabio Barcellandi al caffè Modì (che fortuna per loro, a proposito, che luoghi di tale innata irrilevanza come i caffè della Lombardia e i pub del centro di Dublino siano stati miracolati dalla presenza di poesia, e poeti) poco lontano dalla terrificante Piazza Sordello, nel bel mezzo della fortificata città medioevale di Mantova, nel maggio del 2009. Fabio mi ha in seguito messo in contatto con la rapida evoluzione dell’attuale scena poetica
alternativa presente in Lombardia, e con alcuni dei suoi principali protagonisti, tra cui Andrea Garbin e Luca Artioli. Mi hanno portato ovunque fosse possibile performare i miei testi e sono entusiasta di poter restituire il favore. Nonostante la stasi, la corruzione, la decadenza e l’umanità da cui siamo tutti circondati, nella marcia e giovane Irlanda come nella marcia e vecchia Italia, tutti noi, con e tramite gli altri, preserviamo il vitale attaccamento alla nostra vitale e spietata arte. La seguiamo di comune in comune, di bar in bar, di paese in paese, di poesia in poesia, di corpo in corpo, ogni volta e ovunque ci possa condurre. Perché non cercate di unirvi a noi? Il fallimento è probabile, ma se sarete uno di noi sarete i benvenuti, e condivideremo con voi alcuni dei nostri segreti, alcune delle nostre magie.
Gli autori:
DAVEL LORDAN
LUCA ARTIOLI
FABIO BARCELLANDI
ANDREA GARBIN
mercoledì 21 dicembre 2011
Un inedito di Luca Ariano
Alberto Mori su Sebastiano Adernò
La pietra è pronta da sgrezzare, ma senza scalpello. C’è il chiodo. Pietra è corpo che si inchioda e fa da perno, rigetta da sé con una torsione sofferente tutto il suo male e si sente trasformare.
Antonin Artaud nelle sue Poesie della crudeltà, voleva scrivere piantando una penna viva nella carne così il suo corpo trasceso non obliasse più la sua metafisica completamente umana. Sebastiano Adernò cerca parimenti una espansione del corpo mistico.
lunedì 19 dicembre 2011
Performance “finanziaria” di Alberto Mori
Sopra un inedito natalizio di Alessandro Ramberti
La gioia della Natività, intesa nel senso cristiano, da più di duemila anni accorda alla varia umanità un senso privilegiato di Pace. La festa della nascita è antica, quanto antico è il gesto, non solo per l’essere umano, di vedere nascere un figlio. Ma non è solo Pace, la forza che l’Umanità ricerca. L’essere “Uomo” in troppe occasioni cede alla violenza, alla distruzione, alla guerra. Tutte queste forze, opposte alla Pace, si muovono per un’unica condizione razionale: l’economia, il consumo/possesso delle risorse che l’azzurro pianeta offre ancora.
Il luogo natale per eccellenza, per noi cristiani, resta Betlemme. La povertà l’essenza che nutre l’accoglienza. La memoria, come volle il fraticello di ritorno dalla Terra Santa, come spinta ad annientare il potere del “mostro / nutrito dal buio(…)” La poesia di Alessandro Ramberti, inedita, inviatami per accendere il lume della Speranza è quella che segue:
Betlemme è già salvezza
Vieni
crolla dentro questo minimo oceano
spalanca gli scomparti diabolici
le linee seghettate dall’usura,
sciogli gli schemi di ghiaccio
che covano il mostro
nutrito dal buio che ingoia ogni fiamma…
accompagnaci col tuo braccio potente
lungo questo esodo ululante:
un tuo soffio e anche il mare
si prosciuga, un gesto
e le onde abissali si placano.
Attraverso un sipario di fuoco
la meraviglia costringe le ombre
all’esilio, ci sorprende
di flusso lieto dei giusti
le labbra sono musica
incontro al mistero:
ognuno percependo
che il suo cammino è tenda
e il volto tuo
universo.
Il vocativo, utilizzato dal Nostro, è la traccia indelebile della preghiera. Ma l’umanità di questo XXI secolo non prega più con il fervore dell’abbandono nelle mani di una entità infinita. Prega costantemente per la propria individuale salvezza giornaliera. Non riesce a conoscere i nomi, delle migliaia di vite scomparse in fondo “a le onde abissali”, protese all’esodo, per scampare alla Fame, alla malvagità del Potere terreno, alla schiavitù delle Malattie. Continua il poeta “crolla dentro questo minimo oceano”, ma il dentro di un singolo non muove l’oceano mare dell’Umanità in declino. L’unica forza resta l’incontro, negli occhi che neanche hanno più forza per una lacrima, con i nostri malati negli ospedali, con i migranti, i rom, gli ultimi nella strada. Quante volte ci siamo interrogati e prodigati. Ma “il sipario di fuoco” del vivo Amore non respinge “le ombre all’esilio”, né le divora. La “tenda” del buon samaritano è stata divelta. Il volto del Dio dei Cieli è scomparso nelle luci delle città e dei paesi. Anche il suono delle ciaramelle, che Giovanni Pascoli ricordava essere tema di rinnovata morale e dolore dell’esistere, si spegne lontano.
Vorrei accostare i versi di un altro grande poeta del Novecento che bene si intonano con la voce solista di Ramberti:
“(…) Oh, lava e scarnifica e spazza
Chi fra i bari del mondo non volle aver bazza:
Sgrumando la lugubre scoria
Che c’inviliva alla gente,
Snuderai l’oro e la gloria
Che non si vendon né recan piacere,
Ma splendono d’un baleno
Che irraggia invisibile sugli altri con Dio.
(Clemente Rebora)
domenica 18 dicembre 2011
Su Magari in un'ora del pomeriggio
Magari in un’ora del pomeriggio è l’evocazione attenta e precisa, profonda e costante di un tempo nel quale si dispiegano in ricordi a tratti limpidi a tratti distanti le immagini che ad una ad una riaffiorano. Ricordi che si trovano in quel “tu” più volte ripetuto, puntato sempre nel punto esatto, nel centro perfetto del vago sussurro, un “tu” che nell’assenza si fa presenza costante.
Un gioco di opposti forse, come un equilibrio di opposti è il cosmo, abitato di luci e suoni, abitatore di quel tempo indefinito che è il tempo della costante attesa ma anche della perfetta unione.
Unione limpida, chiara, surreale in una luce pomeridiana che è il luogo privilegiato del ricordo ma anche lo spazio indefinito del pensiero. Di quei pensieri che “[…] sono sufficienti/ a volte ad evocare simulacri/ di percorsi appena definiti/ che subito svaniscono posando/ lontano da altri sguardi/ i gusci morti dei desideri”. Una luce che nel suo riflesso abbraccia il costante percorso dell’esserci, una luce che nel contempo è luce di confine tra la mattutina vitalità del giorno e il riposo serale d’un cielo che nel suo sfumare si fa sempre più evocatore di vaghe speranze.
Ed è nell’armonia del tutto che si dispiegano i frammenti di quell’essere stati, un tempo, unione terrena, perfetta, ad accogliere oggi tutti quei moti lasciati agli anni.
Terrena come solo può essere l’incontro di due anime, e poi ancora la solitudine di una sola che ricorda, che riemerge che ritrova: “Immobile rimango ad osservare/ le astronavi che attraversano il cielo:/ un modo per ricordare a me stesso/ che ogni mio movimento appartiene/ alla terra e alla terra solamente”.
venerdì 16 dicembre 2011
Su Famelica Farfalla di Silvia Zoico
nota di lettura di AR
È dirompente ed epica la poesia di Silvia Zoico: ci fa scorrere sotto gli occhi la storia con immagini penetranti e un timbro sconvolgente. La raccolta si apre con un poemetto in ottave (metro che caratterizza il libro) dedicato al nonno (1914-2004) in cui si parla dei lager: “(…) / ed interprete divenni con bucce / di patate che una cuoca polacca / mi permise di raccogliere e zucchero / trovato abbandonato in una sacca / che sostenne le gambe come grucce / (…)” (pp. 9-10). E così viaggiamo per pagine intense dove con icastica sobrietà gli orrori della guerra, le lacerazioni famigliari, le “deviazioni” a cui povertà e indifferenza costringono, emergono col profumo poderoso di una voce che arriva al punctum: “… il tavolaccio / del carcere profuma di giacinto / azzurro, le manette sono ghiaccio / tintinnante, rincorrono falene / la lanterna cantata da Marlene” (p. 35). Nella Nota dell'Autore troviamo scritto: “Sono fameliche, le voci dei morti. Mi hanno assediata per anni e afferrata con prepotenza alle viscere, finché non ho ubbidito alla loro necessità di essere trascritte. L'«angelica farfalla» del Purgatorio dantesco e di Primo Levi si è trasformata in un risucchio all'indietro” (p. 37). Questo à rebours è sicuramente uno degli scandagli più sapienti e dolorosi, oscuri eppure lampeggianti della poesia italiana contemporanea, cercando, ma con estrema dicrezione, quel bagliore di eternità che la parola poetica, se bella, vera ed esatta, esprime in maniera indefettibile.
mercoledì 14 dicembre 2011
martedì 13 dicembre 2011
Andrea Temporelli su Magari in un'ora del pomeriggio
mi permetto di darti del tu perché siamo praticamente coetanei. Ho ricevuto da Giuseppe Carracchia il tuo libro. È stata una lettura molto piacevole, perché i tuoi versi conoscono la misura metrica e delle immagini. Non ci sono strappi, cadute, esibizioni, ma una compostezza dello sguardo e della voce che sono molto apprezzabili, considerata la qualità media di quello che si legge in poesia.
Forse però questo può rappresentare il limite attuale della tua scrittura. Il tuo discorso amabile e profondo forse non sfonda ancora l'orizzonte, non trova qualche soluzione e qualche immagine, e magari qualche tema, che garantiscano ai tuoi versi uno stigma peculiare.
Ma la lettura del tuo libro è stata troppo piacevole per non offrirti queste mie opinabili impressioni.
Un saluto,
Andrea T.