Il Laboratorio Edizioni, 2008
Il poemetto Il margine di una città,
scritto dal poeta Francesco Filia in anni dal 2004 al 2007, è un racconto
dell’esistenza di Francesco all’interno della città natale, della città
fantastica, della città cercata. Un viaggio che inizia dal gioco, ricerca la
luce, la gioia, medita costantemente sulle “mura” che obbligano l’esistenza a
frangersi in ombre, ricordi, “per saggiare l’alterno esistere di una vocazione
/ il sottrarsi dei morti alla parola” (frammento VII).
Il poemetto non è certo “esercizio” facile per un poeta: epopea equivale a
racconto poetico. Filia ha raccontato in cinquantacinque frammenti, tutta
l’integrità e l’unità d’azione dell’esistenza di Francesco e della città che
l’accoglie. Integrità dello sviluppo del racconto: dall’infanzia,
all’allontanamento per lavorare, al ritorno come padre di una nuova vita. Unità d’azione dove tutto si
svolge tra memoria e dolore del presente, sempre con gli occhi attenti agli
accadimenti, lo spirito proteso a migliorare l’esistenza per chi viene: “(…)
Sarà la corsa mozzafiato / un brandello di cielo a difendere il respiro / da
quest’assalto di spinte e polvere ingoiata / a restituire una misura alle
occhiaie dei nostri volti” (frammento XII).
Il poeta è il profeta, ma nessuno gli dà
ascolto: “(…) con il tempo che ci chiama a raccolta / consunti,
consacrati” (frammento X); “Come una profezia che si compie” (frammento XXIX).
La città nei suoi margini è vera e
indefinita. La città che si svela è imperfetta e incompiuta, vista dal mare o
dalla sommità del terrazzo: “Città verticale nutrita dalle sue viscere vuote /
(…) varco / dove sopravvivere” (frammento XXVIII). Qual è la città del poeta? La città non marginale, quella che idealmente vive di se
stessa nella completa luce, nell’infinita gioia, nella gratuità della civiltà
condivisa: “Dimoro nell’alba delle strade, nel primo / vagito di una piazza,
sul filo di ombre / che salgono lungo questo muro, nel mattino dopo / di tutti
i sogni” (frammento LII).
Anche noi vorremmo una città che fosse
così! Anche noi abbiamo lottato, atteso, fatto germogliare i prodromi di cittadini
nuovi, per delle città nuove!
Abbiamo, come scrive il Nostro, “Ricostruisco il passato negli occhi di
mia figlia” (frammento LV). Ma la condanna delle città è quella dell’assenza
delle voci vere, delle troppe ombre, delle pistole puntate alla testa per
rubare anche l’anello nuziale al viandante. La gioia di vivere non è nelle
città, non è nel loro margine. Tutta la città ruota su stessa, in questo
poemetto, come una roulette russa: “(…) città vorace di figli e notti / in un volto assente dopo un collasso
/ a fine corsa” (frammento II).
Come per Francesco, di questo poemetto,
così anche per noi c’è stata l’emigrazione verso la parte alta dell’Italia, per
altre città, per altri volti senza nome. Per tutta la vita un pendolo che
oscilla tra la necessità del lavoro e il ritorno alla quotidianità delle mura
costrittive del nostro Sud. Una gioia trattenuta nel petto, senza possibilità
di realizzazione completa. La voce che grida, insieme ad altri, la necessità
dei cambiamenti che tardano a venire, o non avvengono.
Amarezza e riscatto. Come per il
Francesco del poemetto che leggiamo; il messaggio che viene reso stupendamente,
nei versi lunghi, narranti, affidati all’enjambement per avere la forza di
tradurre l’energia dell’epos; del personaggio che si svela nel cuore delle
cose, degli altri esseri viventi:
“Ogni cosa è accaduta e le gambe hanno
messo radici /
su questo muro. Ora non
posso più scendere, posso
solo spaccarmi.” (frammento
III)
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