lunedì 31 ottobre 2011

DUE POESIE DI “CATTINA” (Domenica Melillo)


presentate da Domenico Cipriano


Cattina (Domenica Melillo) è irpina, 24enne di Avellino. Mi ha fatto leggere alcune poesie che mi hanno incuriosito. I temi sono intimistici, amorosi, ma riescono spesso a uscire fuori dal personalismo autobiografico. Sono testi che sorprendono per la loro ricerca immaginifica e, anche quando riprendono elementi della natura, danno vita a soluzioni non scontate. Vi propongo queste due poesie inedite.
(La foto è di Lorenzo D’Amore).
 


VITAMINA C

Piovono mandarini
sul mio capo delicato.

Ammalata di salute e di vita
sbuccio frutta a fatica
come fossimo noi
a svestirci di tutti i dolori.

Perché le mele mi piacciono croccanti
morderti è tutta un altra cosa.

Se piango
è per le gocce d'arancia negli occhi
non abbracciarmi
sono gelata.

Mangia la frutta
che ti fa bene.




STUDIAMI, IMPARAMI

Parti dal presupposto
che io sono assente.
Per trovarmi dovrai
scendere nel buio,
partorire idee all'istante
componendo suoni meravigliosi
come te, per me soltanto.

Dovrai cercare il tempo
piantando semi, che
cresceranno di salici
piangenti, sorridenti
come fosse marzo,
giocheremo
puri come cani
nel parco.

In primavera imparerai
la pazienza,
sono un fiore
che sboccia d'Autunno.

sabato 29 ottobre 2011

Su Financial di Alberto Mori


recensione di Oronzo Liuzzi


L’immenso teatro della vita. La moda. L’economia. Finzione. Funzione. Le strategie. Sviluppo. Il grande urlo della realtà. I passi della performance.
Siamo continuamente immersi e attratti e abbagliati e trafitti dalle leggi di una economia che “traccia Money Design”. Siamo. Alberto Mori. Financial.
Racconta e ci trasmette le vicissitudini dei “Gesti umanati in questo atrio bancario”.
Tutto quello che la lingua articola mediante simboli e manovre diventa espressione comportamentale “Con estratto conto in mano”.
Gesti preparatori e varianti fonetiche si susseguono con ritmo frenetico e senza incertezza di pausa nella poetica del pensiero di Mori.
Mediante la sua scrittura che non ha niente in comune con il passato e tramite il legame tra significante e significato il lettore riesce a cogliere l’essenza di invisibili ombre e lo schema dei fondali e il gioco delle parentesi e le componenti di una rovina e la trasformazione della storia e l’informale di una conoscenza dello “Zerbino danaro sonante”. Financial.
La pseudosoggettività della comunicazione si raggela all’idea di un progresso sempre più impoverito “mentre immagine dissolve”.
Scritto asciutto minimalista Alberto Mori distribuisce sulle pagine con consistenza e coerenza gli elementi materici che costituiscono l’asse portante della forma linguistica avanzata e progressista per una articolazione intesa come esigenza possibile del nostro tempo “profughi in fuga dal portafoglio”.
Il senso si annuncia con lo scopo di suscitare riflessioni con un impatto imprevedibile del gesto “Dissolve il corpo solvente”. Financial. Alberto Mori.

venerdì 28 ottobre 2011

La nuova raccolta di Tiziano Fratus: Poesie luterane


Edizioni Kolibris di Chiara de Luca, Bologna


"Autoritratto di paesaggio con gelso"

Ho incominciato a respirare
nel tronco cavo d’un gelso,
avevo varcato la soglia dell’età adulta

per tornare a scardinare il paesaggio
con occhi da bambino, e dentro il fuoco
vibrante di un rugoso monaco zen


"Lavorare la terra"

La gente di campagna lavora, si scassa le mani,
non tollera di lasciare a riposo la terra che gli occhi
vedono.
Qualcuno ogni tanto se lo dice, Ma lasciamola stare…

Un coro di teste ficcate nel circolo stretto d’ombra
che sigilla il respiro sotto i cappelli di paglia, un coro
parrocchiale di lingue che oscillano sotto la canicola
ruggente


"Il vecchio lupo di Lindsey"

Trent’anni guardando alle radici delle ombre,
perlustrando l’anima del bosco in cerca del
lupo che la Joni Mitchell vedeva, e non vedeva

a Lindsey, al tramonto dell’epoca del sogno:
saltare e correre sulle colline di Hollywood,
gli occhi ancora cavi in una guerra mai placata


"Un altro mondo"

Ho tentato di mettere tutto in comunione, ciò che era
mio sarà vostro. Qui nelle mie mani come nelle vostre.
Non hanno capito e sono volati fuori dalla gabbia.

Quel paese oltre le onde dove il cielo è un dono,
e la natura non ti appartiene, il cuore una radice
di tassodio che fuoriesce dalle acque per respirare


"La donna che dava da mangiare alle gru"

Sentiva il loro richiamo, ancora prima di scorgere la luce
del sole penetrare sotto le tende e riflettere e illuminare
le lancette della vecchia sveglia a carica. Usciva negli
stivali

neri con il pansecco sbriciolato, nelle mani, si avvicinava,
non erano mai più di dieci, abbassava la testa e piegava
le ginocchia, per non sembrare più alta, più minacciosa.

Quelle rughe del volto che si asciugavano mentre il becco
di una o dell’altra spiluccava le briciole, gli occhi
della
bambina che era stata. In quei minuti secolari rinasceva

con le lacrime della gioia. La macchina del tempo esiste:
almeno una volta all’anno pregava di poterle rivedere,
prima della lunga notte che attende ogni battito vivente

lunedì 24 ottobre 2011

Su Moniaspina di Monia Gaita


Edizioni L'Arca Felice, 2010, con uno scritto introduttivo di Mario Fresa e interventi visivi di Giovanni Spiniello

nota di lettura di AR

La lingua proteiforme, agglutinante, a tratti cripticamente e arditamente  sperimentale (fortunamente le Note aiutano a sciogliere e a godere di alcuni passaggi oscuri)  di Monia Gaita è bene rappresentata da questa raccolta, letteralmente fantasmagorica per la capicità di creare visioni appoggiate spesso a un ritmo sensuale, incalzante, riverberante, suadente: “La riva s'impelliccia di schiumóso / e si biforca più di ìpsilon, / (…) / in camera dò una marginatura àmpia / ai fogli del sentire.” (p. 9); “Afferro per la falda dell'àbito / rumóri. / (…) / Tracìma il fiume degli acquisti / nelle strade.” (p. 12); “Orba di tutt'e due gli òcchi / la speranza, / nella foltézza orsina / di peli di rammarico”; “Legata come cane / a disetànei guinzàgli di stanchézza.” (p. 15); “Trovarmi pèrsa / nell'intonacatura lìscia dei tuoi occhi” (p. 17); “Le bélve della pioggia s'accaniscono / sui tétti invisciditi delle case. // Agita fazzoletti d'aromi la terra / e il sole passa di sottobanco /appéna una carcassa di splendore.” (p. 24); “Potrei anche morire / nella cambusa di speranza di quest'ora / e batacchiare  ulivi di corallo, / pomìferiradianti, / al desiderio.” (p. 25); “e mónta nelle stive del pensièro / un'acqua / con zigomi da mòngolo / di luce.” (p 26).
Personalmente, come nel caso dei versi appena citati, preferisco le poesie e le strofe in cui la sperimentazione linguistico-lessicale non è vulcanicamente presente: credo che la forza delle metafore, delle immagini e la scansione degli ictus risultino così infatti pienamente assaporabili senza bisogno del velo straniante della parola ricercata o rara o del costrutto “misterioso” o di quel “possente diluvio di suoni e di colori di stupefacente novità” di cui parla Mario Fresa  nell'introduzione. E così sento molto vicina la poesia autografa riprodotta in quarta di copertina che qui ripropongo nella sua interezza perché è pure una intensa, sincera e bella dichiarazione poetica (con un omaggio montaliano):

Quando scrivo
finisco col consultare
il programma dei fuoriprogramma
e sempre mi ritrovo
nel profusamente sparso
di ciò che non volevo
o non avevo precisamente chiaro 
nella mente.
Muoio e risuscito
un milione di volte
nei miei versi.

Nel dialogo fra Autrice e Prefatore che chiude l'elegante raccolta, Monia Gaita afferma che la sua poesia non è facilmente comunicativa e che in genere la poesia va “inseguita”, eppure la “meta è sempre l'ordine, sgretolare il caos, le omeomerie del nulla…” e credo non si possa che concordare: la poesia diventa allora ben più di comunicazione, diventa condivisione.

Contrasti letterari con Resuli e Barcellandi 29 ott

Nella speranza di farvi cosa gradita sono lieto di informarvi di questo nuovo evento che si svolger sabato 29 ottobre 2011, ore 21:15, presso il Caffè Galeter di Montichiari(BS) e che vedrà Fabio Barcellandi presentare il suo ultimo libro di poesie, e Anila Resuli leggere il suo inedito poemetto narrante il suo “viaggio della speranza” che dall'Albania l'ha portata in Italia. In allegato la locandina con tutti i dettagli.

presentazione a cura di Andrea Garbin
con un intervento di Chiara Daino


http://poesiadalsottosuolo.wordpress.com
 



Cena con Conte e Turolo nel veneziano 27 ott

Siete invitati giovedì prossimo, 27 ottobre, alla "Vecia Contea", situata a Scorzé in via Contea 22, per una cena con letture poetiche di Alessandra Conte e Antonio Turolo.

Si tratta di una osteria nota per la sua ottima cucina, con ingredienti selezionati e verdure del loro orto.

Per maggiori informazioni c’è il sito internet: www.veciacontea.it

Naturalmente si può partecipare anche solamente allettura e magari sorseggiando solo un vinello o una birra.

Ovviamente il consiglio è quello di mangiare un boccone, sia perché il cibo merita di essere gustato, sia perché così si vive tutta la serata assieme, ed infine perché mi sembra un bel modo per sostenere queste serate.

Il programma sarà il seguente.
alle ore 20 la cena;
inizio del reading attorno alle 21.45.

Confermare la propria eventuale presenza alla cena entro martedì p.v. al sottoscritto
Marco Scarpa, marcoscarpa82@yahoo.it.

Altrimenti, se pensate solo di venire per le letture, nessun avviso è necessario.

In allegato due poesie, una di Antonio Turolo ed una di Alessandra Conte, per un piccolo assaggio poetico.

Possibilità culinarie:

1° -   piatto unico antipastone:     
salame scottato all'aceto balsamico con polenta
bruschetta al pomodoro
involtino di bresaola con senape, miele e nocciole
formaggi con miele
crostino con colonnata

2°        piatto unico indiano:  
byriani di pollo con basmati
malai kofta (polpettine di ricotta con salsa speziata)
dal (lenticchie rosse, piatto tradizionale)

3° -     tris di primi: 
gnocchetti di ricotta con porcini
spaghettoni fatti in casa con salsiccia e finocchio
trofie pugliesi con rucola

Nel 1° e 3° menù il prezzo è di € 12, escluso il bere, il dolce e il caffè (che le persone sono libere di prendere o meno, o nelle quantità e tipologie che si preferiscono, con un bere medio il prezzo sarà intorno ai 15 €, 16 con il caffè, 19.50 con il dolce).
Nel 2° menù il prezzo è di € 14 (17- 18- 21.50 € come sopra).

In caso vogliate condividere l’iniziativa con altri vostri contatti, ben venga e grazie in anticipo.
Spero di vedervi,
Marco Scarpa
 
 

Antonio Turolo

La ragazzina che sto per bocciare:
tredici anni al massimo,
mai visto in vita mia niente di simile
zero cultura, zero ideologia,
soltanto un’anarchia vitale originaria.

Si butta per terra
dice le parolacce tira i sassi
strappa quaderni e libri.

Le oppongo
una faccia impassibile, di bronzo.
Lei mi guarda con odio ma non sa
quanto io internamente le assomiglio.

***

Un disadattato

mi ha definito un giorno
un sacerdote astuto cattivo penetrante.
Non amavo quel frate, e dentro me
più volte ho sognato di fargliela vedere,
di dimostrargli che non è così.

Adesso stai bene finalmente lavori
post tenebras lux è stata una fase
guadagni perfino
- mi lusingano altri
lo spettacolo deve continuare.

Ma non è vero.

Una tessera di mosaico
scompagnata
una carta
solitaria
un conto che
non torna
un apolide inglorioso.
Io non sono collega di nessuno.






Alessandra Conte

La suora bambola antica
si infila perle di pepe
nelle mani a sgranare il tempo
scaduto in giorni e pagine.
Alitano le sue memorie
tra l'aorta e il naso
nei quaderni bianchi
come le morti,
e lei bambina mangia dadi,
ride, guarda crescere la camomilla.
Rimuore, si chiama femmina
un'ultima volta.

***

Signore dei rifiuti
che scavi con le mani,
voglia tu trovare fermamente
le perle. Mangia i germogli
del letamaio che ti offro.
Scava e guarda lungo.
Fai di noi il tuo pasto fiero.

***

O madre vergine delle vergini
rea dei mille peccati, crepa
il vaso e spaccalo. Tu che al salto
in lungo sul filo usi il nome
che è gioco d'azzardo, fai vacillare
la bocca parola per parola
a custodire il reliquiario
dei lemmi e dei verbi sciolti.

Tracce nel Fango - Libro d'artista


Tracce nel fango? Come a dire nulla, o solo nell'istante. Ci possono essere tracce in qualcosa che non gode di una sua propria forma? Ci può essere carattere, volontà in uomini che vivono su una terra che sfugge dai piedi. Cos'è questa pianura?

Detriti. Sedimentazioni. Riporto. Tutto potrebbe scivolare a mare. C'è un legame tra la morfologia del territorio e l'antropologia dei suoi abitanti? Oggi è più che mai facile rispondere di sì. Lì tutto pare sospeso. La nebbia sta magicamente sospesa. Perché non sale al cielo? Ma invece è il cielo che scende a terra? Altro che spleen. Non resta neanche quel tanto di aere per guardarsi in faccia e riconoscersi. Si parla nel vuoto. Si costruisce su poco. La pianura scoraggia. Chilometri senza il privilegio di una duna. Una terra senza sorprese, piatta, dove tutto è declinato nell'acqua. Si fluttua, si deambula. Ci si deve adattare al fiume, alle sue mutazioni. Non tanto al fiume che si vede. Ma a quello che scorre sotto, capillarmente, per osmosi, di campo in campo, di zolla in zolla, di passo in passo. Il fiume che col freddo si manifesta nella nebbia. E con la nebbia tutto smette di essere luogo, lucus per diventare confine. Come limo, limitare, pessimo dialogare, ovatta, respiro pesante, sogni da risaia, alienazione, slanci di rane nel paese dei suicidi, vinti verghiani, spoon river della sconfinata pianura padana.


Tracce nel fango è l'opera di un poeta quanto mai compiuto. Tutto è talmente perfetto da rendere impossibile anche la più piccola delle obiezioni. Luca Ariano ha seminato così tante pretese verso sé stesso, da essere riuscito, con dedizione e cura, a creare questo piccolo capolavoro.


©Foto di Sebastiano Adernò

Tracce nel Fango”

Libro d'artista e impronta linoleografica di Marco Baj

venerdì 21 ottobre 2011

Su Suture di Luca Artioli

recensione di Marcello Tosi

Aprendo la raccolta Suture di Luca Artioli (Fara Editore), si trova da subito la parola “Rúach”, in ebraico ‘il vento’, ma anche lo spirito, il respiro, forza di vita. È ciò che l’autore definisce “la poesia come resilienza”, capacità di riadattarsi, di far vincere la propria interiore resistenza. Versi composti “in nuce”, perché come nella “dedizione di un mosaico”, sono le parti di un ininterrotto discorso “nei giorni a venire” sulla poesia, con colei con cui “da sempre mi cimento / in desiderio e conoscenza”, come dicono i versi di Mario Luzi posti in apertura.
La poesia appare da subito come oggetto di fede, “atto lucido e sottointeso / - dimentico di restituzione -”. E cronaca di una vertigine, questo muovere alla ricerca per trovare ogni nome alle cose, “l’Omega” che è incisa per sempre “sulla roccia della poesia”. “Fragili apparenze”, queste del poeta mantovano, che va cercando “tra decisioni e incertezze, le stabilità e le oscillazioni di idee e figure”, ha scritto Alberto Cappi.
Per il grande Jack Hirschman: «Luca Artioli, alla veneranda età di 35 anni, crea una poesia che è al contempo saggia e piena di velenosa grazia, la cui musica – sorprendentemente potente e che scaturisce dallo scontro dialettico tra il silenzio e la parola sonora composta – ne fa un poeta capace di udire le profondità offerteci dal linguaggio di oggi.»
Un autore, Artioli, che ha camminato nella Beat generation a fianco di Kerouac come sottolinea Massimo Sannelli nella prefazione, e che disegna pertanto il suo “tragitto senza argini / - oltre il contatto dei binari -”, che ha per confini solo quelli individuati come poetiche “mappature terrestri”: da Cuba a Piazza del Campo, da Volterra alla piana di Spoleto, dalla Val d’Orcia al mare d’Abruzzo, a Fonte Avellana (“Origine che neanche il tempo terrestre / poteva ricucire dell’uomo se non / per un contatto, un travaso…”).
La percezione lucida della fuga che rapisce controcorrente, che conduce oltre ogni spazio, ogni tempo, muove alla ricerca di quel nuovo senso di tutte le cose promesso. E sono poche, poche le parole, di questa lingua che è metà di noi, fatta per non dire, per non essere. Per perdersi nello stupore del principio, nella costruzione di un verso che mai ritorna senza riserve, incolpevole, perché fatto per donare il perché del tempo, della storia: “Ogni cosa è come vetro / e solo un graffio / in superficie”.
Punti, per ricordare il senso del non dire, per creare una sospensione che galleggia e accende l’aria, colma dello “stupore inatteso del se”. Nel Verbo che lento germoglia, dalla vena sulla lingua, sgorga “il sangue del patto… Parola più grande non puoi essere che Perdono”.

La giovane poesia in Campania

di Antonietta Gnerre

Vera Mocella è una giovane poetessa, scrittrice e giornalista avellinese. Laureata in “Lettere e Filosofia” , all’oralità dell’insegnamento, preferisce l’invisibilità della pagina bianca. Giornalista professionista dal 2006, ha collaborato, come stagista, con “La Repubblica”, “la Città”, e “la Nuova Sardegna”, attualmente collabora per riviste e quotidiani locali, come “il Corriere dell’Irpinia”, e si occupa prevalentemente di giornalismo culturale e sociale. Autrice di poesie e di racconti inediti, ha pubblicato Destini di Luce con la casa editrice Libroitaliano world, nel dicembre 2007. Ha ricevuto premi e riconoscimenti nazionali per le poesie inedite e per il testo “Destini di luce”, quali il terzo posto nel premio letterario nazionale “Le notti ritrovate” (sezione libro edito), e il premio speciale – “sezione poesia edita”, nel concorso nazionale “Il Simposio”. Il suo primo libro di poesie è stato ospite della rassegna di Urbino “Parole in gioco”, ed è stato accolto con interesse dai media locali e dai critici campani. Attualmente, alcune poesie sono riportate in numerose antologie poetiche come e riviste quali: “Poeti d’oggi”, il Nomade e le stelle – antologia del premio nazionale poesia inedita III edizione, Versi per il Formicoso, la Montagna Valle Spluga, Narrazioni, Poeti e poesia ed altre. È presente nella Storia della poesia irpina (Dal primo novecento ad oggi), scritta dal critico Paolo Saggese - Elio Sellino editore.  Le poesie che ospitiamo in questa rubrica permettono al lettore di confrontarsi vis-à-vis con il percorso interiore dell’autrice.
  
Terremoto in Abruzzo

Lungo i fiumi di babilonia sedevamo in pianto*1

Miei fratelli nel deserto
miei fratelli di dolore
di carne e sangue.
Lamiere contorte raccontano sogni
un peluche triste
tra le macerie di quella che fu una casa
e mi chiedete ancora forza,
e mi chiedete ancora di non piangere
piangerò lacrime amare di chi non ha lacrime,
piangerò lacrime di pietra dura,
di freddo e sassi,
 lacrime di sangue,
sul sudario che fu la mia terra,
piangerò il dolore e il deserto di chi non ascolta
Ora il Signore lo liberi, lo liberi, se davvero gli vuol bene, se davvero è figlio di Dio*2
Sono seduto su una pietra troppo grande per essere umana
sparito è ogni conforto
protendo le mie mani per stringere i miei figli
abbraccio solo il vento
apro la mia bocca per gridare,
inghiotto solo le mie lacrime.
Cada la notte
notte profonda sulla mia pena
notte buia, oscura, inconsolabile, inconoscibile notte
a me straniera,
notte degli uomini, inconoscibile notte di dolore.
Mio dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?* 3
Ricordo i sorrisi,
i gesti di mani che non hanno più carezze,
Ora il silenzio si stende sulle cose
tra pietre ruvide
e macerie crudeli.
Rachele piange i suoi figli,
Rachele rifiuta di essere consolata perché i suoi figli
non sono più*4
Se madre sono stata non ricordo
forse in sogno lo sono stata
forse in sogno
Ora non scorre sangue nelle mie vene
ora non ho più figli.
Sorge la luna sulle macerie
tramonta la luna e arriva l’alba
E il giorno ha lo stesso sapore della notte.


*1 Salmo 137, 1
*2 Matteo 27, 43
*3 Marco 15, 34; Matteo 27,46
*4 Matteo 2, 16; Geremia 31, 15


L’eternità che non vediamo

Lo sguardo aperto
sa di diamante puro.
A me stessa narciso,
le infinite forme nello specchio.
Il verde degli occhi
si posa sull’anima
siamo luce condensata in un corpo
infinita Grazia
nel nostro corpo divino.
Siamo ostia
bellezza pura, intatta.
Farfalle che si mimetizzano con la vita
sul tronco del destino.
Adolescente l’anima
si svela a se stessa.
Ride.
Ti sorprende il mistero
e la grazia stupita
di essere viva.
La vita che domani sarà un’altra,                                
Il mio essere eterno,
adesso,
qui, ora.
L’eternità che non vediamo.




Particelle infinite

Particelle infinite
ammasso di cellule,
noi siamo più
di questa materia pesante
che rende triste il cuore.
I nostri sensi?
Più di quel che vediamo, percepiamo, tocchiamo.
Veniamo da lontano,
da Galassie profonde
precipitati nel tempo
in questo tempo – di cui non conosciamo il valore.
Ci inseguono i giorni,
come sceriffi implacabili
di Far West sconosciuti.
Le stelle, di notte,
ci chiamano
nel loro vortice eterno
come sorelle orfane di noi.
Il tempo si restringe
 e collassa
in un punto
che è il nostro cuore.
Istante supremo
di conoscenze infinite.
Un angelo attento
guida i nostri passi
non possiamo morire
non moriremo
Luce cosmica
attraverseremo il buio
come in vita attraversammo il deserto.
Non c’è limite al pensiero
né all’Amore
l’intuimmo già sulla terra,
dura e piena di sassi.
Quanto tempo
prima di arrenderci all’Infinito,
e di confessare di non sapere.
Si fluttua
come nettare di fiore
impalpabile e profondo.
Siamo più di noi.
Quante volte,
tra le lacrime,
abbiamo intravisto
piccole verità
che lievitavano nel cuore
fino a diventare musica.



Dio delle nuvole

E dovrei dunque non crederTi?
Non dovrei crederTi, Dio della resurrezione e della Luce?
Dio dell’eterna Gloria?
Non dovrei credere in Te?
Nuvole rosa d’amore
mi crocifiggono di tenerezza,
e non dovrei crederTi, Dio delle cose mute,
non dovrei crederTi, Dio dell’eterno Amore?
Mio Dio che custodisci, come cosa preziosa,
ogni mia sofferenza ed ogni mia gioia,
dovrei dubitare di Te?
Dovrei dubitare del tuo Amore?
Incantevoli nuvole
svelano il tuo passaggio
le nuvole rivelano il Tuo andare.
Le nuvole profetizzano il Tuo ritorno
Signore della terra e del cielo.
Quante lacrime
quante lacrime che non furono vane
perché tu hai ordinato ad un angelo
di custodirle,
come preziosa cosa,
nettare purissimo,
profumo di rose e di gelsomini,
profumo di anime.
E dovrei negarTi, mio Dio,
Dio della gioia,
e Dio Della solitudine,
Dio del silenzio
e  Dio della parola
Dio di ciò che non fu detto
e  che rimane racchiuso nel cuore,
ma anche Dio
di tutto ciò che le labbra
riusciranno a pronunciare.
Dio d’Infinta, eterna misericordia,
Dio dei peccatori
 e delle anime buone
Dio dei disonesti
 E di chi morì per onestà
Dio dei ladri e degli assassini
 Dio dei creatori di luce
 e dei creatori di vita.
Dio dei santi e dei profeti
e Dio degli uomini dal cuore duro
Riversa su di noi la tua Grazia
Amaci con l’immensità del tuo amore
Quante lacrime,
tutte le lacrime del mio cuore
che mai andranno perdute
Quante lacrime
tutte le lacrime di tutte e morti
tutte le lacrime del mondo
che divennero luce
che diventeranno Amore.
Tutte le sorgenti argentate del cuore
che poi giunsero a Te
Tutto l’amore dell’anima
che si ricongiunge a Te
in un unico afflato d’Amore.
Tutto l’amore del mio cuore
e delle mie mani vuote.
Tutta la mia vita
che si dispiega dinanzi a Te
 e  che diventa nuvola.
Tutta la mia vita
che diventa canto
È musica il cuore
È musica il mio cuore
Dio di tenerezza infinita.


Il mio corpo

Il mio corpo negato, ferito, calpestato
perché voi l’avete negato, ferito, calpestato
Il mio corpo di donna africana, di schiava negra
di bambina dell’Est
di schiava bianca, di infibulata speciale
di geisha, di donna oggetto,
di ragazza – kamikaze.
Il mio corpo
oggetto pericoloso
da usare come un proiettile
quando la sazietà dei vostri ardori maschili
non vorrà più prenderlo, crocifiggerlo.
Allora sarà pronto
per essere gettato in un campo
basterà solo che un uomo qualunque
in un posto qualunque,
lo trafigga con i suoi occhi di ghiaccio. Basterà questo,
questo soltanto
per infibularlo di nuovo,
per violentarlo di nuovo,
per ucciderlo di nuovo.
Guardo il mondo dall’alto di un ponte, ora,
e me ne infischio delle vostre parole,
dei vostri desideri.
Volerò giù libera,
tra un attimo,
solo tra un attimo.
Ma non sarò io ad accusarvi,
è il mio corpo di donna
che vi condanna.
Il mio corpo che insegue sogni da bambina,
teneri ciclamini
e profumo di gelsomini
al tramonto.
Sarò libera, infine.
Non vedrò più l’inferno
l’inferno dei vostri volti
l’inferno dei vostri gesti
dei vostri cuori.
Sarà luce,
nuvola e gelsomini
il mio corpo ferito.
Sarà musica.

mercoledì 19 ottobre 2011

Ti prego a Genova 28 ott





sarà presentato a Genova 
Venerdì 28 ottobre ore 17.00 
Residenza delle Peschiere, Via Parini, 5 

Insieme alle Curatrici interverranno Mons. Luigi Giacomo Borzone
ed Enzo Melillo 

Intervento musicale a cura di Nevio Zanardi 

Seguirà rinfresco

martedì 18 ottobre 2011

Alberto Mori presenta Financial a Verona 28 ott

 
Venerdì  28  Ottobre   ore 18:00

Libreria Bocu'
 vicolo samaritana - galleria mazzini 1/b
Verona


Alberto Mori

Financial
 


L'autore sarà presente con performance e videoproiezione


Per informazioni:

http://www.boculibreria.com/

 

Alberto Mori ha la capacità di mettere in scena la parola. Non a caso è un grande performer. Sempre legato all’attualità, magari quella di primo acchito più contingente ed effimera (il mondo della moda ad esempio, di cui ha trattato in Fashion) o meno poetica (i rifiuti di Raccolta, gli oggetti quotidiani di Objects o il mondo della finanza di questa raccolta in cui “Chi prenderà la parola / traccerà la fine dell’oscillazione”). “Ma – come osserva Bonacini nella Prefazione – l’autore non usa la performance poetica per descrivere o esprimere il suo pensiero in un’indagine sull’argomento, egli, (…) infatti, non esaurisce il suo percorso sulla pagina, ma scandisce il suo ritmo con l’esecuzione del corpo fonico intrinseco alla versificazione”. Il tutto giocato con salace ironia, un raffinato uso dell’understatement e del potere evocativo e visionario della poesia.I gesti, i comportamenti, le “strategie”, le bolle speculative, i meccanismi del mercato e i vezzi di chi vi opera… vengono esposti a una luce che ne mette in evidenza le contraddizioni senza bisogno che il poeta li giudichi: il lettore può trarre le sue conclusioni e anche aumentare la propria consapevolezza della realtà in cui si trova immerso: “Finalmente il Top Manager Director / reimposta Asset Operativo / pulsa l’organigramma / inizializza le linee componenti del portafoglio”; “La lista movimenti sbilancia nei passivi / incasellando pendenze / discese fra shoppingare incauto”. Un libro da leggere ad alta voce, da assimilare magari camminando, quasi fossimo anche noi, assieme a Mori, sul palco di questo mondo globale. (Dalla prefazione di Giorgio Bonacini)


Alberto Mori, poeta performer e artista, in più di vent’anni di attività ha costruito e sperimentato una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando di volta in volta altre forme d’arte e di comunicazione: dalla poesia sonora e visiva, alla performance, dall’installazione al video e alla fotografia. Nello stesso tempo, ha collaborato con molti fra i più noti poeti contemporanei, italiani e stranieri, per la realizzazione di letture pubbliche, manifestazioni ed eventi dedicati alla poesia. Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni. Nel 2001 Iperpoesie (Save AS Editorial) e nel 2006 Utópos (Peccata Minuta) sono stati tradotti in Spagna. Per Fara Editore sono stati editi Raccolta (2008) Fashion (2009) Objects (2010).

website: www.albertomoripoeta.com


Grafica di copertina: Patrizia Casadei (Kaleidon, Rimini)
elaborando una fotografia dell'autore “Le cassette di Rossano” (2005)

lunedì 17 ottobre 2011

È uscita la nuova raccolta di Roberto Cogo


cari amici
vi annuncio la pubblicazione
della mia ultima raccolta di poesia dal titolo

SENZA IL PESO DI UN PENSIERO

GIULIANO LADOLFI EDITORE

introduzione critica
Stefano Guglielmin

*
se siete interessati all'acquisto del libro vi rimando al sito dell'editore
www.ladolfieditore.it <http://www.ladolfieditore.it>
  
g.ladolfi@aliceposta.it

in alternativa attivate la vostra libreria di riferimento

*
se qualcuno fosse interessato ad organizzare una presentazione dalle proprie parti,
contattatemi direttamente, ne sarò felice!
roberto.cogo@alice.it
0445 523 774
336 448 224 9

*
un caro saluto a tutti!
roberto

domenica 16 ottobre 2011

Sproloquio su “Suture” di Luca Artioli


Sproloquio su “Suture” di Luca Artioli


Cosa siamo? Sangue e respiro. Di cosa viviamo? Di sincopi e suture. Come un mantice eterno, perpetuo, che tenta di porre rimedio. A cosa? Alla vita che ontologicamente è già strappo, frattura. Per cucire serve la vocazione dell'arte musiva. La dedizione del mosaico, appunto. E necessita un miracolo affinché i molteplici frammenti restituiscano una sola immagine. Ma per i miracoli occorre audacia. E non sarà certo con la mancanza di coraggio del “polso insaccato” dal rimpianto di aver ritratto la carezza quando serviva, che la rosa sboccerà sul collo dell'amata. Occorre invece cucire. Avanti e indietro. Nel futuro e nel rimpianto. Rinsaldare ciò che sfuggì all'andata. Ritornare sui campi dove abbiamo perso. Questa è la grande verità. Desiderare ricongiungerci “in nuove suture”, come nuovi punti di contatto che ci permetteranno inedite prospettive. Di senso. Occorre tornare al buio. Alla nebbia delle creature diafane. Ai ricordi. Attraversare il bosco e ogni dimensione umbratile della memoria. Avere il coraggio di “retrocede (fino alla) cucitura sorgente”. Costasse pure “un lento salasso”. Per capire chi siamo. E il perché del nostro procedere schiena contro schiena. Oppure perché visti di spalle camminiamo a fianco senza mai fonderci? Come minuscole tessere, monadi che non si accorgono, non si riconoscono, e mai si attraversano. Perché questo senso di alienazione? Come fuggirne? Col coltello o con la sutura? Scollarsi o rendersi più saldi? Conviene aderire alla vita? Chiedetelo a Pascal.

Bravo Luca Artioli. Conosce il mestiere di intessere trame.

Sebastiano Adernò

sabato 15 ottobre 2011

SU "MAPPA GIOVANE - VOCI POETICHE DELLA BRIANZA" (POESIA PRESENTE) - RECENSIONE DI FEDERICA VOLPE



Undici autori, un titolo piuttosto esplicativo. Mappa Giovane, progetto di POESIAPRESENTE, vuole mappare la neonata provincia di Monza e Brianza, mostrandone le voci più giovani e valide di cui questo territorio dispone.

Il testo, accompagnato da audio CD che permette di ascoltare concretamente queste voci vive e presenti, sembrerebbe ad un primo sguardo non avere altra coordinata che quella puramente territoriale, ma al contempo non troppo insaporita dall'ambiente in cui essa è stata costruita.

Con uno sguardo sommario sulla carta poetica di Monza e Brianza, insomma, non riusciremmo a scorgerne le coloriture di cui dispone questo luogo lombardo. "Zoommando" sulla carta, però, scorgeremmo qualche nome di Città o di strada, qualche luogo che si fonde spontaneo al linguaggio poetico a disegnare una topografia invisibile e appena tratteggiata.

Gli autori, dunque, non sono che uno specchio della società in cui vivono -più che del loro contesto territoriale- : sembrano viaggiare da soli, essere ognuno una piccola porzione di territorio, ognuno un piccolo paese in cui convivono infinite tradizioni che si sono fuse e amalgamate senza quasi potersi fare riconoscere.
Ogni autore ha i suoi abitanti, i suoi autori di riferimento, le sue correnti di pensiero, le sue concezioni artistiche, e ognuno sembra avere un nucleo ben distante da quello degli altri, divisi da infiniti campi a distanziarne i confini. Eppure la mappa, se guardata da vicino, mostra strade che connettono questi paesi che paiono così solitari e sradicati da una territorialità per donarsi al cosmopolitismo. Non sono pochi, infatti, i punti comuni, gli edifici simili in questi paesi così lontani.

In molti autori affiora la rabbia sociale, o la riflessione filosofica, o l'ossessione linguistica, o la sperimentazione cosmica. Una coordinata, però, accomuna ogni autore, e sembra essere il modulo corretto per costruire e interpretare questa mappa antologica, tracciando nella carta geografica un percorso (il)logico: ognuno sembra abbandonarsi all'impossibilità di capire, spesso anche a quella di essere capito. Ed ecco che la rabbia, la filosofia, l'ossessione, la sperimentazione, non sono fini a se stesse, ma danno luogo ad una consapevolezza ruggente di mancanza di altra reale coordinata.

Mappa Giovane non racconta solo la Brianza e la poesia, ma anche una società attraverso i suoi componenti più sensibili.

AUTORI PRESENTI: Mario Bertasa, Marco Bin, Roberta Castoldi, Adriano D'Aloia; Jacopo Galimberti, Antonio Loreto, Luca Maino, Eleonora Matarrese, Silvia Monti, Rosella Scarabelli, Paola Turroni

giovedì 13 ottobre 2011

Su Ruvido di Aurelio Vindigni


EdizioniProgetto Cultura, 2011, pp. 80, Euro 10,00

recensione di Domenico Cipriano

C’è un contrasto che esprime il senso del titolo scelto per questo libricino di Aurelio Vindigni Ricca: Ruvido. Ma è un contrasto causato dal raffronto tra le foto e i contenuti dei testi, dalla tensione strettamente intima e umana delle parole scelte e l’apparente freddezza degli scorci e degli oggetti protagonisti delle immagini. Un’apparenza, quest’ultima, che cade se ci immedesimiamo nella discrezione usata dall’obiettivo per cogliere i dettagli dei soggetti, o comprendiamo il compito assegnato all’uso dell’ossimoro, rivelato anche nell’esaustiva prefazione di Francesca Innocenzi: «Tra queste pagine riconosciamo un soggettivismo dalle sfumature malinconiche e dalla rilevante pregnanza evocativa, ottenuta talvolta tramite ossimori più o meno velati» (pag. 6).
Le foto ci immergono in una città vuota, un’anima preziosa nella sua solitudine, sfocata nelle immagini che intendono presenze, per aprirci ad un io e una storia che, attraverso le parole e lo sguardo, diventano protagonisti di un racconto che sottende un incontro e la sua magia, l’intrecciarsi delle sensazioni e la malinconia del distacco.
Haiku nella forma metrica tradizionale (5/7/5), questo il genere scelto da Aurelio Vindigni Ricca per condensare, con le parole, lo stesso sguardo che affida all’obiettivo per svelare l’anima dei luoghi; un’anima rivelata da possibili presenze che, ipoteticamente, hanno attraversato quegli stessi spazi, dando un’umanità oltre la visuale dell’osservatore alla “finestra”, per far riferimento alla parola che dà il titolo alle prime due sezioni.
Ma una caratteristica di questi haiku è l’uso dell’enjambement, creato, a volte, in modo azzardato, staccando l’articolo o la congiunzione dal sostantivo (o dall’aggettivo), lasciando l’impressione di una spezzatura involontaria o non controllata, un imprevisto nel percorso, un improvviso che segna la “ruvida” sequenza degli eventi, mostrati al primo sguardo, che attende la sua continuazione nell’osservazione per rivelare il senso di quel frammento, metafora dei frammenti di cui si compone la nostra esistenza: «Pochi anni, al /  freddo dei tigli e le / lampade spoglie» (pag. 21).




Aurelio Vindigni Ricca nasce a Castrovillari (CS) nel 1985. Vive e lavora a Roma dal 2005. Scrive poesie e sceneggiature per il cinema. Fotografo professionista, regista e direttore della fotografia per il cinema e il teatro. www.aureliovindigniricca.com


Su Magari in un'ora del pomeriggio di Davide Valecchi

€ 11,00 pp. 68

una lettera di Liliana Ugolini

Una poesia prosastica essenziale, intima, dove i chiaroscuri sono luoghi indagati per un sentiero di chiarezza che si fa strada nella tua scrittura dove cerchi risposte fuori dal dominio delle parole. La finitudine si fa arco incompreso ma ricco di attese, le parole controllate riprendono la sfida e divengono immagini e profumi. E lo scrivere
svela inesorabili confini. La presenza eterea d’un ricordo che vibra vegetale, sta tra l’ombra e il sogno in una frammentazione di segni sonori. Il tuo scrivere è già musica
pur nel rigore d’una metrica nascosta che contiene la litania del vento.
E in questo tempo di belle macerie i tuoi versi sono una consolatoria sostanza di bellezza per dimenticare l’abisso. La visione cosmica della tua bella poesia c’è anche se parte dai passi sulla ghiaia e si fa polvere. È come se tu avessi sempre presente l’universo nel quotidiano e nei sentimenti. E il tempo, basso continuo de vivere, è da te avvertito come tangibile refrain del cosmo.
Caro Davide sei veramente bravo e riesci a fondere, nella tua scrittura, innumerevoli elementi rendendo ricchi i significati.
Veri complimenti, meritatissimi.
Un caro abbraccio
Liliana

mercoledì 12 ottobre 2011

I piaceri. Su Dante (Crea, 8 ottobre 2011)






Ora parleremo di LUOGHI e di PIACERI. Quando si è in luogo si dice: stiamo in quel luogo. E allo stesso modo diciamo «io sto bene» e «io sto male», come se il Benessere e il Malessere fossero Città o Territori. Nei luoghi – Città, Case, Territori – si va o ci si sta: moto a luogo, stato in luogo. Se il verbo stare comprende l’idea del luogo («io sto qui») e l’idea del modo («io sto bene, male»), è perché stare ha una relazione arcaica col verbo essere. Leopardi lo sa: «Ora il verbo stare è sostanzialmente e originariamente continuativo di essere (in latino in italiano in ispagnuolo), e partecipa della di lui natura, e viene al caso ogni volta che s’ha da significare continuazione o durata di qualsiasi cosa è» (Zibaldone, 2375: 31 gennaio 1822). Lo stare indica un essere che continua. Implica la presenza e l’occupazione di uno spazio – bello, brutto, piacevole, spiacevole – o un modo temporaneo di essere: bello, brutto, piacevole, spiacevole.
Oggi è una festa. Allora privilegiamo l’essere nel bene, quindi stare bene, e l’essere nel bello, quindi stare in un bel luogo. Ognuno farà da sé, poi: e vedrà le forme diverse del rapporto tra lo STARE e il LUOGO. Dopo, vedremo Dante: nella sua solita singolarità un po’ spietata.

1.
Il giovane Dante scrive a Guido Cavalcanti. Dante invita Guido a sognare con lui: barchetta, delicatezza, donne, stare insieme. Ma non c’è l’incantatore e non c’è l’incantamento. Che cosa c’è, allora? Intanto ci sono le cose. E visto che questa è scrittura, ci sono i NOMI delle cose, cioè le loro raffigurazioni. E poi ci sono i nomi delle persone: Guido, Lapo, Vanna, Lagia; Dante non nomina se stesso, se non con il pronome io, e non nomina la donna che vorrebbe per sé sulla barca. C’è un sogno di alta qualità e anche ad alta temperatura: la barca è erotica, la parola disio si presta alla passione, essere contenti tutti, donne e uomini, significa partecipare all’involucro-nave, essere contenuti nel contenitore, e contenti come nelle fiabe.

2.
Borges è un ipovedente che viaggia verso la cecità. L’Aleph mostra un Mistero, in cui si vede tutto: un oggetto che contiene tutti i fenomeni e le presenze dell’Universo. Il narratore parla in prima persona. Ha perso un amore, una donna dal nome ambiguo, spagnolo e italiano, Beatriz Viterbo. Osservando l’Aleph vede tutto, comprese le prove del tradimento di Beatriz. Compresa la decomposizione della meraviglia, che fu deliziosamente il corpo di Beatriz.
Che cosa ne viene fuori? La prima cosa è il fascino. Borges trova bello accumulare parole e martellare il verbo vidi: il più impossibile, per l’ipo- o nonvedente. Borges vede nell’Aleph i luoghi (quindi i nomi dei luoghi), gli oggetti (quindi i nomi degli oggetti), la persona più amata, di cui non resta niente di buono, se non il nome e il cognome (è un modo inusuale di citare l’amore perduto: segno di distanza dalla sessualizzazione, di glorificazione di un nome anagrafico che piace molto – come il corpo – e atterrisce un po’, come il corpo di cui non si gode mai). Le parole sono appaganti, perché sono la realtà incantatoria della ripetizione. Cioè, alla fine, il piccolissimo Aleph contiene tutto: è il compendio di tutti i luoghi possibili. Ma non esiste, se non nella mente di Borges: è come il vasel di Dante. Nobiltà e negatività, insieme (ciò che non esiste, o che non può accadere, è finto: quindi non buono; la fede accende la dignità del mai visto: ed ecco, il Narratore borgesiano di Borges, l’autore dell’autore, ha fede nel culto di Beatriz Viterbo).
Guardate che è una cosa legata al piacere. Bisogna prolungare la corsa verso l’apice, bisogna godere il piacere di esprimere l’inesprimibile: quindi Borges ritarda l’apice della rivelazione dell’inconcepibile universo, con l’istituto dell’anafora (vidi, vidi, vidi, vidi, vidi, vidi). L’apice è alla fine, come deve essere.

3.
Con l’esilio finisce il tempo delle piccole poesie sparse. L’idea nuova è quella di avere – fare – un grande impatto, attraverso un’opera nuova. L’impatto deve essere profetico, e la profezia ha bisogno di una struttura affascinante: di qui il romanzo della Comedìa. Dico apposta romanzo: perché la Comedìa è una storia. E il romanzo è una commedia: il testo a lieto fine, il testo pieno di attori. Tra gli attori, Dante mette anche se stesso. Ed è anche il regista: è il momento di cambiare le regole, e Dante non ha tempo da perdere.
La barca giovanile deve contenere sei persone: Guido, Lapo, Dante, Vanna, Lagia e l’amica di Dante. Sei persone. Un sogno. Un incantamento, un incantatore. Il luogo comune umano troppo umano dice: i sogni non sono veri. Ma le parole ci sono, e se il luogo non può essere raggiunto, rimane il desiderio (in tutti i sensi, anche sessuale – e il sonetto gioca su un eros sottilissimo): il desiderio è detto dalle parole. In pratica, Dante loda le parole che dicono l’incantamento, e quindi loda se stesso e la poesia. Ma che poesia è? Per adesso, è un gioco tra amici-poeti, fiorentini che parlano tutti lo stesso dialetto. Ma l’Italia non è Firenze, e i luoghi sono molti, e gli uomini non sono tutti i miei amici, e le donne non sono solo le belle dame di Firenze.
Dante si vede sesto in un gruppo di sublimi cultori delle parole rimate e dell’eros. Le simmetrie medievali sono sempre cercate, e sono impressionanti. Quando Dante raggiunge il Limbo con Virgilio (Inf., IV) sarà «sesto fra cotanto senno»: Dante, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, Omero. Non è che Dante sia stato nel Limbo, ma c’è una differenza fondamentale: nel sonetto della barca, si tratta di un DESIDERIO, di una SPERANZA che l’incantatore potrebbe realizzare: ma non sarà così. Nella Comedìa non è un desiderio: Dante dice che tutto questo è accaduto, lo racconta, come lo racconterebbe un romanziere. Solo che il protagonista di questo romanzo coincide con lo stesso autore, e tutto assume autorità. Quando Dante era giovane, sognava sperava desiderava. Adulto, autore di un poema, Dante, realizza il sogno. E lo realizza imponendo a tutti i suoi sogni, creando una struttura in cui i desideri sono appagati. Prima il sogno era semplice, andare in barca ed eccitarsi; ora il sogno è essere il sesto poeta del mondo (e l’unico vivo, l’unico battezzato: quindi l’unico che andrà in Paradiso).
Dante può chiedere la grazia suprema: vedere Dio. Naturalmente è impossibile (Es., 33, 20; Gv., 1, 18). Ora, Dante lo ha visto: o meglio, dice – come l’io dell’Aleph – di averlo visto, e ne fa un argomento. Vede qualcosa di inesprimibile, tanto è vero che il canto XXXIII del Paradiso non contiene fatti, ma sensazioni. Così Dante ha il desiderio e la voglia, e gode: lo dice. Gode vedendo e conoscendo. La grande voglia si appaga come non è accaduto sulla barca poetica dei giovani. Ora è un uomo, ha voluto fare di sé un personaggio da romanzo, e c’è riuscito; ha voluto imporsi come poeta della profezia, e c’è riuscito, con ardore. Nel mistero del Dio trinitario Dante vede – come Borges nell’Aleph – la riunione di tutte le sostanze e gli accidenti, le presenza vive e inanimate e i fenomeni del cosmo. Tutto. Borges, seicento anni dopo, si metterà nel solco di Dante, e l’amata si chiama anche Beatriz, e come la Beatrice di Dante è morta.
La morte crea assenza. Dove una persona è morta, il luogo è privo di quella persona. La parola impone sogni e desideri, la volontà li realizza (Dante ha – e quindi è – una volontà di ferro, nervosa e ossessiva). Dante ha sognato la compagnia di cinque vivi nella barca, ma era solo un sogno minore; da grande, realizza la compagnia di cinque grandi morti; e va oltre, fino a vedere Dio. ci sono cose, in Dante, che possono essere lette come esaltazioni e aberrazioni: non sapremo mai chi fosse Dante, davvero. Sappiamo solo che cosa ha sognato e come ha creduto, di volta in volta, di realizzare il sogno.
La barca giovanile era una cosa da niente. Ma il Dante adulto viaggia su una grande barca. La metafora marina continua ancora a lungo. All’inizio del canto II del Paradiso, Dante si rivolge ai lettori ignoranti: voi siete «in piccioletta barca», tornate indietro (imperativo, senza la cortesia che attenua). Ma Dante non è come loro: ha un legno, una nave seria, e la nave cantando varca, procede cantando. Perdendo me rimarreste smarriti. Dante non potrebbe essere più chiaro. Restate sulle vostre barchette, come io stesso ho sognato – dice; e dice: lasciatemi andare sul mio grande legno cantante, la mia nave. Infatti «l’acqua ch’io prendo già mai non si corse». Per partecipare al mio sogno realizzato dovete essere degni di me, perché io sono degno di stare nel luogo di Dio.
Dante voleva godere: in tutti i sensi, anche davanti alla faccia trina di Dio. E intanto affermava una singolarità speciale, come un legislatore/salmista capace di scrivere romanzi. La gara con le altre barchette umane riguarda il temps perdu, l’avversario del nuovo e dell’uomo nuovo.

È uscita la prima plaquette della collana «Hermes»

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I SBN9788890585432
DU FU 杜甫
PAESE IN PEZZI? I MONTI E I FIUMI REGGONO
Autori
DU FU
Mario Fresa (curatore)
Alessandro Ramberti (traduttore)
Francesco Ramberti (illustratore)
Pubblicato da
Edizioni L'Arca Felice
(Ass. Cult. L'Arca Felice)
Collana Hermes
Data di pubblicazione
09/2011
Paese di pubblicazione
Italia
© 2011 Edizioni L'Arca Felice
CON ILLUSTRAZIONI
Lingua del testo
Edizione Multilingue
Altre lingue
Cinese, Italiano
LIBRO CARTACEO
Legatura
Non specificata

Abstract
La dinastia Tang (618-907) è considerata l’epoca d’oro della poesia cinese. Il più famoso poeta del periodo è Li Bai (o Li Po, 701-762) ma molti non gli credono inferiore Du Fu (712-770). Proponiamo qui quattro sue poesie che adottano il metro 律 詩 lǜ shī (ovvero “verso regola-re/ato”): otto versi di cinque o sette parole di cui il terzo e il quarto verso sono paralleli e simmetrici fra loro e altrettanto lo sono il quinto e sesto verso: «le parole, cioè, corrispondono l’una all’altra, sia per il senso che per il valore grammaticale» (cfr. Giuliano Bertuccioli, La letteratura cinese, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano, 1968, p. 182).La traduzione da una lingua così sintetica e densa come il cinese classico è sempre impegnativa. In calce al testo forniamo la pronuncia nella traslitterazione pīnyīn e una traduzione letterale. Nella versione, per rispettare la regolarità metrica e la simmetria delle poesie originali, si è adottato l’endecasillabo e una scelta lessicale evocativa ma il più possibile aderente alla sintassi e al senso fondamentale dei caratteri. (Alessandro Ramberti)