Ora parleremo di LUOGHI e di PIACERI. Quando
si è in luogo si dice: stiamo in quel luogo. E allo stesso modo diciamo «io sto
bene» e «io sto male», come se il Benessere e il Malessere fossero Città
o Territori. Nei luoghi – Città, Case, Territori – si va o ci si sta: moto a
luogo, stato in luogo. Se il verbo stare comprende l’idea del luogo («io
sto qui») e l’idea del modo («io sto bene, male»), è perché stare ha una
relazione arcaica col verbo essere. Leopardi lo sa: «Ora il verbo stare
è sostanzialmente e originariamente continuativo di essere (in latino in
italiano in ispagnuolo), e partecipa della di lui natura, e viene al caso ogni
volta che s’ha da significare continuazione o durata di qualsiasi cosa è»
(Zibaldone, 2375: 31 gennaio 1822). Lo stare indica un essere che
continua. Implica la presenza e l’occupazione di uno spazio – bello, brutto,
piacevole, spiacevole – o un modo temporaneo di essere: bello, brutto,
piacevole, spiacevole.
Oggi è una festa. Allora privilegiamo l’essere
nel bene, quindi stare bene, e l’essere nel bello, quindi stare in un bel
luogo. Ognuno farà da sé, poi: e vedrà le forme diverse del rapporto tra lo
STARE e il LUOGO. Dopo, vedremo Dante: nella sua solita singolarità un po’
spietata.
1.
Il giovane Dante scrive a Guido Cavalcanti.
Dante invita Guido a sognare con lui: barchetta, delicatezza, donne, stare
insieme. Ma non c’è l’incantatore e non c’è l’incantamento. Che cosa c’è,
allora? Intanto ci sono le cose. E visto che questa è scrittura, ci sono i NOMI
delle cose, cioè le loro raffigurazioni. E poi ci sono i nomi delle persone:
Guido, Lapo, Vanna, Lagia; Dante non nomina se stesso, se non con il pronome io,
e non nomina la donna che vorrebbe per sé sulla barca. C’è un sogno di alta
qualità e anche ad alta temperatura: la barca è erotica, la parola disio
si presta alla passione, essere contenti tutti, donne e uomini,
significa partecipare all’involucro-nave, essere contenuti nel contenitore, e
contenti come nelle fiabe.
2.
Borges è un ipovedente che viaggia verso la
cecità. L’Aleph mostra un Mistero, in cui si vede tutto: un oggetto che
contiene tutti i fenomeni e le presenze dell’Universo. Il narratore parla in
prima persona. Ha perso un amore, una donna dal nome ambiguo, spagnolo e
italiano, Beatriz Viterbo. Osservando l’Aleph vede tutto, comprese le
prove del tradimento di Beatriz. Compresa la decomposizione della meraviglia,
che fu deliziosamente il corpo di Beatriz.
Che
cosa ne viene fuori? La prima cosa è il fascino. Borges trova bello accumulare
parole e martellare il verbo vidi: il più impossibile, per l’ipo- o
nonvedente. Borges vede nell’Aleph i luoghi (quindi i nomi dei luoghi),
gli oggetti (quindi i nomi degli oggetti), la persona più amata, di cui non
resta niente di buono, se non il nome e il cognome (è un modo inusuale di
citare l’amore perduto: segno di distanza dalla sessualizzazione, di
glorificazione di un nome anagrafico che piace molto – come il corpo – e
atterrisce un po’, come il corpo di cui non si gode mai). Le parole sono
appaganti, perché sono la realtà incantatoria della ripetizione. Cioè, alla
fine, il piccolissimo Aleph contiene tutto: è il compendio di tutti i luoghi
possibili. Ma non esiste, se non nella mente di Borges: è come il vasel
di Dante. Nobiltà e negatività, insieme (ciò che non esiste, o che non può
accadere, è finto: quindi non buono; la fede accende la dignità del mai visto:
ed ecco, il Narratore borgesiano di Borges, l’autore dell’autore, ha fede nel
culto di Beatriz Viterbo).
Guardate
che è una cosa legata al piacere. Bisogna prolungare la corsa verso l’apice,
bisogna godere il piacere di esprimere l’inesprimibile: quindi Borges ritarda l’apice
della rivelazione dell’inconcepibile universo, con l’istituto dell’anafora (vidi,
vidi, vidi, vidi, vidi, vidi). L’apice è alla fine, come deve essere.
3.
Con l’esilio finisce il tempo delle piccole
poesie sparse. L’idea nuova è quella di avere – fare – un grande impatto,
attraverso un’opera nuova. L’impatto deve essere profetico, e la profezia ha
bisogno di una struttura affascinante: di qui il romanzo della Comedìa.
Dico apposta romanzo: perché la Comedìa è una storia. E il
romanzo è una commedia: il testo a lieto fine, il testo pieno di attori. Tra
gli attori, Dante mette anche se stesso. Ed è anche il regista: è il momento di
cambiare le regole, e Dante non ha tempo da perdere.
La barca giovanile deve contenere sei
persone: Guido, Lapo, Dante, Vanna, Lagia e l’amica di Dante. Sei persone. Un
sogno. Un incantamento, un incantatore. Il luogo comune umano troppo umano
dice: i sogni non sono veri. Ma le parole ci sono, e se il luogo non può essere
raggiunto, rimane il desiderio (in tutti i sensi, anche sessuale – e il sonetto
gioca su un eros sottilissimo): il desiderio è detto dalle parole. In pratica,
Dante loda le parole che dicono l’incantamento, e quindi loda se stesso e la
poesia. Ma che poesia è? Per adesso, è un gioco tra amici-poeti, fiorentini che
parlano tutti lo stesso dialetto. Ma l’Italia non è Firenze, e i luoghi sono
molti, e gli uomini non sono tutti i miei amici, e le donne non sono solo le
belle dame di Firenze.
Dante si vede sesto in un gruppo di sublimi
cultori delle parole rimate e dell’eros. Le simmetrie medievali sono sempre
cercate, e sono impressionanti. Quando Dante raggiunge il Limbo con Virgilio (Inf.,
IV) sarà «sesto fra cotanto senno»: Dante, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano,
Omero. Non è che Dante sia stato nel Limbo, ma c’è una differenza fondamentale:
nel sonetto della barca, si tratta di un DESIDERIO, di una SPERANZA che l’incantatore
potrebbe realizzare: ma non sarà così. Nella Comedìa non è un desiderio:
Dante dice che tutto questo è accaduto, lo racconta, come lo racconterebbe un
romanziere. Solo che il protagonista di questo romanzo coincide con lo stesso
autore, e tutto assume autorità. Quando Dante era giovane, sognava sperava
desiderava. Adulto, autore di un poema, Dante, realizza il sogno. E lo
realizza imponendo a tutti i suoi sogni, creando una struttura in cui i
desideri sono appagati. Prima il sogno era semplice, andare in barca ed
eccitarsi; ora il sogno è essere il sesto poeta del mondo (e l’unico vivo, l’unico
battezzato: quindi l’unico che andrà in Paradiso).
Dante può chiedere la grazia suprema: vedere
Dio. Naturalmente è impossibile (Es., 33, 20; Gv., 1, 18). Ora,
Dante lo ha visto: o meglio, dice – come l’io dell’Aleph – di averlo
visto, e ne fa un argomento. Vede qualcosa di inesprimibile, tanto è vero che
il canto XXXIII del Paradiso non contiene fatti, ma sensazioni. Così
Dante ha il desiderio e la voglia, e gode: lo dice. Gode
vedendo e conoscendo. La grande voglia si appaga come non è accaduto
sulla barca poetica dei giovani. Ora è un uomo, ha voluto fare di sé un
personaggio da romanzo, e c’è riuscito; ha voluto imporsi come poeta della
profezia, e c’è riuscito, con ardore. Nel mistero del Dio trinitario Dante vede
– come Borges nell’Aleph – la riunione di tutte le sostanze e gli
accidenti, le presenza vive e inanimate e i fenomeni del cosmo. Tutto. Borges,
seicento anni dopo, si metterà nel solco di Dante, e l’amata si chiama anche Beatriz,
e come la Beatrice di Dante è morta.
La morte crea assenza. Dove una persona è
morta, il luogo è privo di quella persona. La parola impone sogni e desideri,
la volontà li realizza (Dante ha – e quindi è – una volontà di ferro,
nervosa e ossessiva). Dante ha sognato la compagnia di cinque vivi nella barca,
ma era solo un sogno minore; da grande, realizza la compagnia di cinque grandi
morti; e va oltre, fino a vedere Dio. ci sono cose, in Dante, che possono
essere lette come esaltazioni e aberrazioni: non sapremo mai chi fosse Dante,
davvero. Sappiamo solo che cosa ha sognato e come ha creduto, di volta in
volta, di realizzare il sogno.
La barca giovanile era una cosa da niente.
Ma il Dante adulto viaggia su una grande barca. La metafora marina continua
ancora a lungo. All’inizio del canto II del Paradiso, Dante si rivolge
ai lettori ignoranti: voi siete «in piccioletta barca», tornate indietro
(imperativo, senza la cortesia che attenua). Ma Dante non è come loro: ha un legno,
una nave seria, e la nave cantando varca, procede cantando. Perdendo me
rimarreste smarriti. Dante non potrebbe essere più chiaro. Restate sulle vostre
barchette, come io stesso ho sognato – dice; e dice: lasciatemi andare sul mio
grande legno cantante, la mia nave. Infatti «l’acqua ch’io prendo già mai non
si corse». Per partecipare al mio sogno realizzato dovete essere degni di me,
perché io sono degno di stare nel luogo di Dio.
Dante voleva godere: in tutti i sensi, anche
davanti alla faccia trina di Dio. E intanto affermava una singolarità speciale,
come un legislatore/salmista capace di scrivere romanzi. La gara con le altre
barchette umane riguarda il temps perdu, l’avversario del nuovo e
dell’uomo nuovo.
1 commento:
E' sempre un piacere leggerti , Massimo. Hai una vera vocazione per la vicinanza con i grandi letterati, come se fossero confidenti.
Affronti temi da angolazioni nuove e fuori dal dejà entendu. Forza che un giorno dirò di te e della tua grandezza. ( devo sbrigarmi , non è detto che abbia molto tempo a disposizione)
Narda
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