lunedì 28 febbraio 2011

Premio Lorenzo Cresti scad. 31-05-2011

Aemme Servizi Editoriali indice il

Primo premio letterario di poesia in memoria di Lorenzo Cresti

(scadenza 31 maggio 2011)

Il concorso, dedicato e ispirato alla persona di Lorenzo Cresti, si articola in tre sezioni:

Sezione A: Poesia a tema libero per opere edite e inedite;

Sezione B: Poesia a tema su “La poesia, il cinema e la musica tra inquietudini e speranze nella vita degli adolescenti”, per opere edite e inedite, rivolta ai giovani dai 16 ai 25 anni;

Sezione C: Poesia a tema su “La poesia, il cinema e la musica tra inquietudini e speranze nella vita degli adolescenti”, per opere edite e inedite, rivolta ai maggiori di 25 anni.



MODALITA’ D’INVIO DEGLI ELABORATI

Art. 1 – Si può partecipare con testi editi o inediti in lingua italiana, che siano stati composti da concorrenti di qualunque nazionalità e ovunque residenti;

Art 2 - Le opere, in formato “.doc” (word 97 e versioni successive), dovranno essere consegnate rispettando i seguenti criteri: poesie sia edite che inedite, fino a 3 poesie per ogni autore e per ogni sezione (max 38 versi per ciascun elaborato, carattere Arial, dimensione 12).

Art. 3 - Le opere edite dovranno essere state pubblicate negli ultimi dieci anni (a partire quindi dallo 01/01/2000).

Art. 4 - Gli elaborati dovranno essere inviati in cinque copie, entro e non oltre il 31/05/2011, a “Agenzia Aemme Servizi Editoriali” via Baccio da Montelupo, 369 – 50142 – Firenze.

Allegare agli elaborati il seguente materiale:

A)- la domanda di partecipazione riportata nel bando, regolarmente firmata ;
B)- una breve biografia del concorrente (facoltativa);
C)- copia della ricevuta di pagamento di un contributo di spese di segreteria di € 10,00 per l’intero numero di elaborati inviati (rispettando comunque i limiti per ogni sezione).

I contributi suddetti dovranno essere versati attraverso bollettino di conto corrente postale n. 7778425, intestato a Lisa Baligioni. Nella causale dovrà essere indicato Premio letterario di poesia in memoria di Lorenzo Cresti.

E’ concessa la possibilità a ogni partecipante di concorrere a tutte le sezioni nelle quali si articola il premio, previo versamento di una sola quota di segreteria, indipendentemente dal numero di elaborati inviati (sempre rispettando i limiti per ciascuna sezione).

La Giuria sarà presieduta dalla madrina del concorso, signora Lisa Baligioni Cresti, dagli organizzatori del concorso e sarà composta da artisti e da esperti del mondo dell’editoria che saranno resi noti al momento della premiazione.

La premiazione avverrà in luogo e data da stabilire.

I vincitori e finalisti avranno come premio la pubblicazione delle loro opere in una Antologia letteraria, edita da una casa editrice italiana, con codice isbn, a distribuzione nazionale e la consegna di copie dell’antologia stessa.

I concorrenti dovranno dichiarare nella domanda di partecipazione che tutti gli elaborati inviati sono di loro produzione, esonerando l'Organizzazione del Premio da ogni responsabilità in presenza di plagi.
Le poesie che non rispetteranno le indicazioni di stampa sopra indicate saranno escluse dal premio (o subiranno una penalizzazione in casi meno gravi).
La quota relativa alle spese di segreteria, comunque, non sarà restituita.
Non sono ammesse al concorso le opere che si sono classificate ai primi tre posti in altri premi letterari, pena la perdita del diritto ai premi e a ogni altra pretesa.

Gli autori premiati saranno preventivamente avvisati e potranno ritirare personalmente o tramite delega i premi assegnati.

Copia del verbale della giuria sarà inviata anche all'Annuario dei Vincitori dei Premi Letterari per la pubblicazione in Internet al seguente indirizzo: www.literary.it/premi dove rimarrà esposto in permanenza.
Partecipando al presente bando, tutti i concorrenti concedono il nulla osta per il libero utilizzo dei loro elaborati da parte dell’Agenzia Aemme Servizi Editoriali, che si riserva il diritto di pubblicare una raccolta antologica delle opere premiate, o di quelle più meritevoli, senza che alcun compenso o diritto di autore possa essere preteso.
Resta inteso che le singole opere rimarranno sempre di proprietà degli autori.



TUTELA DEI DATI PERSONALI

In relazione a quanto sancito dalla legge 31.12.96, n. 675, e successive modifiche, "Tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali", la segreteria organizzativa dichiara che:
· ai sensi dell'art. 10, "Informazioni rese al momento della raccolta dei dati": il trattamento dei dati dei partecipanti al concorso è finalizzato unicamente alla gestione del premio, all'invio agli interessati dei bandi degli anni successivi o di quelli di altri Circoli Letterari o Case Editrici che intrattengono rapporti di collaborazione con l’Agenzia che ha indetto il presente bando.
· ai sensi dell'art. 11 "Consenso": con l'invio degli elaborati con i quali si partecipa al concorso, l'interessato acconsente al trattamento dei dati personali.
· ai sensi dell'art. 13, “Diritti dell'interessato": il concorrente può richiedere la cancellazione, la rettifica o l'aggiornamento dei propri dati rivolgendosi ai Responsabili dati del Premio nelle persone di Antonia del Sambro.


PER OGNI ULTERIORE INFORMAZIONE TELEFONARE DURANTE LE ORE POMERIDIANE al 347.6626358 O SCRIVERE A concorsodipoesialorenzocresti@gmail.com
DOMANDA DI PARTECIPAZIONE AL “PRIMO PREMIO LETTERARIO DI POESIA IN MEMORIA DI LORENZO CRESTI”

(Da controfirmare da un genitore in caso di partecipanti di età inferiore ai 18 anni)

Il sottoscritto

COGNOME.....................................................…......NOME.....................................…………….........

nato a..........................……………....................................(Prov ...............)il .......................................

Residente a....................................................……………....................................Prov. ..............

CAP...................Via...............……………....................................................................................…….

Telefono........................…...……....Cellulare.......…………..................................................................

Fax................…….........…….email.....……….............................................................................…......

CHIEDE DI PARTECIPARE
al Primo premio letterario di poesia in memoria di Lorenzo Cresti, organizzato dall’Agenzia Aemme Servizi Editoriali, per le sezioni sotto indicate ed accettando tutte le norme del regolamento del bando, di cui assicura di aver preso completa visione.
(Contrassegnare le caselle che interessano)
□Sezione A
□Sezione B
□Sezione C


DICHIARA
• che le opere presentate sono frutto della sua creatività e del suo ingegno e che non sono mai state premiate con uno dei primi premi in altri concorsi letterari;
• di essere consapevole che qualsiasi falsa attestazione configura un illecito perseguibile a norma di legge;
• di esonerare gli organizzatori della manifestazione da ogni responsabilità per eventuali danni o incidenti personali che potrebbero derivargli nel corso della premiazione.



Data ............................. Firma:


……………………..



INFORMATIVA SUI DATI PERSONALI (Legge 31/12/1995 n. 675 e successive modifiche):
Autorizzo il trattamento dei miei dati personali unicamente per i fini e gli scopi riportati nel comma finale “tutela dei dati personali” e specificati sul presente Bando Letterario, di cui dichiaro di averne preso visione e di fornire il mio consenso.


Firma: ........……......................................................


***

Lorenzo Cresti è nato nel 1991. Ci ha lasciati nel 2008, all’età di diciassette anni e mezzo, mentre stava frequentando la II classe del Liceo Classico. La sua breve esistenza si è svolta interamente a Firenze.
Lorenzo ha avuto una precoce passione per la scrittura e la lettura, la musica e il cinema.
Ci ha lasciato vari scritti: storie, sceneggiature di films, qualche poesia, tante riflessioni su ciò che leggeva ed ascoltava, ed un diario, scritto negli anni del Ginnasio.
Nelle letture, un gran desiderio di trovare risposte alle sue inquietudini: la filosofia (Nietzsche, Heidegger), la psicanalisi (Freud, Jung), la narrativa (Mann, Proust), e poi la grande passione per la poesia (Quasimodo, Montale, Ungaretti).
La musica che lui ascoltava – e che anche riproduceva al pianoforte - spaziava dalla musica classica e lirica (Mozart, Mahler, Wagner) alla musica leggera contemporanea.
Il cinema, forse il suo maggiore interesse, comprendeva il cinema classico (Lang, Visconti, Fellini, Wilder: Viale del tramonto, la sua grande passione) e quello più recente (Lynch e Kubrick: soprattutto, di quest’ultimo, Barry Lindon).
Un’infanzia felice, un’adolescenza inquieta, con momenti di gioia alternati a momenti di grande sconforto. Una grandissima sensibilità e tante forti emozioni: sentimenti da cui è scaturito il misterioso percorso che l’ha portato a concludere tragicamente la sua vita.

Su Sequenza di dolore di Rosa Elisa Giangoia

di Andrea Parato

Trovo nelle poesie della Sequenza di dolore di Rosa Elisa Giangoia ancora palpitante la sofferenza, quel filo rosso indicibile che unisce quanti hanno perso una parte della loro stessa vita.
L'autrice non ha paura di riconoscere la morte come ospite ingrato che giunge a interrompere un dialogo intimo, che per i veri amanti (nel senso etimologico del termine) continua anche oltre il confine, sulla carta e nel cuore: “non è la morte che separa davvero”.
In un intenso lavoro che ricuce la memoria alla preziosità del dono esistenziale attraverso la fatica del quotidiano, sempre vissuto assieme, l'autrice ricalca gli ultimi momenti come se fossero attuali nella poesia e nel ricordo, eppure anche essi – per fortuna – destinati a passare: non c'è più qui e ora, semmai sempre e mai si abbracciano.
Nei testi asciutti e densi, scritti con perizia e carichi di espressività, domina una malinconia che mi richiama alla mente l'immagine dell'artista che continua a creare le sue opere senza più lo scopo per cui realizzarle.
Il tono della poesia è austero e misurato, quello di chi ha una fede quotidiana e concreta che non permette di cadere nella disperazione, ma neppure di nutrirsi di facili illusioni.
Il paradosso della poesia è che “le parole sono il nostro limite”, il limite dell'espressione e della parola che, da strumento e consolazione, diventano muro invalicabile, arnesi spuntati inutili a scalfire la pietra sepolcrale che ci separa dall'altro. E per quel poco che ormai serve, la poesia serve a noi. Ad aggrapparci, per quel poco che ci resta, all'oro stupendo rimasto in fondo alla nostra esistenza, dopo il vaglio tremendo del nostro crogiuolo personale: “Bisogna prendere dalla vita / le parole per dire la morte / che non ha parole”.
Ringrazio l'autrice per avermi ricordato lo stupore e la dignità umana di una morte attesa in modo vigile e consapevole, né combattuta né rassegnata: “il tuo esercizio per diventare / capace di morire”.

Antonio D’Alessio: una poesia generazionale e l’idea della precarietà

di Paolo Saggese

Nel leggere le Poesie ritrovate di Antonio D’Alessio (1976-2008) si ha un senso di leggerezza e di tristezza, che è difficile spiegare. La leggerezza è nella pagina spesso quasi vuota del libro, come nelle metafore con tramonti e orizzonti evocativi di attese e del nuovo, una leggerezza e una vaghezza leopardiane, la tristezza e la leggerezza sono nella “problematicità dell’essere e dell’esistere, in continua tensione fra un desiderio di fuga e la tentazione della quiete esteriore e interiore” (così la poetessa Narda Fattori nell’introduzione ad Antonio D’Alessio, Poesie ritrovate scritte in anni diversi, Collana “Luci Meridionali”, Edizioni “F. Guarini”, Montoro Inferiore, 2011).
La precarietà è anche un dato generazionale, ma, come osserva ancora Narda Fattori, va oltre la “generazionalità”, perché dietro il malessere vi è l’anima di un poeta, che canta la gioia dolce-amara della vita.
Del resto, Antonio aveva già dato prova di sé nella precedente raccolta, edita sempre nella stessa collana nel 2009, e che aveva per titolo La sede dell’estro (postume). L’amore per la poesia gli deriva dal padre Vincenzo, che coltiva una passione profondo per la scrittura e per la terra del Sud da un quarantennio circa. E poi c’è l’amore per la musica, che Antonio ha in comune con i fratelli Giuseppe e Nicolino e che ancora una volta deriva dal padre “polistrumentista e artista poliedrico”. Questa esperienza artistica è poi confluita nel gruppo Notturno concertante.
Dalla madre Annamaria De Angelis ha avuto in eredità l’amore e l’attenzione per gli ultimi e per i bisognosi, per chi non ha voce e dignità nel mondo vuoto di anima, in cui viviamo.
Dico ciò, perché questi mi sembrano essere stati insieme tutti gli ingredienti indispensabili per un Poeta.
E poi c’è l’Amore, che è presente nel libro, perché queste poesie facevano parte di un quaderno che Antonio aveva donato alla fidanzata Anna Daniela, e che adesso, come scrive la ragazza nella plaquette, sono consegnati “ai lettori che inseguono copia dopo copia / le sue memorie”. In una Lettera ad A.D. (da leggersi credo Anna Daniela), del resto, cogliamo un aspetto rilevante di questo diario in versi, quando si legge:

Perché poi quello che cerchiamo, è, di stare
meglio;
ma niente di fantastico,
realizzare, creare, continuare ad accrescersi
e non morire lentamente.
Certo non voglio scaricare tutte le mie
frustrazioni;
ma sei rimasto solo tu, per poter parlare;
e non aver consigli, perché
la strada da percorrere, già si sa, vien da sé.

In questa raccolta, i versi di Antonio mi sembrano ancora più dolenti rispetto a quelli della prima plaquette, anche perché sono segnati dalla negazione “non” che accompagna quasi tutte le poesie. Lo scetticismo verso “la terra degli inganni” è lo stesso di sempre, di un giovane, che vuole realizzare utopie e che è nato per sognare, ma adesso la negazione sembra quasi esprimere una condizione esistenziale.
In … Sei lì che reclami la mia assenza i versi conclusivi si chiudono con un’anafora: “non aspettarmi quando avrai aperto la tua stanza … / non so se almeno questo inchiostro ti farà compagnia”. Un invito a non aspettarlo, che invece è invito ad essere aspettato, e il dubbio sulla poesia come compagna di viaggio sono sintomatici di uno stato d’animo.
Nella poesia successiva, l’incipit è segnato da “Non è più in tuo possesso quello che pensi era tuo”, che è anche titolo del componimento. Si chiude con “una pianta / che non è mai esistita”.
Ho così preferito seguire Antonio nella ricerca dei suoi “non” e l’ho ritrovato più volte:

difficoltà/impedimento/timore
è un’onda alta
che non passa
sospesa
Trattieni fiato attraversa.

È la metafora dell’esistenza, di una asfissia temuta: il pericolo, il timore, non passano.
Il nichilismo, che tuttavia non è della plaquette ed è estraneo al pensiero di Antonio, è nel componimento successivo, dove, ricordandomi la conclusione pessimistica di Esiodo nella Teogonia, dichiara la fine dell’Utopia:

la ruota gira, nel vuoto
che ruota, non è
I sogni non s’applicano più, e l’utopia è
Volata via nell’universo
Adesso.

Il “nulla ha un peso” solo nell’universo, qui è nulla semplicemente, scrive nella poesia successiva.
In M’illudo ci sono cinque “non”: poesia difficile, dove “ignoranza”, mancanza, sofferenza, solitudine, fanno parte dell’esistenza.
“Non so sfruttare” in Sfioro con le mie dita: qui, il poeta “ammette” la sua inadeguatezza ad un mondo come il nostro, alla “giungla della vita”, che è la nostra “civiltà”.
Nello scorrere del tempo, Antonio dice: “… non mi fermo”, mentre nel descrivere la battaglia della sua “guerra quotidiana” si chiede: “Se non è questa una guerra!?” (da Il nostro animo).
La verità “non s’accetta”, come spesso la vita (così in “Stimoli indigesti di chi non s’accetta”, dove il “non” compare sei volte).
La fiducia è “in qualcosa che non hai”, nonostante “quante costruzioni abbiamo / giocato per crescere”.
Il nichilismo apparente di queste poesie, tuttavia, ha in sé una forza straordinaria e al contempo una straordinaria dichiarazione di fede nella vita. Si legga Pur sapendo, in cui la convinzione di un’ignoranza non significa assenza di amore, di speranza. Il non, insomma, significa negazione, ma anche per litote spesso rafforzamento di ideali, di speranza come in “realizzare, creare, continuare ad accrescersi / e non morire lentamente”.
La poesia di Antonio, d’altra parte, ha convinto uno dei critici letterari, degli storici della letteratura e dei poeti più autorevoli del Secondo Novecento, ovvero il Chiarissimo professore Giorgio Bàrberi Squarotti, che in una lettera a Vincenzo D’Alessio esprime con chiarezza un giudizio limpido e senza ombre: “[…] Leggo con viva commozione e con ammirazione le ulteriori poesie di Suo figlio: che è davvero un poeta autentico e strenuo, anche il dolore della scomparsa si fa più profondo”.
Poeta autentico e strenuo è stato Antonio che ci insegna a condividere con gli altri uomini speranze e dolore perché : “Tutto fluisce / separa!”, “Occhi aperti / è ora di partire il cielo / è dietro la stanza / i monti si dissolvono / e il contatto svanisce … / e il terriccio / peserà sul viso”.

sabato 26 febbraio 2011

Su Poesie ritrovate scritte in anni diversi di Antonio D’Alessio

di Emilia Dente

Acrobata sospeso sul filo intricato dell’arcobaleno. Viandante solitario che muove passi inquieti verso il profondo e semina e raccoglie frammenti di sé . Questo è il Poeta, questo è Antonio D’Alessio che nell’inchiostro rosso sangue dei versi tormentati lascia fluire il suo essere amore. Per le ombrose vie dei fogli sgualciti germogliano emozioni e paure, in un percorso scosceso alla ricerca della verità. Riflessioni acuminate che, come spine, lacerano i pensieri, ingoiando l’essere nel baratro della propria “aria emotiva”.
Nel caleidoscopio della poesia, Antonio svela il coraggio e la paura, il rancore e il piacere, l’ansia di esistere veramente nell’autenticità dell’essere che ha gli occhi aperti e sa che “il cielo/ è dietro la stanza”.
Nei giorni di vento e di tuono che stiamo vivendo è una scelta coraggiosa quella del poeta, la scelta di “essere”, con l’affannosa consapevolezza di dover mettersi in cammino, di dover fare e divenire ricerca viva, percorrere i sentieri ripidi del sé, scendere giù, giù nelle profondità della mente e del cuore e sentire sulla pelle il peso soffocante del nulla che rode la vita. È la scelta assurda e vera di franare nella voragine dei propri tormenti per svelarsi, svestirsi dei pesanti panni sociali – non aspetto altro che svestirmi, sussurrava già all’inizio della raccolta- per poter finalmente, nudo e libero, riflettersi nell’immenso specchio della Creazione.
Ci vuole forza, candore, onestà per direzionare nel profondo il proprio cammino, direzione contraria e mal tollerata dalla moltitudine che si affanna invece a salire, ad arrancare per le strade più scintillanti dell’effimero successo. Diversa è la scelta di Antonio, testimoniata pure in queste Poesie ritrovate. È la scelta di chi porta inciso negli occhi e nel cuore una verità e sa bene che la morte è “ nello spirito di / chi non inizia a combattere/con sé”.

v. anche Paolo Saggese

venerdì 25 febbraio 2011

Mario Fresa. Ritratti di poesia (4)



Ivano Mugnaini


La ricerca poetica di Ivano Mugnaini si fonda sull’intensità di un linguaggio fortemente percorso – diremmo consumato – da un’assidua moltitudine di agitati paradossi, di acuti tentennamenti, di soluzioni spesso lontane o addirittura impossibili. Lo sguardo inquieto di Mugnaini documenta, con una indifesa passionalità, l’incertezza di ogni umano movimento, il cui destino pare legato all’aspra dolcezza di un compimento che sempre tarda a definirsi e a realizzarsi, restando prigioniero di un’illusione ambigua e fuggitiva. Il tempo salvato (Edizioni Blu di Prussia, 2010) è un libro intriso di mobile iridescenza, nel quale ogni immagine si contamina con un’altra, in un continuo rovesciamento-rimescolamento di senso e di sensi che strenuamente risucchia il poeta e il lettore nel gorgo di un’interrogazione rigerminante e insoddisfatta. Mugnaini rincorre la visione di una realtà elusivamente inafferrabile, mirando, forse, al raggiungimento di una zona di sicurezza e di ordine che la crudele frantumazione delle esperienze, tuttavia, non fa che allontanare con persistente cinismo. Si manifesta, così, nei suoi versi, una incisiva e potente verità drammatica, in cui la parola è tesa, con pervicacia, all’ascolto e alla registrazione di un’angosciosa galleria di barbagli, di segnali, di messaggi e di indicazioni che risultino capaci di condurre, infine, al conseguimento di un paradigma di stabilità che possa permettere al poeta, una volta per tutte, di liberarsi dell’affannoso, ciclico giogo del cercare e dell’interrogare. La scrittura decide, allora, di approssimarsi alla soglia estrema di un auto-accecamento che riassorba il poeta stesso nello spazio di un tempo rinnovato, privo di aspettazione e di speranza, e definitivamente consegnato al non-sapere dell’abbandono e dell’oblio.


Il mondo non ha angoli

Ci ritroveremo, mi hai detto,

in qualche angolo del mondo.

Ma il mondo non ha angoli,

ogni punto equivale a tutti

e a nessuno, la curva del tempo,

ferro, nebbia, graffio, veleno,

traccia di sogno, linea di una mano.

Ci ritroveremo, certo, e ci accorgeremo

che è gravido di altre carni, di altri

semi, il ventre del destino.

Ma ancora affamato, feroce,

partirà lo sguardo verso un lembo

di pelle, l’occhio, il collo, il braccio,

il seno, e di nuovo sarà immagine

spazio di luce agibile,

abitabile, l’attimo in cui, ridendo,

ci diremo che non è possibile.



Ivano Mugnaini (Viareggio 1964), poeta, scrittore e saggista, vive a Bargecchia di Massarosa. Si è laureato a Pisa in Lettere moderne con una tesi sul teatro rinascimentale. Opere di poesia: Controtempo (1997), Inadeguato all'eterno (2008), Il tempo salvato (2010, con una nota introduttiva di Luigi Fontanella). Testi di narrativa: La casa gialla (1997, racconti), Limbo minore (2000, romanzo), Il miele dei servi (2007, romanzo). Ha collaborato e collabora a varie riviste letterarie, tra le quali «Gradiva», «La Mosca di Milano», «La Clessidra», «Nuova Prosa».

giovedì 24 febbraio 2011

Premio di poesia clanDestino scad. 31-8-2011

Il Premio di poesia clanDestino, divenuto biennale con la terza edizione, ha lo scopo di segnalare opere di pregio e promuovere nuovi autori sostenendone la pubblicazione in volume

BANDO DEL CONCORSO

A CHI È RIVOLTO IL PREMIO - Art. 1 – Possono partecipare al premio solo gli abbonati alla rivista clanDestino o coloro che sottoscrivono un abbonamento in contemporanea alla partecipazione al Premio.

COME ABBONARSI ALLA RIVISTA - Art. 2 – È possibile effettuare un abbonamento annuale a 4 numeri della rivista tramite il versamento di € 25,00 sul conto corrente postale n. 15315476 – intestato a Raffaelli Editore - Rimini – con la causale Abbonamento alla rivista clanDestino 2011.

QUANTE SEZIONI HA IL PREMIO - Art. 3 – Il premio, da quest’anno, prevede una sola sezione, unico requisito richiesto è che si tratti di opera inedita – saranno comunque accolti testi già apparsi in riviste o sul web.

IN COSA CONSISTE IL PREMIO - Art. 4 – Il vincitore riceverà dall’editore Raffaelli la somma di 1.000,00 euro e la pubblicazione della raccolta vincitrice in un volume della collana clanDestino poesia. All’autore saranno riservate inoltre n. 20 copie del libro e potrà acquistarne altre con uno sconto del 30% sul prezzo di copertina. Il libro verrà allegato al numero 3 - autunno 2011 della rivista clanDestino e inviato gratuitamente a tutti gli abbonati. La Casa Editrice Raffaelli si preoccuperà di promuovere il libro diffondendolo presso critici letterari, biblioteche e riviste specializzate in Italia e all’estero. Inserirà inoltre il volume nel suo catalogo dei libri in vendita e sarà libera di commercializzarlo nei modi che riterrà più opportuni, riconoscendo all’autore, con rendiconto annuale, una percentuale del 10% a titolo di pagamento dei diritti d’autore sul ricavato del venduto oltre alle 1.000 copie.

COME SI FA A PARTECIPARE - Art. 5 – Per partecipare al Premio occorre inviare:
• una raccolta di min. 30 – max 40 testi – oppure un’opera che non superi i 1000 versi nel suo complesso – mai pubblicati in volume. Il suddetto materiale, così
come la busta che lo contiene, deve essere firmato con uno pseudonimo.
• un foglio a parte in busta chiusa indirizzata all’editore Walter Raffaelli (se si invia per posta elettronica deve essere un file separato), contenente:
– lo pseudonimo e il nome dell’autore a cui corrisponde (con i suoi dati anagrafici, i suoi recapiti, una breve nota bio-bibliografica);
– la seguente dichiarazione firmata: “Dichiaro che l’opera presentata a codesto Concorso è di mia personale creazione e disponibilità, inedita e mai premiata ai primi
tre posti in altri concorsi; di essere abbonato alla rivista clanDestino (o di aver sottoscritto l’abbonamento in contemporanea alla partecipazione al Premio); dichiaro
altresì il consenso al trattamento dei miei dati personali in riferimento all’art.10 del bando di concorso al Premio clanDestino 2011”.

A CHI INVIARE - Art. 6 – È possibile partecipare inviando il materiale via e-mail all’indirizzo: raffaellieditore@rimini.com, indicando nell’oggetto: Premio poesia
clanDestino 2011; oppure in cartaceo a:
Premio poesia clanDestino 2011 c/o Raffaelli Editore – Vicolo Gioia 10 – 47921 Rimini.

QUANDO SCADE IL PREMIO - Art. 7 – Termine ultimo per la consegna 31 agosto 2011. Farà fede il timbro postale o la data della mail.

LA GIURIA - Art. 8 – La giuria è composta da 5 membri della redazione della rivista: Gianfranco Lauretano, Massimo Morasso, Salvatore Ritrovato, Davide
Rondoni, Francesca Serragnoli. Il giudizio della giuria è insindacabile.

LUOGO E DATA DELLA PREMIAZIONE - Art. 9 – Il luogo e la data della premiazione verranno comunicati con largo anticipo a tutti i partecipanti. Ai vincitori
sarà data tempestiva comunicazione. È d’obbligo la presenza dell’autore alla Cerimonia di Premiazione.

TUTELA DEI DATI PERSONALI - Art. 10 – In relazione a quanto sancito dal D.L. 30 giugno 2003 n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”,
si dichiara, ai sensi dell’art. 7-11-13-25 che il trattamento dei dati personali dei partecipanti, fatti salvi i diritti di cui all’art. 7, è finalizzato unicamente alla
gestione del Premio. Tali dati non saranno comunicati o diffusi a terzi a qualsiasi titolo.
Coordinatore del Premio: Lucia Raffaelli.

Per ogni eventuale comunicazione o chiarimento relativo alle modalità di partecipazione al Concorso:
www.rivistaclandestino.com
info@rivistaclandestino.com
raffaellieditore@rimini.com
Tel. 0541.21552 – Fax. 0541.55450

POESIA AL TEMPO DELLE MAFIE a Pavia 5 marzo


SABATO 5 Marzo
Presso L’OSTERIA LETTERARIA SOTTOVENTO

In via Siro Comi a Pavia

A Partire dalle 18.30

POESIA AL TEMPO DELLE MAFIE

Letture, interventi e aperitivo calabrese

Presentazione del numero 4 della rivista FAREPOESIA

E dell’antologia L’IMPOETICO MAFIOSO (Ed. CFR 2011)

Partecipano:



Ingresso gratuito

mercoledì 23 febbraio 2011

Una lettera dalle “Porte Sante”


John Ruskin (1819-1900), The Garden of San Miniato al Monte




Carissime e carissimi amici di San Miniato al Monte,

            è intorno al 1845 che il grande scrittore, poeta e critico inglese John Ruskin dipinge questo luminoso acquerello tutto dedicato all’antico ingresso della nostra abbazia, dominato allora come oggi da un piccolo campanile a vela e già adorno di quei meravigliosi gelsomini che primavera dopo primavera continuano a fiorire davanti ai nostri occhi profumando di bellezza un intero sagrato. Al tempo di Ruskin, come forse è facile intuire interrogando questo dipinto, San Miniato al Monte versava in uno stato di generale decadimento. I magri introiti della Pia Opera degli Esercizi Spirituali, l’ente cui l’autorità granducale aveva affidato l’uso e la valorizzazione spirituale dell’antico monastero da tempo ridotto a lazzaretto, non bastavano più a fronteggiare le onerose spese di manutenzione. Si rendeva pertanto necessaria la progressiva trasformazione del terreno agricolo circostante il complesso di San Miniato al Monte in quegli spazi di sepoltura che sarebbero poi presto divenuti la monumentale necropoli delle “Porte Sante”. Tutti noi amiamo profondamente questo cimitero per la suggestiva bellezza delle sue eclettiche architetture e nondimeno per l’alto significato morale e civile delle memorie che vi sono custodite, anche se così abbiamo perso le tracce di un’antica sapienza georgofila di cui nei secoli è stato capace il lavoro monastico sulla nostra collina. I vivaci colori di John Ruskin hanno pertanto l’ulteriore merito di regalarci un’immagine piuttosto veritiera di quando tutto quel che circondava la basilica e il cenobio era ancora soltanto campagna, con i frutteti, gli orti e gli oliveti che i monaci benedettini avevano coltivato sin dal 1018, anno di fondazione del nostro asceterio, fino alla metà del secolo XVI, quando le sciagurate necessità militari costrinsero i nostri padri ad abbandonare, con profondo rammarico, il loro amato asilo di pace. Non diversamente anche il piccolo edificio posto a sinistra della basilica aveva subìto non poche trasformazioni: al tempo di Ruskin la sua destinazione era d’uso agricolo, dimostrata anche dalle tracce, al suo interno, di antiche mangiatoie e dalla presenza nella corte degli abbeveratoi necessari per i grossi animali che vi erano reclusi dopo il lavoro nei campi. Era ormai già trascorso tantissimo tempo da quando, nella prima metà del secolo XI, Oberto, terzo abate di San Miniato al Monte, in quel piccolo edificio aveva voluto la foresteria e l’hospitium del nostro monastero e dove probabilmente aveva la sua sede anche l’antica spezieria dei monaci, antenata, per così dire, della nostra attuale “farmacia”. Qui, peraltro, ogni Domenica potrete trovare le buonissime torte al cioccolato, le crostate alla marmellata e gli squisiti biscottini che il nostro Ildebrando dai giorni dell’ultimo Natale ha iniziato a preparare con tanta meticolosa passione e vero estro buongustaio. Quando ai monaci, nella seconda metà del secolo XX, fu finalmente permesso di tornare ad utilizzare quell’edificio che nel frattempo era stato adibito anche a “casa della custodia” del cimitero monumentale, immediatamente la comunità volle restituire a questa porzione di San Miniato, così pittorescamente presidiata dal piccolo campaniletto a vela, il suo antico e originario scopo: creare uno spazio, il più possibile evangelico, di accoglienza, di apertura e di dialogo con la città e con le sue sofferte inquietudini. Per questo, dentro quelle finestre affacciate su Firenze, abbiamo accolto negli anni personalità di terre lontane e discipline diverse, da Marguerite Yourcenar a Thich Nhat Hanh; per questo lì alcuni fratelli e sorelle, laici impegnati nel mondo, concludendo il noviziato si preparano alla loro oblazione benedettina; per questo lì, quasi fosse davvero la «stanza accanto» della celebre lirica di Charles Péguy, un gruppo di genitori cui è morto un figlio hanno creato un laboratorio di speranza e di consolazione pasquale; per questo lì Stefano accompagna, ormai da più di due anni, alcuni giovani sposi che si addestrano a vivere in pienezza la loro vocazione matrimoniale in Cristo; per questo dentro quelle finestre che vorrebbero riflettere la bellezza, ma anche le contraddizioni della nostra città, sono nati, ormai dodici anni fa, gli incontri di Lectio divina. In questa piccola e artigianale officina dell’ascolto e della parola abbiamo già letto assieme il libro dell’Esodo, la prima lettera di san Pietro, l’Apocalisse, il libro di Giona, la lettera di san Giacomo  e il Vangelo di Luca. In questo itinerario biblico, suggerito nel corso degli anni da molteplici istanze maturate in uno speciale clima di fraterna condivisione, ci siamo sempre mossi entro quelle coordinate teologiche e pastorali proposte da papa Giovanni Paolo II nella sua esortazione post-sinodale Vita Consecrata del 1996, quando scriveva:

            Di grande valore è la meditazione comunitaria della Bibbia. Realizzata secondo le possibilità e le circostanze della vita di comunità, essa porta alla gioiosa condivisone delle ricchezze attinte alla Parola di Dio, grazie alle quali fratelli e sorelle crescono insieme e si aiutano a progredire nella vita spirituale. Conviene anzi che tale  prassi venga proposta anche agli altri membri del Popolo di Dio, sacerdoti e laici, promovendo nei modi consoni al proprio carisma, scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della Scrittura, nella quale Dio «parla  agli uomini come ad amici (cfr. Es 33, 11; Gv 15, 14-15)  e si trattiene con essi (cfr. Bar 3, 38) per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum 2).  Dalla meditazione della Parola di Dio, e in particolare dei misteri di Cristo, nascono, come insegna la tradizione spirituale, l’intensità della contemplazione e l’ardore dell’azione apostolica. Sia nella vita religiosa contemplativa che in quella apostolica sono sempre stati uomini e donne di preghiera a realizzare, quali  autentici interpreti ed esecutori della volontà di Dio, opere grandi. Dalla frequentazione della Parole di Dio essi hanno tratto la luce necessaria per quel discernimento individuale e comunitario che li ha aiutato a cercare nei segni dei tempi le vie del Signore. Essi hanno così acquisito una sorta di istinto soprannaturale, che ha loro permesso di non conformarsi alla mentalità del secolo, ma di rinnovare la propria mente, «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2).

            Carissime e carissimi, grazie al paziente lavoro di Alba e di Paolo siamo finalmente lieti di consegnarvi anche la sintesi dei nostri ultimi incontri dedicati alla conclusione del Vangelo della gioia, il Vangelo di Luca, che ci ha visto impegnati in una meditata lectio durata almeno quattro anni, per tutti noi un lungo tempo davvero necessario al fine di riacquisire una più viva e cordiale famigliarità con la parola, i gesti e il sentire stesso di Cristo Signore, la cui esistenza, al contempo obbediente al Padre e attenta alle diverse povertà della condizione umana, la narrazione lucana svolge in modo mirabile e mai eludibile da un più autentico desiderio di sequela. Nel primo incontro di questo nuovo anno abbiamo poi deciso assieme di meditare la lettera di san Paolo ai Filippesi, un testo di straordinaria densità teologica e di intenso calore umano, culminante in una promessa finale che anticipiamo ai nostri cuori per la bellezza del suo slancio colmo di viva speranza: «E il mio Dio ricolmerà ogni vostro bisogno, secondo la sua ricchezza gloriosa per mezzo di Cristo Gesù. Al nostro Dio e Padre la gloria nei secoli dei secoli. Amen».

Carissime e carissimi amici, assieme a Stefano Vi aspetto in questa nostra antica locanda voluta quasi mille anni fa dall’abate Oberto come sosta di ristoro per i viandanti in tragitto dalla città degli uomini verso la Gerusalemme celeste. Con le sole energie dello Spirito Santo possano queste nostre secolari mura custodire e propiziare un ascolto paziente e appassionato, capace di trovare ancora, nella mangiatoia delle scritture sante, il Verbo che continua a farsi alimento di sapienza evangelica per il nostro pensare e per il nostro agire.


Con viva e fedele amicizia,
nell’amore di Cristo,
Vostro fratello Bernardo

                                                         

Firenze, Abbazia di San Miniato al Monte
2 Febbraio 2011,
Festa della Presentazione del Signore al Tempio
lectio.divina@libero.it 



«Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo» (Luca, 24.51)

Luca 24, 13-53
13Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Èmmaus, 14e conversavano di tutto quello che era accaduto. 15Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?". 19Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. 21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro 23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto".
25Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! 26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". 27E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 28Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. 32Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?". 33E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone". 35Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.” 36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". 37Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. 38Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?". 42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
44Poi disse: "Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". 45Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: 46"Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto".
50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 52Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Giovedì 18 novembre-Giovedì 2 dicembre-Giovedì 16 Dicembre 2010
Riflessioni sul Vangelo di Luca 24, 13-53

I discepoli di Emmaus
L’intero episodio è un ponte che raccorda il nostro tempo, nel quale Cristo è assente dalla nostra verifica sensoriale, con la prima generazione di credenti che hanno avuto la grazia di incontrarlo, di ascoltare la sua voce, di vederne i gesti, di essere toccati dalla sua mano risanante; in modo particolare possiamo confrontarci con questi due viandanti che sollecitati dal suo insegnamento, lo riconoscono allo spezzare del pane, ma poi si ritrovano, loro come noi, privi della sua presenza. La bellissima immagine della sera che scende con un senso di sgomento pare rappresentare la lunga notte della storia.
La maniera più coerente e autentica per respirare il respiro di Dio nella storia è camminare al seguito del Signore Gesù, Dio viator, inviato a salvare le nostre vite, Egli non ha soste. Siamo tutti pellegrini dietro l’ombra di luce del Salvatore invitato da due viandanti di Emmaus a restare con loro. Il misterioso invito che il Signore riceve si capovolge ed è Gesù che paradossalmente rifocilla i suoi ospiti. Anche noi, volendolo accogliere con il dono e la forza dello Spirito Santo, ci accorgiamo che siamo suoi ospiti perchè in realtà è Lui, ed è da tempo, che ci nutre con alimenti fragilissimi: un foglio di carta la pagina del Vangelo, un pezzo di pane il frammento d’ostia che contiene per intero l’amore di Dio, segni entrambi della sua umiltà.
Accogliere il Signore che si dona e, come accadde ai due discepoli, riconoscerlo, è lo scopo del nostro cammino. Lo faremo attraverso la traccia di un Libro che con la potenza dello Spirito Santo si fa racconto che ospita le nostre biografie per renderci uomini di speranza consapevoli che Gesù è il Salvatore. La vita è il dono più grande e prezioso e la storia è il mare più affascinante ma anche il più periglioso; senza questo Dio, faro che trasforma l’inquietudine in speranza, i nostri giorni parrebbero assurdi.
Il Libro e il Pane ci conducono nella grazia di un’avventura comune: l’episodio si conclude, infatti, con un’esperienza di comunità. Dio stesso, nell’esperienza terrena del Figlio si manifesta come relazione, quindi capace di generare rapporti stabili, amorosi, cordiali, perseveranti tra chiunque, in perenne conversione, sia in perenne sequela.
Luca ha narrato tutta la vicenda terrena del Signore Gesù, portatrice di salvezza e realizzazione del disegno salvifico del Padre, inserendola nelle due coordinate fondamentali attraverso le quali l’uomo acquisisce la consapevolezza di essere nella storia: il tempo e lo spazio. L’evangelista, che ha cura di indicare i luoghi esatti attraversati da Gesù, di sottolineare come predisposti i tempi per l’attuazione del disegno salvifico di Dio precisati dal calendario romano, ne racconta anche i giorni.
Luca 24, 13-14 “13Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Èmmaus, 14e conversavano di tutto quello che era accaduto”.
Pare tutto accadere in quell’unico giorno pasquale che, anche se sembra volgere ormai al declino con un senso di sconfitta, la comunità dei credenti, ciascuno di noi, può avere la grazia di comprendere essere il tempo permanentemente abitato dalla presenza salvifica del Signore Gesù. Sulla via per Emmaus accadde questo: quel giorno trasformò il tempo della disillusione in quello della speranza in cui noi ancora abitiamo.
Questo inimmaginabile evento è, infatti, pedagogico riguardo alla trasformazione della disillusione in speranza, il verbo più importante è al versetto 21: “Noi speravamo”, in esso si rivela tutta la tragedia della delusione di quell’Israele che credeva in una liberazione dal giogo romano; è interessante notare che, anche se ristretta a uno scenario puramente politico e storico, c’era un’attesa di salvezza smentita dalla vicenda della crocifissione e dalla sparizione del corpo del Signore Gesù; nel “Noi speravamo” riconosciamo la verifica puntuale dell’apparente inefficacia del mistero pasquale nei nostri giorni, perché la morte continua ad avvelenarci, perché la disillusione mortifica le nostre attese, perché il peccato taglia le ali del nostro cuore, perché le relazioni spesso sono segnate da tradimenti, falsità, apparenze che mortificano le aspirazioni più alte dell’uomo.
Nonostante il mistero pasquale che, rinnovando l’uomo in Cristo dovrebbe davvero segnare un crinale tutto nuovo, anche noi talvolta diciamo, soprattutto sul far della sera, quando le tenebre mortificando la luce acuiscono il nostro senso di smarrimento e disillusione: “noi speravamo”.
E’ bene accennare anche a qualcosa della nostra umanità e delle sue dinamiche psicologiche in una lettura consapevolmente evangelica, che ha la presunzione di confortarci totalmente essendo il Vangelo la buona notizia del Signore Gesù venuto a dare compimento alla nostra umanità; può essere, infatti, utile leggere questo verbo nella biografia di ciascuno di noi quando, superato il crinale anagrafico della mezza età e trascorso ormai il mattino della vita, un senso di fallimento potrebbe albergare nel nostro cuore. Riflettiamo allora che altri due verbi si contrappongono al “Noi speravamo”, leggiamo al versetto 31: “Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”, riconoscimento decisivo per trasformare quel “noi speravamo” in “noi speriamo”; questo non significa la conclusione della storia ma rende possibile uno sguardo sul futuro animato dalla speranza.
Per la prima volta, dopo il lungo viaggio al seguito del Signore Gesù che doveva andare a Gerusalemme in obbedienza al Padre, troviamo un percorso inverso: due persone allontanandosi dalla città santa camminano verso un villaggio che ne dista circa sette miglia. I due viandanti si allontanano perché, delusi, ritengono che scappare possa metterli al sicuro ora che ogni speranza di liberazione e salvezza riposta in Gesù è andata persa.
E’ un importante movimento centrifugo che smentisce la visione di Gerusalemme come luogo gravitazionale della missione salvifica del Signore, Egli continua ad attraversare la storia anche fuori dalla grande città.
I due viandanti conversano tra di loro di tutto quello che era accaduto cercando di interpretarlo, ma non potranno capire prima di aver incontrato il Risorto.
Alla fine del Vangelo il Signore chiederà che nessuno si allontani da Gerusalemme prima della discesa dello Spirito Santo (Luca 24,4), necessario per interpretare correttamente i fatti ed essere inviati nel mondo a diffondere il Vangelo.
Luca24, 15-16 “15Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro, 16Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.”
Versetti molto significativi. Noi abbiamo una consapevolezza che i due viandanti non hanno, sappiamo che Gesù è loro vicino. Tutta la narrazione potrebbe indurre un senso di superiorità in chi, sulla scorta di queste parole cerca anch’egli il Signore, ma anche d’inferiorità perché i discepoli di Emmaus, incontrandolo realmente, avranno la grazia di essere testimoni diretti della sua risurrezione. La tensione che l’abilità narrativa di Luca imprime al racconto, cioè il farci assistere a una scena cinematografica in cui noi sappiamo quello che gli attori non sanno, crea drammaticità, una dimensione di partecipazione invidiosa che si scioglierà quando Lui sparirà dalla loro vista (v 31) e tutti saremo resi paritetici nella ricerca e nella relazione con il Signore. Di grande importanza le evidenti conseguenze: dovremo alimentare la speranza di incontrarlo guardando con l’occhio della fede i segni rivelativi della Sua presenza, i suoi doni, la sua voce nel Vangelo e il suo corpo nell’Eucarestia. I due di Emmaus hanno avuto la fortuna di incontrare il Signore Gesù risorto, noi, ancor più di loro sappiamo che, ogniqualvolta ne sentiamo il bisogno, abbiamo la possibilità di rapportarci a Lui in modo vivificante e speranzoso.
Nell’umiltà di sentirci in cammino dietro al Signore, ma anche con l’umiltà di aver bisogno, fame del suo pane, è data anche a noi la possibilità di ravvisare le tracce di quella speranza futura che Egli ha donato e che ci raccomanda come chiave interpretativa della nostra storia. Reso dal dono di Dio “homo viator spe erectus”, il credente avanza nella sequela retto dalla speranza. Clèopa e il suo compagno di viaggio furono incapaci di riconoscerlo perché la disillusione fodera lo sguardo del cuore e rende irriconoscibile chi tante altre volte abbiamo ascoltato e dal quale abbiamo tante volte appreso parole di vita. E’ una verità psicologica di grandissima importanza, la disillusione, la disperazione uccidono i nostri sensi e non ci fanno addirittura riconoscere il nostro prossimo.
Luca 24, 17-18 “17Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?".
Il tema è quello del cammino. L’incontro fecondo col Signore avviene nella misura in cui trasformiamo in sequela le nostre fughe dall’appuntamento con la sua volontà.
La narrazione è piena di significati e gesti molto espressivi: il volto triste della disillusione pare un’immagine cinematografica. La tristezza secondo Evagrio Pontico, un padre della Chiesa, è un peccato capitale, è la percezione di essere in affitto al diavolo perché è un attaccamento disperato a tutto ciò che è accaduto senza dare nessuna possibilità nuova di salvezza a tutto ciò che deve accadere. E’ questo il motivo per cui il baricentro di questo vangelo è tutto in quel “ noi speravamo”.
Gesù è poi apostrofato come “forestiero in Gerusalemme”, parola chiave di rilevanza teologica riguardo alla nostra relazione col Signore. Egli è in verità il massimo cittadino di Gerusalemme, intronizzato come Messia in modo paradossale: prima appare sulla schiena di un asino tra due ali di folla osannante, poi è crocifisso con una corona di spine e con un cartiglio che lo dichiara, di fatto, Re.
Questo paradossale re è tanto più re in quanto forestiero perché il modo per salvare la storia da parte di Dio è entrarvi con umiltà e poi allontanarsene abbracciandola dall’altezza della Croce con la potenza di un amore rivolto all’umanità intera. Re forestiero, pellegrino come noi, cittadini di questo mondo senza esserlo perché la nostra vera patria sono i cieli, come ci insegna San Paolo, e alla fine dei tempi sarà Gerusalemme celeste, sintesi di tutti i tempi.
Questa doppia appartenenza relativizza la nostra matrice di terra a proposito di un’appartenenza che abbia un sapere e un gusto universale, pieno, storico.
Luca 24, 19-24 “ 19Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. 21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro 23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto".
Inizia una narrazione molto interessante, asciutta nella sua essenzialità: è una sintesi biografica del Signore, è tutto oggettivamente vero, è materia della nostra fede. Non c’è ironia nel racconto ma una distanza emotiva abissale provocata dalla disillusione del cuore, un’attendibilità rifiutata, una conclusione drammaticamente efficace.
Questo racconto è un bellissimo esempio di antievangelo. Noi crediamo a un sepolcro vuoto e alle apparizioni in cui Gesù non è una visione, ma una presenza reale, conferma ne è la sua richiesta di cibo che registra il bisogno di un corpo, ma tutto è qui narrato con un’intonazione disillusa, antievangelica appunto, che è sostanzialmente quella con cui il mondo oggi legge il Vangelo. Per i credenti c’è pienezza di vita, di novità, di Spirito, che riformulano, per invertirlo nella speranza pasquale, il senso della storia.
Luca 24, 25: “25Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! 26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". 27E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.”
Il Signore rimprovera i due viandanti proponendo loro un riassunto della storia di Israele, delle profezie di Israele, perché sia tutto interpretato alla luce della sua persona, della sua presenza e fondamentalmente dell’amore che è venuto a raccontare al mondo intero: l’amore di un Padre che ha in Lui manifestato l’amore viscerale per la sua creazione, adottata come si adotta un figlio e amata come si ama un figlio, anche se quest’amore e quest’adozione in Cristo è parsa smentita proprio dalla vicenda della crocifissione che è motivo di sconcerto e sconfitta nei suoi due interlocutori.
Il Signore domanda anche al nostro cuore un supplemento di fede.
Il profeta Isaia più degli altri ci ha regalato alcune potentissime immagini in cui la storia dell’afflizione di Israele si andava consumando in un’esperienza di amore gratuito, misericordioso, insondabile di un Dio capace di trasformare le ossa in carne. La figura del servo sofferente (Isaia 53, 4-12) incarna tutta la facilità e la disinvoltura con cui l’uomo affligge l’altro uomo, lo carica dei peggiori pensieri, ma in lui si evidenzia l’immagine di chi ha assunto su di sé tutto il male rispondendo con un atteggiamento di affidamento, di disponibilità, di mansuetudine; è quindi facile ritenere che Gesù abbia proposto se stesso rappresentato in questa figura profetizzata.
In realtà nel discorso di Gesù c’è tutta la storia di Israele fin dai primi racconti sul patriarca Mosè che volle liberare il suo popolo oppresso, cioè fin da quelle prime esperienze di un amore provvidente che rendeva Dio presente nella storia.
Mosè ascolta la voce di Dio nel roveto ardente, un Dio che si propone come un Dio che è colui che è, quindi profondamente partecipe del nostro essere, che scende nella storia, che vibra della storia. I rabbini sottolineano la scelta del roveto ardente da parte di Dio; si tratta infatti, di una pianta umile, caratterizzata dalle spine sanguinanti perché da esso si ode provenire la voce di un Dio che patisce per il suo popolo.
L’interpretazione che Gesù certamente ha dato di tutta la storia biblica di Israele ai suoi interlocutori disegna un ritratto di Dio credibile nella misura in cui vi si riconosce il volto di un Dio che per amore non esita a caricarsi della sofferenza dell’uomo, non esiterà a diventare Lui stesso volto umano sofferente. Gesù, raccontando se stesso, traccia l’immagine di un Dio fattosi Uomo per proporre la salvezza nel segno della fede, Egli apparirà sconfitto da un punto di vista umano limitato: sarà crocifisso. I due di Emmaus con il cuore reso duro dalla disillusione, non hanno saputo riconoscere, come anche noi fatichiamo a riconoscere, proprio nelle sue ferite la regalità, il suo essere regnante per amore, con l’amore e nell’amore.
Dio è venuto a salvare l’uomo assumendo tutto dell’uomo e portando sulla Croce quella nostra stessa debolezza che mai, senza l’infinito cuore di Dio fattosi uomo in Cristo e avendoci così resi figli nel Figlio, si sarebbe fidata di un Padre che chiede di essere amato e invocato sulla Croce.
Nell’infinito cuore di Gesù, vero Dio e vero uomo, in quanto uomo cuore di carne ma infinito perché divino, il Signore ha portato sulla Croce tutti i nostri cuori, così lenti a credere, così difficoltosi ad aprirsi alla speranza in un Padre che avendoci voluto e resi suoi figli in Cristo certamente ci salverà.
Dio, nel suo smisurato amore, per salvarci ha donato tutto se stesso in Cristo, si è svuotato in Cristo, come dice S. Paolo, non ha trattenuto nulla di sé per farsi servo in Cristo, ha inserito nella carne di Cristo tutta la nostra disobbedienza creaturale.
Gesù, obbedendo alla volontà del Padre, ha portato sulla Croce la nostra durezza di cuore riaprendo il varco salvifico tra Dio e l’uomo che era stato chiuso dal peccato; il Figlio, entrato di nuovo in pienezza in relazione col Padre, ci ha reso possibile guardare a un Dio totalmente affidabile perché umile, silenzioso e liberante, che non convince, ma persuade con le tracce sanguinanti lasciate sulla Croce, eloquenti segni del suo amore per noi.
La parola del Signore è credibile perché testata da quest’esposizione alla sofferenza.
Luca spesso afferma che era necessario che il Signore patisse tutto questo, ma Gesù morendo sulla Croce non ha soddisfatto un desiderio vendicativo del Padre di aggravare il Figlio di una sofferenza redentiva che noi uomini non gli potevamo garantire e senza la quale non saremmo stati salvati ma, nella necessità della sofferenza di Gesù per entrare nella gloria eterna, dobbiamo riconoscere le tracce di un amore senza fine per gli uomini che ci faccia obbedire all’obbedienza fiduciosa con cui Egli è rimasto sulla Croce fidandosi del Padre.
Luca 24, 28: “ 28Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano”.
I viandanti intuiscono che il Signore deve andare oltre, più lontano; Egli ha una destinazione che oltrepassa quella fisica, limitata, che lo condurrà nella gloria della vita eterna, accanto al Padre; uno scarto immane sta di fronte alla pochezza del nostro sguardo che è invece colmo solo e soltanto, il più delle volte, della verifica drammatica della nostra condizione umana e ci rende gli uomini del “noi speravamo”.
Sulla strada per Emmaus accadde qualcosa che ha reso possibile tornare a sperare: sono le parole, sono i gesti che il misterioso viandante ha rivolto a quelle due persone, a tutti noi che, pur continuando a credere, siamo tante volte scoraggiati nella convinzione che gli eventi, la nostra stessa biografia, abbiano reso ininfluente la traccia da Lui lasciata ai fini della nostra personale esperienza di salvezza, di senso, di orientamento.
Egli ci ha donato la certezza di essere stati voluti e desiderati da un Padre, di essere stati quindi da Lui predestinati alla salvezza pur se, il più delle volte, sembra essere frustrata la nostra speranza e la vita ci appare come un’esposizione addirittura sadica a quella gamma di gioie, di attese che vediamo dominate, mortificate dall’incedere del tempo, dal logorio del male. In questa certezza l’uomo ritrova la possibilità di sperare ancora, cioè di far si che la fede, questa dimensione di apertura, si traduca in prassi quotidiana dei nostri giorni, per cui essa non è semplicemente credere che Dio esista, ma diventa davvero un’esperienza costante che questo Salvatore è Signore di ogni nostro minuto.
Il Signore Gesù con i due viandanti continua ad essere un uomo del mistero, continua però a sollecitarli e conseguentemente sollecita anche noi, ad aprirci a una dimensione di affidamento che è propria della fede che deve avere, irrinunciabile per il Signore, un tratto di libertà. Libertà preziosissima agli occhi di Dio, per la quale Egli continua a essere il pellegrinante, il misterioso viandante che appena fa il gesto che lo rende riconoscibile anche all’intelletto e non più soltanto al cuore, scompare.
In questo dobbiamo vedere il tratto inquirente proprio della fede: la dimensione esistenziale di ricerca insonne che deve caratterizzarla; la speranza non si dà banalmente come un dato conquistato definitivamente, ma si apprende con l’incessante rilettura della storia attraverso una chiave interpretativa ben precisa; solo così la storia biblica, ma in realtà ogni storia, diventa davvero manifestazione, certo non eclatante, di un agire salvifico del Signore Gesù; questo è ciò che ci abilita a diventare uomini e donne di speranza perché se non ritroviamo nelle cronache, nella storia e soprattutto nella vicenda stessa dell’antico Israele e poi nella vicenda di Gesù le tracce del disegno salvifico di un Padre misericordioso siamo condannati alla disperazione, cioè a non avere speranza.
Alcuni brani per ricostruire il contesto profondamente teologico dell’episodio di Emmaus:
Giovanni 6, 37… “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno”. Dobbiamo veramente riconoscere nelle ferite perdenti, mortificanti del Signore Gesù, la sua pienezza di vita divina, il suo essere stato raggiunto, rimanendo sulla Croce, dall’amore del Padre che attraverso di Lui obbediente ha sanato la nostra disobbedienza.
Prefazio settimo delle domeniche del tempo ordinario: “E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Nella tua misericordia hai tanto amato gli uomini da mandare il tuo Figlio come Redentore a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione umana. Così hai amato in noi ciò che tu amavi nel Figlio e in lui, servo obbediente,hai ricostituito l’alleanza distrutta dalla disobbedienza del peccato”. Il testo bellissimo afferma che il Signore ha amato in noi ciò che amava nel Figlio; grazie al rimanere del Figlio sulla Croce, attraverso la sua carne ferita ha potuto amare ciascuno di noi che avevamo volto le spalle al suo amore.
Paolo, Romani 15-4 “Ora, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza…” Per noi cristiani è fondamentale leggere e rileggere la Parola del Signore per tenere viva la speranza, per interpretarla come luogo dove incontriamo attuale, efficace, una narrazione che ci mostra e ci rende partecipi di un incessante fiume di grazia che sgorga proprio dalla sofferenza del Signore crocifisso perché attraverso di essa la nostra umanità, di cui Cristo è pienamente partecipe, fosse imbevuta dell’amore del Padre e si ricostituisse così una circolazione di amore che il nostro peccato aveva interrotto e di cui l’Alleanza era l’immagine. Il vero e unico peccato dell’uomo, la sua grande mancanza è non credere, non aprirsi a un amore filiale come ha fatto Gesù restando sulla Croce riconoscendo sempre, fino alla fine, che restava affidabile quel Padre, anche se lo aveva condotto alla morte smentendo apparentemente la sua paternità.
Quando si è oppressi da una profonda sofferenza nel cuore, occorre restare sulla Croce, fidarsi di una paternità che essendo estesa alla vita eterna, non può dire o dare tutto ora su questa terra. Il Signore resta misterioso, continua a camminare avanti ai due discepoli: “Fece come se dovesse andare più oltre” perché non si esaurisce tutto in questa vita, non basta la fedeltà alla vita, riconoscerla come mistero e dono, dobbiamo aprirci a un Dio salvifico che per ciascuno di noi ha dato suo Figlio e rendendoci figli nel Figlio ci fa partecipare a una paternità orientata a una pienezza di cui ora assaggiamo solo qualche segno.
Il segno più umile e sconvolgente è l’Eucarestia; i due di Emmaus lo riconoscono nello spezzare il pane ma poi Gesù scompare lasciando nelle loro mani il pane, il calice, come segni; anche a noi sembra assente ma ci ha lasciato nella sua carne ferita che Tommaso ha toccato, nel Cristo Risorto che i due hanno incontrato il segno della fede, della salvezza. Nessun prodigio nell’evento pasquale ma la presenza del Signore Risorto testimonia, interpellando la nostra fede e la nostra libertà, l’amore dativo del Padre, infinito, senza riserve, che si consuma amando se stesso in Cristo, consegnando se stesso in Cristo per elevare l’uomo a una dignità che lo libera.
Ogni volta che ci fideremo di un pezzo di pane spezzato, dell’ostia, il corpo di Cristo, parteciperemo alla pienezza della vita divina. Dovremo però allontanarci da Emmaus e incamminarci verso Gerusalemme perché anche per noi è scritta una storia di sofferenza in cui occorrono la nostra obbedienza e la nostra perseveranza; attraverso la nostra umanissima parabola di credenti, di missionari, di testimoni, si estende a macchia d’olio il disegno salvifico del Padre e si rende credibile fin nel nostro tempo. Riconoscendo nel pane spezzato il corpo spezzato di Cristo sulla croce, sarà possibile domani, per sempre, attraverso ogni celebrazione, ogni gesto eucaristico che la Chiesa ci dona trovare una goccia di quel fiume d’amore infinito di Dio e sentiremo anche noi ardere nel cuore la presenza del Signore.
Luca 24,32 “ 32Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?”. Quando il Signore Gesù reinterpreta la storia alla luce dell’amore infinito con cui è stata scritta e che il Lui ha trovato il suggello, i fuggitivi da Gerusalemme sentono ardere d’amore il loro cuore: finalmente hanno compreso di essere stati anch’essi voluti, cercati, amati, esperienza basilare di figliolanza su cui innestare fede, speranza e amore. Se noi non trasmettiamo al nostro prossimo, nelle comunità ecclesiali, nelle famiglie, la percezione di essere stati voluti, cercati e amati, non potremo mai parlare di evangelizzazione perché altrimenti il Vangelo resterebbe solo una notizia, narrazione di fatti; il racconto diventa Evangelo, Buona Notizia, solo inserendolo nell’orizzonte dell’evento salvifico, nell’amore e nella premura, nella paternità con la quale Dio ha scritto se stesso conferendo agli eventi la luce della speranza. Dobbiamo conoscere la Scrittura, ma non è sufficiente senza quel respiro tipicamente ecclesiale in cui noi facciamo esperienza di fede, di speranza, di amore comunitario perché solo insieme abbiamo la grazia di sentirci davvero popolo adunato dal Padre dal Figlio e dallo Spirito Santo per avere la salvezza.
Il Signore è venuto a portare nelle nostre vite una dinamica di perdono esistenziale: la nostra poca fede è stata guarita dall’amore di Gesù nel rispetto della libertà di ognuno, riconosciamo allora le nostre fragilità in quelle degli altri e addestriamoci a riconoscere i tratti veri della regalità del Signore, non il dominio e la potenza, ma le sue ferite e il suo peregrinare tra noi chiedendo accoglienza. Stranieri e viandanti anche noi su questa terra, come Lui, come i due di Emmaus, che lo incontrano sulla via, desideriamo trattenerlo per accorgerci poi che è Lui che ospita noi, che spezza il pane per noi, che ci serve alla sua mensa donandoci pace e la luce necessaria per rimetterci in cammino tutti insieme secondo logiche comunitarie. Siamo il suo popolo e saremo insieme salvati, chi è salvato come individuo è poi mandato a salvare gli altri.
Luca 24, 33-35 “ 33E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone". 35Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane”.
Da queste esperienze parte l’avventura ecclesiale che s’incarica di raggiungere chi molti secoli dopo può, ogni domenica nell’ascolto della parola, nell’umiltà dell’inchiostro su un pezzo di carta e nella fragilità di un pezzo di pane spezzato, riconoscere la presenza reale del Signore Gesù come quella di un Dio che parla, che si dona, che da questo mondo ci apre la porta del cielo verso dimore future nelle quali è ragionevole, bello e conveniente pensare che troveranno definitivo riposo i nostri corpi e le nostre anime.
Luca 24, 38-43 “ 38Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?". 42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.”
E’ interessante che il Risorto non chieda ai due di Emmaus di guardare il suo volto ma i piedi e le mani, le insegne del suo amore fino alla fine, i segni evidenti della sua crocifissione, ferite di un amore senza riserve nelle quali anche noi siamo chiamati a credere poiché portano il sigillo fondamentale della sofferenza liberamente assunta del Signore. Poi un ulteriore passaggio nella possibilità del mangiare insieme, di offrire una porzione di pesce che convalida di fatto la presenza fisica del Signore. Tutto questo produrrà come frutto un senso di pace, di gioia, di sollecitudine, la necessità di correre a riferire ciò che era avvenuto lungo la via.
Luca 24, 44-48 “44Poi disse: "Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". 45Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: 46"Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto.”
Importantissima la spiegazione delle Scritture che Cristo dà, alla luce della sua persona, nel contesto dell’evento reale della Resurrezione, ai due viandanti. Essi dovranno testimoniare l’evento pasquale che realizza, di fatto, il contenuto delle Scritture che avevano profetizzato la sofferenza del Signore, la sua resurrezione il terzo giorno. Nel Suo nome, poi, questi fatti andranno annunciati a tutte le genti, partendo da Gerusalemme, per chiedere la conversione e ottenere il perdono dei peccati. E’ una struttura concentrica che ha al suo centro la persona di Gesù che, prima si fa riconoscere dai suoi nello spezzare il pane, e subito dopo, consegna il dono messianico della pace e la possibilità per tutti e per sempre, illuminandoli di Spirito Santo, di ritrovare i segni della Sua presenza. Luca ci vuol dare con ogni mezzo e attraverso ogni segno tangibile la certezza della Resurrezione il terzo giorno, in pieno compimento delle Scritture e secondo il disegno del Padre, nell’estrema premura di farci anche comprendere che il Signore, anche se pare assente, continua ad abitare la sua Chiesa.
Luca 24, 50-53 “50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 52Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.”
Bellissima la chiusura del Vangelo di Luca che termina nello stesso luogo e con la medesima atmosfera con cui era iniziato.
Era iniziato con l'annuncio dell’angelo a Zaccaria della maternità di Elisabetta e della nascita di Giovanni, nel tempio e nel segno della gioia di una nascita (Lc 1, 17); ritroviamo ora nello stesso tempio, dove i discepoli stavano riuniti, la stessa gioia e la lode al Signore. Il tempio custodisce un gruppo di persone che hanno finalmente la piena consapevolezza che il Signore è tuttora presente nella storia, li ha visitati, ha donato loro la pace, ha confermato con le ferite d’amore del suo corpo l’attendibilità e la realizzazione del disegno di salvezza del Padre, e infine, che prepara il dono dello Spirito Santo. Sarà la sua discesa a dare la forza necessaria perchè il tempio apra le sue porte e da esso si annuncino gli eventi evangelici: la proclamazione fino agli estremi confini della terra della venuta del Signore, della Sua morte e della Sua Resurrezione.
Il finale lucano della biografia di Gesù è l’invito che solo la morte cristiana può fare alla fede offrendo in un crinale drammatico quel frammento di luce che ci ricorda la presenza del Signore anche quando si fa sera.
La poetessa Margherita Guidacci bene sintetizza il tema dell’amore modellato su quello di Cristo Crocifisso sul quale appuntare il nostro sguardo; non dobbiamo pensare che Dio muoia per salvare l’uomo peccatore in una semplice logica di scambio, ma è necessario riconoscervi tutto il dramma della fede, la speranza del Padre che il Figlio obbedisca, la speranza del Figlio che il Padre non lo abbandoni. Nella Croce c’è la dimensione di amore reciproco sulla quale misurare l’infinitezza dell’amore trinitario attraverso il quale l’uomo può ritrovare i suoi tratti più fragili trasfigurati nella misura infinita dell’obbedienza del Figlio e della donazione del Padre.

Il mio amore che nasce in te
non finisce in te.
Sei la mia porta d’amore
attraverso cui passo
incontro all’universo
tendendo a tutto le braccia.
Sei la mia libertà, che oltre la diga spezzata
riversa le acque trionfanti,
le vuota in un attimo,
e apre tutte le gabbie
empiendo il cielo di migliaia di uccelli
che non si lasceranno mai più imprigionare.


L’immagine delle creature alate che non vogliono più essere imprigionate ci ricorda l’insindacabile dignità del nostro essere figli di Dio, liberamente chiamati a un’obbedienza che schiuda i nostri cuori al destino ultimo e più vero: essere assunti nella gloria del Figlio, al cospetto del Padre, nell’incessante circolarità d’amore dello Spirito Santo. Altre due sue liriche ci suggeriscono come la fine possa essere interpretata nel segno della fede:

Finale

La stazione dove salisti nel mio scompartimento,
mai vi fu nome più appropriato,
finale di quel viaggio e anche dell’altro.
La mia vita in cui tu eri allora ricomparso
dopo una così lunga separazione che misurarla dava le vertigini.
Le nostre mani si cercarono, occhi ansiosi evocarono nei nostri visi
segnati dal tempo i due giovani visi di una volta.
Il treno intanto correva lungo il mare
il suo rumore come la frana dei giorni lasciati indietro
andando verso un futuro anch’esso pronto a franare,
insulto della vecchiaia l’ultimo declino che ci attende
ed il nuovo e necessario addio
Lo sapevamo ma le tue mani stringevano le mie
e più nulla contava né conta ora.
Il nostro è amore d’anima
E noi siamo più grandi di tutto quello che ci può accadere.
 


Alla fine dei secoli
 

Alla fine dei secoli quando mi chiamerà un’altra voce,
e proverò per la seconda volta l’impeto di resurrezione,
prego che come questa volta quando sei stato tu a chiamarmi
alzandomi stupita dalla fossa con le ossa che sentono la carne
stendersi nuovamente su di loro,
con la carne che sente in sé di nuovo penetrare l’anima,
io possa, in quel tremendo campo dove avrà inizio l’eterno,
fissare il primo sguardo su di te, ritrovarti al mio fianco.