di Andrea Parato
Trovo nelle poesie della Sequenza di dolore di Rosa Elisa Giangoia ancora palpitante la sofferenza, quel filo rosso indicibile che unisce quanti hanno perso una parte della loro stessa vita.
L'autrice non ha paura di riconoscere la morte come ospite ingrato che giunge a interrompere un dialogo intimo, che per i veri amanti (nel senso etimologico del termine) continua anche oltre il confine, sulla carta e nel cuore: “non è la morte che separa davvero”.
In un intenso lavoro che ricuce la memoria alla preziosità del dono esistenziale attraverso la fatica del quotidiano, sempre vissuto assieme, l'autrice ricalca gli ultimi momenti come se fossero attuali nella poesia e nel ricordo, eppure anche essi – per fortuna – destinati a passare: non c'è più qui e ora, semmai sempre e mai si abbracciano.
Nei testi asciutti e densi, scritti con perizia e carichi di espressività, domina una malinconia che mi richiama alla mente l'immagine dell'artista che continua a creare le sue opere senza più lo scopo per cui realizzarle.
Il tono della poesia è austero e misurato, quello di chi ha una fede quotidiana e concreta che non permette di cadere nella disperazione, ma neppure di nutrirsi di facili illusioni.
Il paradosso della poesia è che “le parole sono il nostro limite”, il limite dell'espressione e della parola che, da strumento e consolazione, diventano muro invalicabile, arnesi spuntati inutili a scalfire la pietra sepolcrale che ci separa dall'altro. E per quel poco che ormai serve, la poesia serve a noi. Ad aggrapparci, per quel poco che ci resta, all'oro stupendo rimasto in fondo alla nostra esistenza, dopo il vaglio tremendo del nostro crogiuolo personale: “Bisogna prendere dalla vita / le parole per dire la morte / che non ha parole”.
Ringrazio l'autrice per avermi ricordato lo stupore e la dignità umana di una morte attesa in modo vigile e consapevole, né combattuta né rassegnata: “il tuo esercizio per diventare / capace di morire”.
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