giovedì 26 maggio 2022

“… cosa rimasto…”

Prefazione di Alberto Bertoni
Intervista a cura di Luigi Cannillo

recensione di AR


“Droni sorvoleranno città, / il tempo di un click e un algoritmo / sceglierà il tuo robot gemello.” (p. 46)

Il titolo di questa recensione è una locuzione ricorrente, una cifra importante di questa raccolta che chiude la trilogia iniziata con Ero altrove (2015) e proseguita con Contratto a termine (2018). Caratterisitca della poetica di Luca Ariano è l’immersione in un paesaggio umano e ambientale in in certo senso sfasato, pessoanamente molteplice. Se i luoghi, per lo più lombardi e padani, sono riconoscibili, una certa vaghezza temporale (si parla a volte di eventi relativi alla seconda guerra mondiale e ai decenni successivi, a volte di fatti a noi contemporanei) e la presenza di vari personaggi (Fiulin, Teresa, l’Enrico, Giggino, Rosa, Valeria, ecc.) contribuisce a creare un certo spaesamento nel lettore. Una sorta di nebbia comunque affratellante: si percepisce la vicinanza a persone dimenticate, emarginate o dalla vita spesso in ombra e anonima (come del resto suggerisce il titolo della raccolta). Una pietas virgiliana e un’etica ispirata a favorire una società più equa, più giusta e più rispettosa dell’ambiente e della dignità di ogni persona percorre le pagine:  “Non pensavi di rivedere mura ai confini, / rovine archeologiche polverizzate / e profughi in fuga da sabbia / e polvere da sparo.” (p. 22); “La mia mano sarà sempre lì a scaldare / le tue dita, a stringere i polsi tremanti / quando sentirai scendere la sera / e penserai che domani la brina / possa avvolgere tutto.” (p. 38)   

Lo sguardo di Luca non fa sconti né sul piano sociale né su quello della responsabilità personale e in maniera apparentemente asettica ci pone in medias res utilizzando immagini potenti: “Ti spaventa il vento / che porta fumi di rifiuti bruciati, / piazze arse come  rivoluzioni / fuori limite massimo… / l’illusione di cambiare il corso / della Storia: cosa rimasto di monasteri? / Ruderi di eremi dove nessuno / pregherà nei chiostri, coltiverà orti / o bonificherà paludi. / Tu attendi sempre la scusa / per scambiare baci in borghetti / protetti dalla discesa della sera.” (p. 85).

L’uso della seconda persona singolare è pervasivo, ma è un tu-specchio che risulta  quindi soggettivamente interrogante e in qualche occasione inquietante. Esso “ti” costringe infatti a non eludere le questioni ma a fartene carico (o anche a decidere di “sorvolarle” ma ingenerando in tal caso un vago senso di colpa, perché le cose possono iniziare a cambiare solo se ciascuno si adopera in primis a cambiare sé stesso, a sentirsi parte di un corpo sociale che nel bene e nel male lo ha formato e nel quale può/deve spendere i propri talenti).  Ariano è come se si/ci chiedesse di andare oltre il particulare che finisce poi per darla a vinta al particulare dei pochissimi che sanno bene come orientare, se non opprimere o eliminare, quello dei tanti Senza nome.

“Ragazzo ti immaginavi / in un romanzo di Fenoglio: / cosa rimasto di quei volti?” (p. 78)

Cosa rimane in noi dalla lettura di questa opera in versi dal sapore al tempo stesso mitico e attualissimo? Resta un invito a leggere i “giorni” con rinnovata  attenzione ed empatia, a sentire gli altri come soggetti meritevoli di rispetto, latori, ciascuno a suo modo, di ricchezze magari nascoste ma sempre uniche e sorprendenti. Il mosaico è fatto di tessere diverse che singolarmente non significano nulla e hanno un valore infinitesimale (eppure insostituibile) rispetto a quello del mosaico completo. Mettiamoci dunque in gioco: gli altri siamo davvero noi e solo in una società dialogante e accogliente possiamo dare il meglio di noi stessi e magari un senso alla Storia. 

Resta anche che dobbiamo ricordare (cioè riportare al cuore) il fatto che siamo corresponsabili di quanto sta accadendo su questo pianeta così piccolo, fragile e prezioso.

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