Le Voci della Luna Poesia, Volume curato da Ivan Fedeli, presente con una nota critica in quarta di copertina assieme alla nota di Lorenzo Mari
Edizioni Dot.com Press, febbraio 2015
pp. 92, € 10,00
recensione di AR
Forse la poesia di
Luca Ariano può essere definita caleidoscopica. Certo non nel senso di
illusionistica/fantasmagorica, ma in quello più sobrio di attenta agli scarti
(anche minimi), ai cambi di prospettiva, alla messa a fuoco di dettagli che
hanno poi una ricaduta importante fino a trasformare il contesto di partenza,
producendo una “lettura” nuova e in qualche caso spiazzante, della storia,
della realtà. Caratteristica dello stile di Ariano è infatti l’uso accorto di
personaggi che – come osserva nella perspicua postfazione Salvatore Ritrovato –
sembrano attori di un film neorealista in cui il poeta-regista si riflette e si
adombra. Essi vivono i loro piccoli/grandi drammi, esprimono i loro desideri,
trovandosi calati in una situazione storica che sembra aver dimenticato valori
e ideologie, per cui i deboli vengono emarginati, sfruttati e brutalizzati e la
natura violata e consumata senza alcuna remora. Le stesse relazioni umane – sempre più centrate sull’individuo
piuttosto che sulla comunità – paiono improntate al soddisfacimento di bisogni
(magari indotti) e alla conquista di mete a breve raggio anche queste poi
raggiungibili solo da pochi fortunati o privilegiati. I desideri profondi, i
progetti di vita, rischiano così di essere rimossi da diverse “voci” di questa
raccolta, che si trovano spaesate, frustrate, precarie, incerte del proprio
cammino. C’è quindi una poetica della nostalgia di tempi storici in cui si
rischiava (si pensi alla Resistenza), si solidarizzava, si voleva trasformare
assieme la società per renderla più giusta e attenta a chi partiva da posizioni
svantaggiate, si poteva contare su figure autorevoli, su testimoni autentici. Ora pare che oltre alla figura del
padre, siano spesso latitanti anche queste personalità, e ciascuno rischi di
appiattirsi su un conformismo consumistico senza prospettive. Anche la presa di
coscienza di chi giustamente si indigna, fa fatica diventare un impegno etico a
medio-lungo termine ampiamente condiviso.
Emilio, Teresa,
Andrea, Fiulin (proiezione di Ariano stesso
e del suo fanciullino, per usare un termine pascoliano), Enrico… sono i
personaggi più presenti nelle cinque sezioni di Ero altrove.
La prima – “Città
perdute” – si apre con una dostojievskiana citazione di Peppino Impastato: Se si insegnasse la bellezza alla gente si
fornirebbe un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. Già il
titolo della sezione e le parole di Impastato ci forniscono una chiave
importante per immergerci nella lettura dei versi che oltre alla critica e alla
implicita spinta a reagire alle brutture che ci circondano, sono costellati di
immagini che restano impresse: “balzando tra i castagni ha visto / montagne
abbandonate e boschi / dimenticati anche dai funghi.” (p. 7); “a pochi passi si
sentivano le rane di sera, / un vento senza alberi sradica grondaie / strade
allagate di spiagge spianate da nuove stagioni.” (p. 10).
La seconda sezione
si intitola “Scanzoniere”: “L’Emilio forse prenderà un’ora / di permesso per
andare al funerale / d’un partigiano: è morto lassù, / (…) / mentre tramonta il
sole dietro Appennini / e anche l’autostrada bianca ai lati di capannoni /
invenduti ha il sapore di caffè e benzina.” (p. 22); “Teresa si sente come
foglie secche / cadute nell’acqua e scarpe / che lasciano passi impantanati”
(p. 28); “Il tramonto è una crema al salmone / da spalmare su un cielo d’inverno”
(p. 29). “Morbi”, la terza
sezione, si apre con una intensa citazione di Gian Ruggero Manzoni che inizia
così: La vita è agire, essere liberi, lottare e soffrire, per poi stringersi nelle
spalle e slargarsi in una risata. Anche in questa sezione colpiscono alcune
immagini: “La luna è una julienne in
un’aria soffritta, / di un cortile da cinema parrocchiale” (p. 37); “fuori la
città è un’Alabama / di bus vuoti e strade deserte” (p. 39); “Teresa sente le
stagioni franare / come mura romane / che nessuno cura più.” (p. 42). “Corte
Marziale”, la quarta sezione, ha in esergo versi del poeta latino: Mi piace quella terra in cui felice / mi
rende un esiguo patrimonio… È forse la sezione più esistenzialista: “Il
barbone del bar Monza / ciondola tra una chiesa razionalista, / bancomat e banconi
da bere. / Dicono sia stato un bancario…” (p. 51); “Fiulin e Teresa tra schiumosi cavalloni / a saltare il futuro come
un nasello / che di notte finirà in una rete.” (p. 55); “L’Enrico riscopre il
calore di una donna: / tra passi tremanti in fondo sorride come adolescente.”
(p. 57); “Quell’uomo guarda i numeri dell’orologio: / conta… riconta… le
lancette, / i numeri non quadrano più.” (p. 63, questa immagine mi ricorda una
scena de Il posto delle fragole di
Ingmar Bergman).
Come si può
constatare da questi passaggi, la scrittura di Ariano è parecchio prosastica
(Ritrovato la definisce a tratti “sgranata, sporca”), il ritmo della
versificazione evita in maniera sistematica adagiamenti musicali, ma offre la
sua poesia nella bellezza spiazzante delle immagini che la impreziosiscono e
nella icasticità di alcuni versi lapidari. Eccone qualche esempio tratto dall’ultima
sezione, “La Renault di Aldo Moro”: “la pianura illimitata ti angoscia lo
sguardo: / cerchi il profilo di colline, / il profondo respiro delle onde.” (p.
74); “un tempo sognavi ti portassero via… / ora dondolato sui binari / pensi a
un viaggio perduto.” (p. 77); “Ricordi passeggiate sotto i portici / cercando
uno sguardo, / fino al suono delle ore / che ti riportava al mesto desinare.” (p. 78).
Nessun commento:
Posta un commento