mercoledì 29 agosto 2018

NICULINA OPREA, poetessa rumena in traduzione inglese e in italiano

Three Poems by Niculina OPREA 
English version by Gabriela PACHIA
Traduzione Georgeta Liliana CARABELA
 Deserting Melinești  

The tree within myself
yielded fruit unexpectedly; 
I was to leave 
that sparkle-like morning,
only my parents, 
the sole roots 
(thin-threaded as they were) 
would cross my mind like the tide.
“Don’t go away, don’t go away,”
would my mother pray to the sun, 
my father would accuse me of the sun’s birth…
Only my brother would promise 
to search for me in the waters of the Acheron. 
©Niculina OPREA English version by Gabriela PACHIA 

 Partenza da Melinesti

Dentro di me, l'albero 
aveva dato frutti sorprendenti; 
dovevo andar via quella mattina come una scintilla, 
solo i genitori, le uniche radici, 
(anche quelle fragili)
transitavano ancora per la mia mente
come una marea. 
Non andartene, non andartene,
mi supplicava la mamma sotto il sole,
il babbo mi imputava la sua nascita...
Solo mio fratello mi prometteva
di cercarmi nelle acque dell'Acheronte. 

 © Niculina OPREA 
Traduzione Georgeta Liliana CARABELA 




  The Riverbank To Gabriela and Lavinia

 Night suddenly befell the air and the soul,
 no idea fluttered upon the temple of the blood
 frozen amongst the wavering seconds,
 solely my blonde daughter
 would order the officer on duty 
 that no red poppy should dare to get enshrouded 
 in the rainbow’s colours 
 while he was duty-bound.
 My soul got curved
 like a bow ready for to hunt; 
 no sunrise would comfort the eye
 of the poison-wrapped arrow,
 only my dark-haired daughter
 would fly kites over the riverbank 
 on which I could hardly breathe.
 © Niculina OPREA 
 English version by Gabriela PACHIA 

 La riva tra Gabriela e Lavinia 

Si era fatto notte all'improvviso
nell'aria e nell'anima, 
nessun idea svolazza sulla tempia
del sangue gelato tra gli indecisi secondi,
solo la mia figlia bionda
ordinava alla guardia di servizio che,
durante il suo turno, 
nessun papavero rosso
indossi i colori dell'arcobaleno. 
Mi si era incurvata l'anima 
come un arco da caccia; 
nessun spuntar del sole  
accarezzava l'occhio 
della saetta avvolta nel veleno,
solo mia figlia innalza aquiloni
oltre la riva che io non  potevo respirare.
 © Niculina OPREA 
 Traduzione Georgeta Liliana CARABELA 

The Little Jewish Girl 
I drink the wax-yellow poison
From the golden chalice,
I fling my snake skin farther than far
Since it no longer fits.
I am the little Jewish girl,
Devoted to you,
I take everything upon myself,
While you are awaiting to behold me 
On the country road,
Walking straight along through the light
my sandals in my hand, 
my frock blown up by the wind.
 © Niculina OPREA 
English version by Gabriela PACHIA 

 La piccola ebrea 
 Dalla coppa d'oro
 bevo il veleno giallo
 come la cera, 
 il più lontano possibile
 butto via la pelle di serpente. 
 che non mi calza più. 
 Sono la piccola ebrea,
 devota a te
 e mi assumo tutto, 
 tu, aspetti di vedermi 
 sulla via della campagna, 
 mentre vado dritta
 attraverso la luce 
 con i sandali in mano,
 con il vestito sollevato dal vento.
 © Niculina OPREA 
 Traduzione Georgeta Liliana CARABELA
NICULINA OPREA, poetessa, nata il 5 marzo 1957 a Melinești, distretto Dolj, Romania, ha esordito nel 1974, a Craiova, nell' inserto letterario del quotidiano ''INAINTE'' e poi nella rivista ''RAMURI'' con lo pseudonimo letterario Ioanina Prelecu.
E' laureata in legge. Dal 1977 vive a Bucarest insieme alla famiglia. E' socio effettivo dell' Unione degli Scrittori di Romania, la filiale degli scrittori di Bucarest- sezione Poesia e anche membro d'onore di PEN Internazionale, Turchia.
Ha pubblicato poemi, recensioni, saggi, ed interviste nelle principali riviste letterarie e di cultura del paese e all'estero. (România literară, Ramuri, Luceafărul, Viața românească, Familia, Convorbiri literare, Poesis, Poezia, Varlık, Yasakmeyve, Kurgu, Kuşun Kalem, Akbük, CazKedisi, Şiirsaati, Flammes Vives, RAL, M , Migotania, Tygiel Kultury, Stina, s.a.).
Alcuni dei suoi poemi sono stati tradotti e pubblicati in molte lingue: inglese, francese, spagnolo, (catalano e castigliano), turco, polacco,tedesco, bulgaro, arabo, serbo, albanese, cinese, giapponese, teluglu (India), e tre dei suoi libri sono stati tradotti e pubblicati in Turchia da Case editrici importanti.
Libri di poesia pubblicati: Nelle acque dell'Acheronte (1994); Il passaggio (1996); Sotto la tirannia del silenzio, (2000); Litanie al margine della memoria (2002); Quasi nero (2004); ... l'estate prossima, sempre tu sarai quella (2004); Les Guérisons imaginaires (2007); Le nostre vite e le vite degli altri (2008); Radici sopra le soglie (2016); Quasi nero, II Edizione ( 2017); Le nostre vite e le vite degli altri, II Edizione ( 2017).
Libri di poesia tradotti e pubblicati all'estero : Neredeyse Siyah (traduzione in turco del volume Quasi nero, traduzione Ayten Mutlu, 2011); Bizim Yaşamlarımız ve Başkalarının Yaşamları (traduzione in turco del volume Le nostre vite e le vite degli altri, traduzione Mesut Şenol, 2013); Med - Cezir Arasında, poemi tradotti in turco da Erkut Tokman (2016).
Saggio:: Ipostasi della poesia romena, vol. I, (2015).

Intervista: Celebratio (2011).
Traduzioni: L'Eufrate, il mistero del mio destino, poesia di Sherko Bekas (2011); Gli occhi d'Istambul, poesia di Ayten Mutlu. (2012); L'iniziatrice, novelle di Mustafa Balel, (in collaborazione con Florin Logreşteanu), (2014); La strada che cerca il mare, poesia di Hilal Karahan (2014); Cepuscolo su Bosforo. Antologia di poesia contemporanea turca (2015); Tempo fuso, poesia di Enver Ercan (2016); Aspettando il vento, poesia di Mustafa Köz (2017); Preludio per una notte a Kars, poesia di Metin Cengiz. (2017).
Afiliazioni:
- Socio effettivo dell' Unione degli Scrittori di Romania, la Filiale degli Scrittori di Bucarest – Sezione - Poesia
- Membro d' Onore di PEN Club Central Turchia
Premi: Premio per Poesia ,,AD-VISUMˮ per il volume ,,Quasi nero”, Baia Mare (2005); Premio “Naaman per Culturaˮ, Liban (2011); Premio per Poesie “Dionysos Solomos” Larissa – Grecia (2011); Premio ,,Il Poeta dell'anno, 2015ˮ, conferito ad ogni paese da IAPWA ‟ PEGASIˮ Albania (2015); Premio per Poesia “Ӧzkan Mert”, Izmit, Turchia (2018).
Selezione dalle referenze critiche in volumi : * Paul Aretzu, Visioni critiche, Casa Editrice Ramuri, 2005; * Nicolae Oprea, Notti di insonnia, Casa Editrice Paralela 45, 2005;
* Horia Gârbea, Arti parziali, Casa Editrice Muzeul Literaturii Române, 2005;
* George Chirilă, Fra ironico e immaginario, Casa Editrice Viitorul Românesc, 2001.
* Petre Ciobanu, Marginali di critica e storia letteraria, Casa Editrice MJM, Craiova, 2004.
* Petre Ciobanu, Dei flash critici, Casa Editrice Ramuri, Craiova, 2008. * Dizionario degli scrittori romeni di oggi, Casa Editrice Porțile Orientului, Iași, 2011;
* Ion Pachia-Tatomirescu, Pagine di storia letteraria valacca di domani, Casa Editrice Waldpress, Timişoara, 2014.

In Romania e all'estero, Niculina Oprea ha effettuato degli interventi sulla letteratura a varie conferenze e ha sostenuto delle letture pubbliche. 



martedì 21 agosto 2018

“… oggi saremo chiodi"

[ 11.50 14 8 2018 Genova ]

Ci siamo noi nella pietra imperfetta 
che spezza l’arco del respiro 
noi sudario nella vertigine finale 

così dipana vite tramontana 
e pianta il freddo nei bisbigli
mamma dio oggi saremo chiodi 

arresi alla caduta 
saremo urla umane 
nel boato di cemento 

la via che cavalcammo 
ci tradisce e muove 
disattenta su di noi 

mani del cielo sporche dei grigiori 
della terra polvere 
saremo indistinguibili dal tempo 
che ci si schiaccia in gola 

(Marco Colonna, copyright, 20 agosto 2018)


lunedì 20 agosto 2018

Come alberi abbattuti

Come alberi abbattuti

Sono come alberi abbattuti
prima che possano alzare i rami al cielo
coperti di fogliame, frutti
germogli
ancora pieni, d’improvviso stesi
senza il tempo per una resa scaltra
senza poter tendere le radici altrove

sono come alberi scorticati vivi
messi in gore di pietra
presi dalla terra, dalle formiche
da un fiume fermo di sterpaglie
e ruggine.

(alle vittime di Genova)

Rita Stanzione, 17 agosto 2018


sabato 18 agosto 2018

Il molo vivo, visionario e oltre il tempo del poeta

su Appunti di viaggio di Claudio Signorotti

recensione di Marcello Tosi


http://www.faraeditore.it/html/filoversi/appuntidiviaggio.html

A partire da una dimensione intima e familiare in movimento, quella dei versi de Il fiume (“Assomiglia alla vita… / si può essere sorgente e forza / oppure riposo e pace / acqua / vita per chi è vicino”), per dipanare attraverso i titoli successivi il senso stesso del viaggio: Senza patria, Una piccola partenza, ma per giungere a domandarsi prima d tutto il perché di questo viaggiare, “il motivo, lo scopo, la finalità” (“Una giornata particolare / fuori città nell’altra città / lontano, quasi in un altro mare… Solo al ritorno arrivano i mali, / il treno in ritardo / e il corpo finito tra gli strali”).

“Negli anni Novanta scrive l’autore nella premessa al volume, recentemente pubblicato da FaraEditore un gruppo di poeti inglesi ha dato avvio ad uniniziativa molto particolare, quella di pubblicare componimenti classici e contemporanei all’interno delle carrozze viaggiatori e dei corridoi della metropolitana di Londra e i viaggiatori indaffarati potevano concedersi un momento di pausa nella frenesia della giornata lavorativa. Le poesie di questa sezione hanno per argomento scorci di natura, popoli e città”. Così Il cielo del Messico “scelto per scappare / forse per amare” appare “intatto anelito di giustizia”. Ma “Il mare ci porta”, ribadisce, e tra onde e dune (quasi metafora del lavoro del poeta, tra mare e deserto) a condurre, quasi montalianamente, sulla via della poesia è lo spazio del molo, che “anche oggi ha retto / e mi ha portato in mezzo al mare”. E che riporta alla poesia della terra natia, contraddistinta da un anelito, a un soffio pascoliano. Le dimore degli angeli: “luci di colori, / nelle casette / di campagna / intorno a San Mauro”.

Poesia dell’oggi, di un “Vero camminatore a Rimini”, dove l’autore è nato e lavora presso il Museo della Città. Gli piace paragonare l’attività del pensare poetico a quella del contadino: come con le zolle della terra, i pensieri vanno rimossi, rigirati, messi in disparte e poi reintegrati, spesso rullati, sempre innaffiati perché non bastano le nuvole, cioè le circostanze, a renderli poetici. Va da sé che il libro più bello è la natura.

Il poeta, scrive, “è un cuore aperto” che trova la sua illuminazione in una imperativa esortazione: “Vivi! da vivo / il cuore batte”. E il suo prima, come quello di uno scriba, è “guardare / il foglio imbianco ammirare”. È il momento di un fare scrittorio affine all’“Alchemia” (titolo di una delle sezioni della raccolta). Il momento in cui delle parole si fa l’esperienza, rinvenendo che “un’emozione non è mai identica a quella vissuta in circostanze diverse”. Il momento di dare un nome ad “attimi”, a volti che si vogliono trattenere nella memoria, a “impronte di libri” avendo “il mare nel cuore / l’acqua nelle mani…”. Ed è sempre “l’impegno, la ricerca / il corridoio e un laboratorio, / uno sguardo d sollecitudine / tra poche lacrime, / la via di una salvezza”.

Altre sezioni, come “La tartaruga e il braccialetto”, “Sandali blu”, appaiono rivolte a ricordare attimi di riconoscimento di vita e umanità: “non è facile mettersi nei panni di qualcuno… è ancora più difficile mettersi nelle sue scarpe”. Ma quando questo avviene scaturisce come la visione di un mondo nuovo, di varchi sorprendenti, in cui immettere il nostro umano cammino: “assomiglia alla vita… / si può essere sorgente e forza / oppure riposo e pace / acqua… / vita per chi è vicino” (Il fiume), “Tutto è qui / intorno / sono libero” (Tutto è qui) e il poeta impara a conoscere fino in fondo la forza delle parole: quelle che ti han fatto vivere / le hai nel cuore, / quelle che ti hanno ucciso / non sono più”.

Anche le escursioni nella poesia dialettale di Tanimodi, La mi ma sono spiegate da Signorotti come l’anima intima, la sotterranea vibrazione di suoni e parole che non si possono riprodurre con la stessa efficacia in italiano.

Introducendo l’autore lo scorso 21 luglio al Museo di Rimini, Massimo Pulini, assessore alle attività culturali, ha sottolineato come ci sia necessità della poesia in momenti come questi in cui le parole hanno bisogno di essere calibrate. Di questo persistere della poesia come filtro antico di un sentire sia critico che di sentimento, di versi che sono come il passaggio dell’acqua sulla terra, filtrata, purificata, così come è purificata la poesia dall’autore, che la sottopone ad un vaglio molto rigoroso.

“Che tipo di viaggio è il tuo?” è stato chiesto all’autore. Un viaggio col pensiero, nel tempo passato, in luoghi diversi dove volevo andare per capire cosa salvare, quegli episodi che volevo capire, quelle persone che non rivedrò mai più, attimi preziosi a cui volevo ridare il giusto valore. Scrivere mi ha fatto vedere che non erano emozioni effimere. Il ritorno è come un andare all’indietro. Il tempo ritrovato è importante, e ogni poesia ha il suo respiro, il suo tempo di comprensione. È un’apertura nel tempo, del tempo.”

lunedì 13 agosto 2018

Sfuggiti alla violenza, lontani dalla luna

Amanullah Ahmadzai: Lontani dalla luna –Dall’Afghanistan all’Italia, FaraEditore 2018

recensione di Vincenzo D’Alessio



Prima di iniziare la condivisione del diario di viaggio compiuto da Amanullah dall’Afghanistan all’Italia vorrei ricordare a me stesso i versi intramontabili dello scrittore Primo LEVI che aprono il resoconto del suo vissuto nei campi di sterminio nazisti: “Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo.”

Terzo classificato al Concorso Nazionale Narrapoetando 2018, bandito dalla stessa Casa Editrice, il volumetto Lontani dalla luna di Amanullah Ahmadzai invita ognuno di noi a considerare l’incertezza del viaggio e i suoi molteplici aspetti.
Incontrare persone buone, uomini violenti, assassini e la sfida che Madre Natura mostra nel volto peggiore: madre matrigna.
Non è un racconto ma un diario del viaggio iniziato in Afghanistan per raggiungere l’Italia: meta dei racconti di altri giusti sfuggiti alla violenza delle guerre religiose, tribali e razziali.
La luna, assunto come simbolo nazionale in diverse nazioni dell’ Oriente, è divenuta la dea crudele che permette ai persecutori di spezzare la vita del viaggiatore in qualsiasi momento.
Ogni sorta di privazione accompagna il viaggio del giovane Amanullah, minorenne, di suo fratello e di tutti gli altri che non hanno raggiunto, come è stato per lui, la terra della nuova vita.
Uccidere i viaggiatori indesiderati: nessuna umanità riconosciuta in questi esseri notturni che si aggirano affannati sulle pendici dei monti, nelle stalle degli animali domestici, nelle case disabitate.
Che cosa desiderano, perché scappano, perché non restano a casa loro insieme ai propri famigliari come hanno fatto i loro antenati?
Il dolorosissimo diario di viaggio del Nostro ci presenta la risposta in quei passaggi dove l’esistenza non è più la vita ma semplicemente il gesto dell’altro che ha il potere di fare sopravvivere: “(…) Solo le guide conoscono i sentieri per arrivare. Questa montagna può essere attraversata solo in un preciso periodo del mese e dell’anno, non deve esserci la luna perché la sua luce rivela la presenza degli uomini sul confine, rendendoli facile bersaglio per i fucili. Si cammina sempre lontani dalla luna” (pag. 18).
Chi ha sofferto o ha visto scomparire un proprio famigliare a causa delle terribili malattie che questo tempo impone agli esseri umani, può comprendere appieno l’analogia di quel labile confine tra la vita e la morte, la libertà e la sofferenza, la luce solare e il buio dell’oscurità, descritto da Amanullah con l’aiuto del suo educatore Luca Finocchiaro.

mercoledì 8 agosto 2018

Mario Fresa, una potente poesia del décollage

Mario Fresa

Recensione di ENZO REGA



 Ha ragione Eugenio Lucrezi introducendo il libro di Mario Fresa, Svenimenti a distanza (Il Melangolo, Genova, 2018) ad affermare che, nonostante il prosimetro, questa scrittura non può essere ascritta né alla tradizione né alla neoavanguardia, non guarda nostalgicamente indietro e neppure in avanti verso una terra del futuro. Possiamo dire che se ne sta in un felice non-luogo, in una magica sospensione quale è possibile alla poesia, a differenza di tanta narrativa protesa verso fruibilità commerciali. Sospensione possibile quando un autore, come in questo caso, ne è capace. È un libro attraversato dalla malattia e dalla sofferenza, della quale però cogliamo soprattutto i sintomi e gli epifenomeni, come appunto gli svenimenti che, a distanza di pagine, fanno la loro ricomparsa. Si tratta di una storia che appare solo per scorci, o in trasparenza attraverso la lastra di una radiografia…. Oppure, meglio, si potrebbe dire che quella tecnica del decollage, a cui Fresa fa riferimento, sia adoperata per questo stesso libro. Una poesia per decollage e decoupage. Come se il manifesto di una vita, o di più vite, sia stato scollato dal muro dell’esistenza e incollato sul piano delle pagine del libro, per lavorarci ulteriormente, strappi su strappi, facendo emergere strati sottostanti in un gioco di immagini che non si ricompongono più in un discorso logico-sequenziale ma analogico-metamorfico. In questo senso si può parlare di torsione della scrittura, ma non sul piano dei legami sintattico-grammaticali che rimane assolutamente terso, quanto piuttosto delle connessioni semantico-contenutistiche, come se alterata fosse la consecutio dei significanti-significati... 


Continua a leggere la recensione qui

















lunedì 6 agosto 2018

Lungo il Grande Fiume

Fiori rossi di Gabriele Oselini
Prefazione di Alessia Rovina
Fara Editore 2018
Poesia
Pagg. 64
ISBN 978 88 94903 43 0
Prezzo Euro 10,00

Lungo il Grande Fiume

recensione di Renzo Montagnoli
pubblicata su ArteInsieme



Gabriele Oselini è un poeta che non mi è sconosciuto, tanto che l’ho anche intervistato il 12 febbraio 2012 in relazione alla sua silloge Piove da me recensita positivamente. Questo autore, che abita in provincia di Mantova, in un paese rivierasco del Po, come del resto anche il sottoscritto, trova la sua fonte di ispirazione nella natura, in quel paesaggio piatto, i cui unici rilievi sono dati dagli argini, fra i quali scorre il più grande fiume italiano. Qualcuno potrà obiettare che il tema della natura è assai diffuso, quasi inflazionato, ma è altrettanto vero che il particolare rapportarsi di ognuno di noi con la stessa fa sì che venga vista in un modo del tutto autonomo e personale, e questo vale anche per Gabriele Oselini. Se poi c’è chi manifesta il timore di una serie di quadri idilliaci, nella scia di una magica e irripetibile Arcadia dico subito che non è il caso, perché la natura di Osellini è indubbiamente poetica, ma reale, cioè non ha nulla di mitico o comunque conforme a canoni arcaici. Ed è per questo che saper cogliere in un mondo, in cui tutto cambia, lo spirito primigenio è un’occasione per riscoprire, in un’altra luce, se stessi. È talmente importante che il corso naturale non venga sovvertito che l’autore giunge a ipotizzare, in caso contrario, una caduta in un baratro senza fondo come in Abisso (l’usignolo / non canta / sulla magnolia / i balconi / sono spogli / dei gerani in fiore / profondo / abisso / del nostro tempo).
Dato che noi inevitabilmente cambiamo con il trascorrere del tempo l’unica certezza, forse ancora per poco, è che la natura segue sempre il suo corso, così che l’estate, che dopo ferragosto in pratica finisce, è l’occasione per pescare nell’antro della memoria i ricordi da bambino; altre volte invece la natura è evocativa del ciclo della vita che nell’ultimo temporale si chiude per un vecchio porcospino. Non poteva altresì mancare un riferimento al grande fiume, alle sue piene che incuriosiscono, pur incutendo tanto timore (improvvisa corre / in golena / l’acqua gonfia / del fiume in piena / grigia / increspata / affamata di terra /nel tempo negata / e lepri / e corvi / e ramarri impauriti / si confondono / con bici curiose / bimbi / cani felici / e guardiani della notte / sui fratelli argini / custodi delle nostre radici). In queste poesie ci sono il sole estivo che dardeggia e incendia la pianura, l’incedere lento dell’autunno nebbioso che annuncia il gelo e a volte la neve dell’inverno che qui in queste terre pare più riposare che dominare e infine l’annuncio della primavera, il verde nei campi, l’aria nuova che inebria e rivitalizza l’amore con la bella stagione che arriva al galoppo, insomma c’è lo spirito di questa pianura e delle sue genti, tutte raccolte intorno a questo grande e maestoso fiume. Leggere questa silloge sarà un po’ come ripensare al proprio passato e al proprio presente per chi, come me, è di questi luoghi; per gli altri, invece sarà l’occasione per apprezzare posti che occhi disattenti potrebbero definire monotoni e piatti, ma non è così, perché la natura è una continua scoperta, basta saperla osservare, come ha fatto appunto Gabriele Oselini.


Gabriele Oselini (1953) è nato e risiede a Viadana (MN). Ha conosciuto negli anni ’70 Daniele Ponchiroli, caporedattore della casa editrice Einaudi, col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia e dal quale ha ricevuto numerosi stimoli culturali e umani. Ha partecipato a diversi concorsi nazionali di poesia: segnalato alla III edizione del concorso “Pubblica con noi” di Fara Editore, con cui ha pubblicato (2005) una selezione di versi all’interno di Antologia pubblica, e successivamente le sillogi Specchio (2006), Finito(2008), Piove (2011) e La mia casa (2014). Ha collaborato con l’editore Afro Somenzari di Fuoco fuochino. Recentemente è stato premiato (2° classificato) al VII Concorso di poesia Roberto Fertonani di Rivarolo Mantovano (2017).

La distruzione del male: il dubbio di Giobbe nei versi di Gianpaolo Anderlini

Gianpaolo Anderlini, Giobbe, FaraEditore 2018

recensione di 
Vincenzo D’Alessio 



Per molti anni ho servito l’altare come organista. Alla fine della celebrazione eucaristica seguivano le parole: “Oh! se le mie parole venissero scritte, se fossero consegnate in un libro! O impresse con stilo di ferro sul piombo, o incise sul macigno per sempre! Io so che il mio Redentore è vivo ed egli, ultimo, sulla polvere sorgerà; e dopo, nuovamente rivestito della mia pelle, della mia carne vedrò Dio.” (Giobbe 19,23-25).
Il libro compreso nella Sacra Bibbia fu scritto intorno al IV-V secolo avanti Cristo preannunciando ancora una volta la resurrezione dei morti.
A rendere attuale il messaggio, disceso lungo la Storia della cristianità, è stato scritto da Gianpaolo Anderlini il libro Giobbe edito presso l’Editore Fara di Rimini quest’anno.
Un’impresa non facile se rapportata agli eventi disseminati lungo il secolo appena trascorso, quello cosiddetto “breve”, dove guerre e persecuzioni hanno distrutto il senso della Speranza e della Divina Provvidenza.
L’autore ha scelto la poesia per dare leggerezza alla sua ricerca: dodici discorsi, dodici risposte e un explicit (exsulto), realizzati con l’uso dell’endecasillabo.
Con la scelta del numero dodici si rimanda il lettore alle scelte operate nel Vecchio e nel Nuovo Testamento: le tribù d’Israele, gli Apostoli del Messia (Gesù Cristo), la ricomposizione dell’Universo nelle mani del Creatore.
Sapienza che permane nel “verbo” da almeno settemila anni.
Dunque il primo discorso, di questo nuovo contributo a Giobbe, si apre proprio con i versi: “I meccanismi della creazione / trattengono lontano (in alto) i cieli; / parole dette (in basso) nella piatta / luce del giorno, sostengono il giogo / dell’esistenza umana sotto il sole.” (pag. 11).
Nasce da questi versi la ripresa della voce così antica di Giobbe.
La distruzione degli umili da parte degli empi: vedi i campi di sterminio nazifascisti; la morte di migliaia di civili nelle attuali guerre in Siria e nelle altre parti dei continenti; la perdita di vite umane in questa nuova grande emigrazione dall’Africa alla quale stiamo assistendo accomunandoci con la preghiera alla sorte dei fuggitivi.
Il genere umano ha costruito ancora una volta una nuova Torre di Babele, il potere economico che non intende perdere per nessun motivo, continuando a depauperare le nazioni povere delle risorse che il pianeta ha donato loro.
Dio dov’è di fronte al dramma inesauribile che il genere umano affronta dalla nascita all’ultimo giorno di vita nel confronto con i propri simili, alla Natura devastata che si ribella, alle tragedie che promanano dal profondo delle viscere del pianeta “Gaia”?

“(…) Dov’è l’uomo? Nel parto dell’attesa.” (pag. 21).

“Effatà!”: viene pronunciata questa parola al momento del battesimo cristiano nelle orecchie del neonato retto dalle braccia dei genitori. “Riposa in pace” sono le ultime parole recitate accanto al letto del defunto.
Il libro proposto da Anderlini pone ancora una volta in noi, come fu per Giobbe, la ricerca della divinità che avanza nei secoli sorreggendo gli uomini assetati di esistenza: “(…) luce che prorompe / dai volti assorti a contemplare Dio / e la preghiera esplode dal silenzio / dei cuori e riempie il mondo di certezze / nuove, incontrovertibili.” (pag.28).
Solo nella vera fede c’è il superamento della debolezza del corpo, il dolore delle malattie e il sorgere dell’energia che sorregge quanti si affidano a Dio: 
“Solo il dubbio ci rende uomini liberi.” (pag. 29).

Scoperta in Sicilia la Coppa del Re Minosse?

IDENTIFICATO IN SICILIA UN RHYTON CRETESE, DI RARA BELLEZZA, NEI DINTORNI AGRIGENTINI DEL MONTE GUASTANELLA?
FORSE LA COPPA DEL RE MINOSSE?


Rhyton di Siculiana




Rhyton cretese




Il mio amato  Monte Guastanella, verosimile sede, secondo l’ipotesi archeologica da me avanzata, della tomba del re cretese Minosse e della città dedalica di Camico  (Lombardo R.R.,  L’ultima dimora del re. Una millenaria narrazione siciliana “svela” la tomba di Minosse, Fara Editore, Rimini 2013 e Lombardo R.R., Minosse e l’enigma del Monte Guastanella. Con Paolo Orsi a Guastanella, in terra diSicilia, sulle orme dell’ultima dimora del re Minosse: una sorprendenteipotesi archeologica, Arbor Sapientiae Editore, Roma  2017)  e le contrade ad esso limitrofe non cessano mai di riservarmi sbalorditive sorprese e generose conferme della bontà dei miei indefessi studi e caparbie ricerche.


È proprio un maestoso rhyton, di splendore regale, quello in cui mi sono provvidenzialmente imbattuta solo pochi giorni fa, appena approdata in terra di Trinacria  per un ulteriore soggiorno  studio nell’agrigentino, finalizzato a promuovere l’ultima mia pubblicazione con Arbor Sapientiae, che si fregia questa volta dell’autorevole suggello e convalida della mia ipotesi archeologica sul Monte Guastanella, quale sito protostorico ricettacolo delle spoglie del talassocrate cretese, da parte del grande archeologo Paolo Orsi nelle pagine inedite dei suoi taccuini, da me rinvenute, trascritte e pubblicate, nonché a sensibilizzare le Autorità locali preposte sull’attivazione di una seria campagna di scavi in loco, condotta sotto la mia egida, che, alla luce delle più recenti acquisizioni, non da ultimo la presente, si imporrebbe come indifferibile.
Appunto nel corso dei miei sopralluoghi di ricerca ho avuto modo l’altro giorno di scoprire e ammirare un reperto di splendida fattura, negletto e confuso tra una miriade eterogenea di manufatti di epoche diverse (elmi, spade, pistole, armature, vestiti, quadri, scritti, arredi, ecc.), privi e sprovvisti per lo più di qualsivoglia didascalia esplicativa o riferimento di catalogazione e identificazione, ospitati all’interno del Castello Chiaramonte di Siculiana (sec.XIV), bene di interesse storico e monumentale tutelato dalla Regione Sicilia affidato per la sua cura e valorizzazione a dei privati e adibito a una parte museale (pochi ambienti abitativi antichi) e ad una convegnistica e di ricevimenti nuziali (saloni preposti a banchetti e sposalizi).
A un primo esame di lettura, che necessita comunque di successive indagini e approfondimenti per confermare l’identificazione da me  avanzata, riterrei, sulla scorta dell’effettuazione di una personale analisi comparativa del pezzo con similari oggetti della Creta minoica, di aver riconosciuto in esso un rhyton di matrice cretese, ossia un vaso cerimoniale da libagioni, di forma conica a boccale/coppa, diffuso in età minoico-micenea e, nello specifico, una superba versione, realizzata in lamina d’oro sbalzato di raffinata bellezza, del rhyton in steatite nera, il cosiddetto “Vaso dei pugili”, proveniente da Haghia Triada, presso Phaistós, e conservato oggi al Museo Archeologico di Hiraklion di Creta.
Tale vaso, risalente al XVIII-XVI sec. a.C., presenta una decorazione, frammentaria, in bassorilievo disposta su quattro registri e ispirata a ludi ginnici: un fregio rappresenta una scena di  “taurocathapsia” e gli altri tre raffigurano scene di pugilato e di lotta.
In due delle quattro fasce sono rappresentati anche dei pilastri che rimandano a una ambientazione all’interno di edifici di probabile destinazione iniziatico-cultuale.
Le similarità iconografiche ravvisate  fra i due manufatti, quello dell’isola di Creta e quello dell’isola di Sicilia, da me presi in esame, risultano, a dir poco sbalorditive e sensazionali.
Addirittura il rhyton del Castello dei Chiaramonte di Siculiana sembrerebbe costituire l’archetipo e il modello regale di quello dell’isola di Creta e la sua presenza a poca distanza dal monte Guastanella/Camico, reggia-fortezza dedalica del re sicano Kokalos che “vi depositò le sue ricchezze e e le conservò inespugnate grazie all’inventiva dell’architetto” (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 78), feudo che dopo la baronia del luogo esercitata dal 1305, sotto Federico II Aragonese, da Bartolomeo Montaperto, passò a quella dell’illustre famiglia di origine normanna dei Chiaramonte, signori di Siculiana, farebbe supporre che possa trattarsi di un oggetto, da secoli rinvenuto ma mai sinora identificato, facente parte del sontuoso corredo funebre del re Minosse.
Avuto il destro  e  la fortuna di riesumarlo dall’oblio della storia di questi luoghi, lo sottopongo, per un illuminante confronto e dibattito, all’attenzione dei cultori dell’Antico e degli studiosi ed   esperti di settore.