Silvia Rosa, L’ombra dell’infanzia, peQuod 2025
recensione di Flavio Vacchetta
Questo libro di Silvia Rosa, in un certo senso monotematico, è denso di vibratili immagini, irto di accese metafore, saturo di contrasti, forse a secondare l’urgenza espressiva, che colma e deborda la misura dei versi. E la prima grande collisione è quella tra le epoche della vita, perché le poesie non sono semplicemente memoriali, ma c’è un costante dialogo tra la condizione presente e quella passata, in cui le dimensioni sono reciprocamente pervasive. A volte ci sembra di essere solo osservatori di un passato lontano, di un mondo infantile e adolescenziale che contempliamo con malinconia, con affetto, con rimpianto, con vergogna e senso di colpa; per quanto l’infanzia ci formi, oggi siamo altre persone, diverse e intere così ma, a volte, il passato ci inghiotte e ci fa regredire. Così qui si percepiscono due voci, non pienamente concordi, un po’ dissociate, diverse nel tono, nell’immaginazione, nella percezione e nella consapevolezza del mondo. L’una è quella infantile, l’altra è quella adulta, e non c’è un rapporto unidirezionale; è come un travaso, o una trasfusione, di cuori comunicanti.
I traumi dell’infanzia non si cancellano ma si sopportano, non si curano ma si possono esprimere.
L’espressione è un passo importante, che prelude alla ricerca di una comunanza o solidarietà, sebbene piuttosto esclusiva ("Madri matrigne", "adulti", "dio", "aiutanti magici", "altri bambini", "maestra": nessuno sapeva, nessuno era presente, nessuno capiva). È il "decalogo di sopravvivenza per bambine sotto scacco", ed è il "noi" rivolto alle "sorelle" di sventura, segnate da una sorta di "lettera scarlatta". La sentenza appare chiara, e fuor di metafora:
Ma non si può
spiegare, sorelle mie, non possono comprenderci,
e per questo non sanno quel che dicono.
E per questa via si può almeno deporre "il vessillo delle vittime".
La stolidità sembra peraltro un tratto tipico di coloro dai quali pure si spera un aiuto, un conforto, come il prete a cui la bambina chiedeva, invano, una benedizione per Maria, la tartarughina defunta. L’asino Balthazar, nel capolavoro di Robert Bresson, almeno la ottiene, sebbene sia il preludio a una struggente parabola cristologica accompagnata dalla sconfinata malinconia dell’Andantino della Sonata D959 di Schubert. Così Maria finisce in un tombino, nella speranza di un suo ritorno al mare: e in questo ci si vede la pietà, spontanea, di un bambino (che peraltro sa anche essere spietato). Anche l’insistenza con cui la bambina estorce un giuramento di non dimenticarsi di lei a un bambino conosciuto per caso in montagna (e mi sovviene di nuovo il giuramento d’amore di Marie e Jacques all’inizio di Au hasard Balthazar), è un’ennesima richiesta di aiuto, sotto forma di fuga nell’immaginazione di salvezze in futuri alternativi. La realtà è invece amareggiata dallo stillicidio di azioni e parole, di opere e omissioni, con cui gli adulti, con troppa leggerezza e ottusa inconsapevolezza, calpestano i sentimenti della bambina, sia pure nei loro ragionevoli conati di "addomesticazione".
"Ma tu le guardi le nuvole? Non vedi come
cambiano i contorni?" E giù a indovinare
le loro mille forme. Ma io sapevo che quel fare
innocuo era un mimare acerbo il gioco della
morte.
Può darsi che, nella sua acerbità, questo sentimento alberghi in tutta l’infanzia, o forse è una sorta di onere spettante solo a qualcuno, non saprei.
Infine da queste poesie esce un quadro di sostanziale sfiducia nei confronti dell’umanità.
Ognuno può trarne la lezione che vuole, e per me è l’incomprensione che regna sovrana nei confronti dei drammi, o non drammi, dell’infanzia: guardi una tua foto di bambino, e non ricordi, non riconosci. Come speri che possa farlo qualcun altro?

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