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Mario Fresa |
Recensione di ENZO REGA
Ha ragione Eugenio Lucrezi
introducendo il libro di Mario Fresa, Svenimenti a distanza (Il
Melangolo, Genova, 2018) ad affermare che, nonostante il prosimetro, questa
scrittura non può essere ascritta né alla tradizione né alla neoavanguardia,
non guarda nostalgicamente indietro e neppure in avanti verso una terra del
futuro. Possiamo dire che se ne sta in un felice non-luogo, in una magica
sospensione quale è possibile alla poesia, a differenza di tanta narrativa
protesa verso fruibilità commerciali. Sospensione possibile quando un autore,
come in questo caso, ne è capace. È un libro attraversato dalla malattia e
dalla sofferenza, della quale però cogliamo soprattutto i sintomi e gli
epifenomeni, come appunto gli svenimenti che, a distanza di pagine, fanno la
loro ricomparsa. Si tratta di una storia che appare solo per scorci, o in
trasparenza attraverso la lastra di una radiografia…. Oppure, meglio, si
potrebbe dire che quella tecnica del decollage, a cui Fresa fa riferimento, sia
adoperata per questo stesso libro. Una poesia per decollage e decoupage. Come
se il manifesto di una vita, o di più vite, sia stato scollato dal muro
dell’esistenza e incollato sul piano delle pagine del libro, per lavorarci
ulteriormente, strappi su strappi, facendo emergere strati sottostanti in un
gioco di immagini che non si ricompongono più in un discorso logico-sequenziale
ma analogico-metamorfico. In questo senso si può parlare di torsione della
scrittura, ma non sul piano dei legami sintattico-grammaticali che rimane
assolutamente terso, quanto piuttosto delle connessioni semantico-contenutistiche,
come se alterata fosse la consecutio dei
significanti-significati...
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