domenica 25 giugno 2023

“Io non oscillo: sbando. Sono una somma di sguardi irrissolvibili e tesi.”

Emiliano Cribari, Cronache dalle rovine,  peQuod 2023, collana Portosepolto a cura di Luca Pizzolitto 

recensione di AR



Trovo molti punti di contatto fra la poetica di Emiliano e la mia: l’amore per il cammino sui monti, nei boschi che a volte nascondono paesi disabitati dove gli alberi svettano fra le rovine di abitazioni che emanano un fascino archeologico “sono seduto sui gradini di una casa abbandonata” (p. 59); la ricerca di una solitudine necessaria ma sempre aperta all’incontro, curiosa e avventurosa; lo sguardo che spazia su panorami celesti e terrestri che ci scavano le grotte del cuore e lo fanno rimbalzare dall’angoscia alla gioia irrorando il pensiero di domande ed emozionando ogni senso: “a pensare a Dio viene tremendamente da dubitare / aver fede è stare ai bordi crepitare” (p. 60); “m’inerpico grato alla montagna che mi spia / tatto e poesia / rodimento olfatto / (…) / che essere sono io che sono metà / metà viaggio / metà fede / metà coraggio?” (p. 61). 

Il libro si apre con la sezione eponima da cui citiamo a volo d’uccello in ricognizione i seguenti fotogrammi: “le strade spossate” (p. 7); “le poesie non servono se non cadono dai rami” (p. 9); “il sole sbuccia la montagna” (p. 17); “vengo nei boschi per cercare un’impronta / una visione ora che è spento lo sguardo / pregano anche i tafani quando una mano / li allontana” (p. 25). Questa è la sezione più “poetica” ovvero scandita in ondate di versi senza maiuscole e senza punteggiatura (tranne sporadici due punti e un punto interrogativo finale, citato qui sopra), versi a volte brevi altre lunghissimi, come ad esempio nella poesia a p. 51, quasi un haiku espanso, che citiamo integralmente: “l’aria fresca fra i susini del mattino / uno strano malessere / l’ospedale / si muore facendo un microscopico salto temporale”.

Segue la breve sezione “I diari dell’Argentiera” con splendidi inserti narrativi (da p. 66): “La montagna ha le rughe, invita a camminare. Cola rigoli di pietre disegnate dal passaggio di animali. Lungo i fianchi della terra, sembra quasi di essere arrivati. Sale un vento a bruciare i sentieri, a svelare gli umori del mare.”  
Ed ecco alcuni versi: “credo nella roccia, che sopporta / in questa terra assetata / che le basta un goccia di pioggia per partorire” (p. 70); “questa non è una poesia ma un sentiero: / devo farlo anche se piove, di notte, da solo” (p. 71).

L’ultima sezione è costituita da intense lettere, vere prose poetiche, indirizzate a I. (solo nell’ultima sappiamo di chi si tratta): “La fiumara è una ruga che d’estate non sa il pianto. (…) Quando ho perso ogni traccia mi sono fermato e ho chiuso gli occhi, cominciando a girare lentamente su me stesso. Sentendo cosa sente una cosa sola. Un’eco.” (p. 81). Accompagniamo con partecipe vicinanza il cammino di Emiliano che “è un tuffo nella cavità delle parole” (p. 90).

PS Il brano che titola questa recensione tratto dalla sezione “Lettere all’inquietudine”, p. 102. 

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