martedì 29 ottobre 2024

Flavio Vacchetta legge "Errata Complice" di Stefania Giammillaro






















Recensione a Errata Complice di Stefania Giammillaro (Pequod, 2024) prefazione di Franca Alaimo

a cura di Flavio Vacchetta




Errata complice...

uno pensa e si fa delle anticipazioni, dei teoremi persino. Il titolo fa immaginare un'autoanalisi al quadrato, anzi al cubo. Ma imperfetta, impossibile forse. Non so se si usi ancora il termine (lo usai, se posso autocitarmi, per una mia poesia che si intitolava così), ma ci si potrebbe immaginare un colloquio con la propria “coscienza” (o in-coscienza, almeno dai tempi della Coscienza di Zeno). O, forse, l'autoreferenzialità non c'entra nulla, e i motivi dell'errare o dell'erranza (che è anche un vagare) sono prettamente esogeni, così come quelli della complice correttrice o coreggente.

Poi apro, e la poesia in esergo corrobora la prima ipotesi, patentemente, attraverso la figura dello specchio, e il 'tu', che sarà di volta in volta 'montaliano', autocosciente, colloquiale/duale.


Sono componimenti anche di forti contrasti, di polarità apparentemente inconciliabili, un 'odi et amo'.


E anche l'epilogo, volendo, può essere letto come un ritorno a sé stessi, alle proprie radici, che però non può compiersi del tutto:


Figghia sugnu

e matri mi ciamu

senza iabbu né maravigghia pi parenti

senza patiri i dulura

ra nascita

m’arricampu cunzumata

pi chiddi ra morti […]

per voi altri che non credete alla parola data

sorda e malfatta...

 

Nonostante tutto, bisogna ancora credere nella parola, che, nella sua erranza, è essa stessa complice, “ponte”:


La carne è in questo pizzicotto

che giro di traverso per sentirmi

quando non distrae il mare

La parola è ponte che attraversa

la possibilità di perdonarmi

allo specchio dei rimorsi

E se sanguino

sanguinerò per partorirmi.


Ancora lo specchio, l'autogenesi, i rituali di autocoscienza (pizzicarsi per risvegliarsi), il rinvenimento di sé tra passato e presente.


E in questa scomposizione e ricomposizione di un self poliedrico irrompe la molteplicità di relazioni, amorose e famigliari-generazionali (padre-figlio, uomo-bambino) non pacificate, tumultuose.

Si ha l'impressione che una parte cospicua dell'opera si generi dallo “strappo”: si parla di “ferita”, “taglio”, “sangue”... Una lesione apparentemente immedicabile: è “la rabbia del sangue”, una condanna (“condannatemi!”), una “gogna”, che sfocia in dissociazione anche fisica (“non essere come vorresti”).

E lo “strappo” interiore corrisponde, appunto, a quello tra generazioni, e non si ricompone: “ti ho visto piangere, papà”. E riguardo ad altre relazioni: “Saperti proprietario di ciò che non sono / è l’unica vendetta”. Forse a metà tra il montaliano “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e l'orgogliosa affermazione di sé.

Dicotomie come apparenza e essenza, interiorità e esteriorità, attrazione e repulsione, sono evocate anche dalle immagini classiche della maschera e del trucco, fino al simulacro-essenza della stessa pelle; oppure l'immagine della rosa e delle spine, in perigliosa coesistenza.

Ma quello che consente una permeabilità tra interno ed esterno, alla fine, volenti o nolenti (dolenti), è proprio il trauma, la ferita nelle sue varie declinazioni e accezioni: finché essa è aperta e brucia, c'è vita, fra contraddizioni, inganni e autoinganni:


ridi nel fazzoletto piangi a crepapelle

però chiudi le porte del tuo volto

affinché non dicano poi

che quella donna innamorata eri tu.





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