domenica 8 dicembre 2024
Encomio di Merito del Premio Città di Sarzana a Camilla Ugolini Mecca. Complimenti!
martedì 3 dicembre 2024
Una raccolta in stile diaristico, intrisa di “passione per la montagna”
Senza vedere il cielo è una raccolta di poesie di Nicola Scodro, edita da Fara, Rimini 2024, classificata seconda al concorso Narrapoetando 2024. Nicola Scodro, laureato in Global Studies presso la Carleton University (Ottawa), ama scrivere e fotografare, specialmente in montagna. Narrando in poesia l’esperienza canadese, Senza vedere il cielo esplora più a fondo il “precipitoso fiume di sentimenti ed immagini” che caratterizzava già la prima raccolta poetica Naufragi di un’Illusione (2020). La montagna e l’amore diventano così appigli di speranza in un periodo in cui la vita appare come un buio labirinto di roccia strapiombante senza via d’uscita.
Leggiamo tra le motivazioni della giuria: «Una raccolta in stile diaristico in cui i componimenti sono contrassegnati da una data e da un luogo…» (Massimiliano Bardotti).
Scrive Alessandro Ramberti nella prefazione: «La poetica del giovane e cosmopolita vicentino manifesta queste inquietudini con misura e con un dettato sobrio, ma intensissimo: il suo canto ci pervade i polmoni ed accompagna i passi cruciali che prima o poi tutti abbiamo dovuto o dovremo percorrere».
Vediamo qualche verso:
la poesia è sempre stata
segreto intimo tra sogni ed anima
gelosamente custodito
come fuoco sacro
nel tempio del cuore.
La vita è sogno: paradigma caldeggiato da generazione di artisti, intellettuali, scienziati. Schelling ci ricorda: «L’arte costituisce appunto perciò per il filosofo quanto vi è di più elevato, perché essa gli apre quasi il sacrario in cui in eterna ed originaria unione arde, come in una fiamma, ciò che nella natura e nella storia è separato».
Siamo sospesi
come quell’istante
di neve a mezz’aria
tra le foglie…
Si rincorrono tracce di esistenzialismo neo-ermetico di sapore ungarettiano.
m’accogliesti
e fummo soli…
Scritta a Bassano del Grappa nel 2021 ci ricorda i luoghi della grande Guerra, che si perdono negli espressionismi munchiani, quali: “viali d’oppressione”, “deserto sterile / della città”. L’uomo sperimenta maggiormente la solitudine nel naufragio esistenziale, quando crolla, quando ha bisogno, quando veramente si aspetterebbe che tutti accorressero. Eppure siamo tutti naufraghi, leopardiani, nell’infinito. “Naufragium feci. Bene navigavi”. Il naufragio ci aiuta a crescere.
La poesia di Nicola Scodro ci offre degli spunti di riflessone notevole per la vita: scorci e squarci di esistenza che si ricompongono come un puzzle stracciato. Anche le immagini arricchiscono questi drammatici idilli che si dileguano maggiormente sui monti, ove gli orizzonti si allargano infinitamente, si scorgono sinteticamente i mondi dall’alto dei monti, ai confini col cielo, appunto “senza vedere il cielo”. Questo “senza vedere” si riferisce non tanto alla montagna, ove il cielo, il divino è vicino, quanto alla mancanza della persona amata. Gli Dei amano le montagne e di lì si avvicinano all’uomo. Ci basti citare il Sinai biblico o l’Olimpo greco. Ma se non c’è l’amore? “Amore, bello come il cielo!” ci canta Baglioni. Lo Scodro s’agita tra il petrarchesco “tutto l’amore per…”: da un lato il monte, dall’altro il mondo. E in questo drammatico contesto agostinista s’intravede il “Tardi t’amai…”
sabato 30 novembre 2024
Posture di Alberto Mori a Milano 5 dic 2025
giovedì 28 novembre 2024
"Ma ancora dentro di noi, piccola, arde, arde una brace".
Pier Luigi Bacchini, Staminali eterne, Mondadori 2024, a cura di Camillo Bacchini, Introduzione di Alberto Bertoni
recensione di Giancarlo Baroni
Appena ho iniziato a leggere i testi compresi in Staminali eterne di Pier Luigi Bacchini ho avvertito un sentimento di apertura, come se lo spazio mentale si dilatasse e si espandesse, come se il respiro del poeta e del lettore funzionassero all’unisono. Ci troviamo ancora una volta di fronte a versi, adopero le parole del critico Alberto Bertoni nell’Introduzione, di un «altissimo livello qualitativo».
Anche il risvolto di copertina ribadisce il valore dell’opera: «Pier Luigi Bacchini ha proseguito con incessante energia intellettuale la sua ricerca anche negli ultimi anni di vita. Il frutto ce lo rivela oggi l’attenta, puntuale devozione del figlio Camillo, che ha curato Staminali eterne, raccolta quanto mai variegata e ricca».
Si tratta insomma di un libro che si collega e dialoga con quelli stampati in precedenza e che non si propone di concludere un prestigioso percorso poetico ma piuttosto di aggiungere a quel percorso un ulteriore e originale capitolo creativo.
La Natura così esuberante e rigogliosa nei volumi precedenti (da Distanze Fioriture a Canti territoriali) è protagonista anche di Staminali eterne ma in una forma più diluita («Echi dal verde»). Sono presenti alberi da contemplare, pioppi sonori, «pruni odorosi e fioriti», «le querce di Medesano», pini, magnolie, cedri, platani, aceri rossi, olmi, «il tiglio verde dorato», «E quelle foglie tattili, acustiche, a cui l’aria dona movimento». Il mondo animale prevale a tratti su quello vegetale a cominciare dagli amati uccelli con i loro suoni («E motivi e motivetti e melodie. […] / Il repertorio è vasto»): alzavola, rondine, gruccione, cornacchia, gazza, aironi, «il micidiale picchio contro le persiane», civette, gufi, per arrivare agli animali domestici che suscitano affetti speciali ed emozioni: il cane Black («Fu la pietà – degli occhi del cane / che mi chiedeva scusa, se non poteva circondarmi / con le sue feste […]»), i gatti Maua che «mi scruta attraverso i vetri» e Mùstafa «Il mio soriano / candide vibrisse / lucenti […]».
Bacchini invita i lettori a visitare in sua compagnia i luoghi a lui più familiari, a cominciare «dalla casa di campagna La Gatta sulle colline di Medesano, che da dimora di campagna del poeta e della sua famiglia», scrive Bertoni «si è trasformata negli anni in residenza principale e in ambiente dominante». Un immaginifico verso la ritrae in questo modo: «La casa è sulla prua d’un colle».
Assieme a Pier Luigi percorriamo «strade per la campagna / verso il fiume», raggiungiamo acquitrini e torrenti, ci inoltriamo in boschi, ascoltiamo in agosto «la lunga sonorità delle cicale» su calanchi dall’«arsura biancastra», camminiamo lungo viali di «parchi in abbandono» e «lungo la carraia di terriccio rosso».
L’io dell’autore conserva una costante relazione con una realtà esistenziale personale e familiare e insieme con una dimensione universale più ampia e dilatata che conduce lontano nello spazio e nel tempo; microcosmo e macrocosmo si specchiano nei versi di Bacchini generando un’unità dinamica e dialettica e costituiscono le due fasi complementari di un processo simile a quello respiratorio che alterna inspirazione ed espirazione.
Ogni singola persona cerca un piccolo e comodo ambiente che lo accolga ma fa parte contemporaneamente del più vasto contesto naturale che lo attornia; la sua memoria è allo stesso tempo recente e antica, il DNA conserva l’identità individuale insieme a tracce geologiche e cosmologiche di «lontane atmosfere – raggiate / e gas interstellare, / oltre il cosmo, più in là». La vita, afferma con lucidità Bacchini, «discende anche da quegli / spermatozoi glaciali che noi chiamiamo comete».
Siamo alla perenne ricerca di «[…] un angoletto / per parlare fra noi , in quiete, dei giorni, / e della miniatura del bisnonno; / e quali fiori accostare per colori e suoni […]» sapendo tuttavia che «tutto il mondo è in noi»; l’introspezione personale diventa così un’immersione in una ancestrale condizione istintiva: «Ascolto, risalgo a me, / da me, mi cerco / secondo strutture geniche, marine».
Esiste purtroppo parecchia violenza e sofferenza nei rapporti privati, nell’esistenza quotidiana, nella storia degli uomini, nella natura e nell’universo: «guerre pazze», «mille battaglie», elmetti perforati, tonfi, «urli pieni di ferocia», pianti e lacrime «con palpebre sbarrate», «un grido d’uccello / che rammenta la disperazione», «inferriate divelte», un vento che «corrode le rocce».
Di fronte a un «bene che facilmente si appisola», davanti al dolore, si fa fatica sia a rinunciare completamente a Dio, sia ad affidarsi pienamente a Lui: «i pensieri sul male / ci rendono incerti». La sua esistenza è accompagnata dall’avverbio «forse», dal dubbio («Ma forse / c’è Dio / nelle vallate»). Scopriamo e acquisiamo coscienza della sua incredibile fatica soprattutto «[…] dalle fessure, / e dai crolli, e dalle selvagge fiumane». La figura divina, che crocifissa si fa tragicamente fragile e umana, conserva intatta la sua «segreta grandezza», il suo impenetrabile mistero, l’imperscrutabile enigma da cui siamo attratti. Condividiamo con la divinità delle somiglianze e una, afferma Bacchini, «è l’agone del bene e del male / intricati nell’opera. E l’altra / è il suscitare mondi».
Due termini ricorrono frequentemente nella raccolta: “vecchio” e “vecchiaia”. Ecco alcuni esempi: «qui, nella mia vecchiaia, chiuso nella mia campagna agricola», «e io rimango un vecchio / screpolato», «cose vecchie nello specchio», la «sonnolenza della vecchiaia», «e ai vecchi dolgono le ossa», «ho molti anni ormai», «la tua vecchiaia malata?».
Alla vecchiaia si associano inevitabilmente la solitudine, la malattia, e infine l’attesa dell’implacabile morte. «E tutti, come me, tutti / avete visto qualcuno morire, anche alberi, anche fiumi» e ancora: «La morte sta in un angolo della stanza / e senza alcun tatto si specchia / in compagnia della vecchiaia […]». La morte: una presenza che riguarda le cose, gli altri, le persone care, noi stessi. Le staminali possono allungare per un po’ la vita, la poesia invece apre spiragli di lunga durata offrendo creative «[…] parole / di staminale argilla».
Nella prima intensa e potente poesia del libro, intitolata I sepolti, ambientata nel cimitero monumentale di Parma “La Villetta”, Bacchini scrive: «anch’io ho un germe vivo, eppure morirò». Questa assoluta e coraggiosa consapevolezza non comprende sgomento e ansia insostenibili ma piuttosto una «trattenuta, composta disperazione». Perché «terminata la vita ormai, / ma ancora dentro di noi, piccola, arde, / arde / una brace».
sabato 23 novembre 2024
Un ramo fiorito
Accanto a un manto di foglie appassite
Le stagioni si sono mischiate
Le ruote di un carro calpestano le foglie
Rami secchi scricchiolano sotto gli stivali del boscaiolo
E l’autunno ha i suoi colori e i suoi odori
La nebbia avvolge le chiome degli alberi
E il bosco è silenzioso
martedì 19 novembre 2024
La ruvida carezza di una madre: 64 poesie come gli anni dell'autore
Chiedo scusa all’autore della silloge se mi permetto di cominciare questo soliloquio sul suo volume da una sensazione assolutamente personale. Scopo della poesia è proprio il tentativo di entrare nelle pieghe della sensibilità altrui: così è accaduto e così l’ho fatta mia. D’altronde, il titolo della raccolta diventa un richiamo per ricordare la madre di Vincenzo Mastropirro, che mai mi ha conosciuto, ma che invece il sottoscritto è riuscito a gustare, pur se a distanza, grazie alle brevi frasi che il figlio scriveva sul suo profilo Facebook, riportando piccoli aneddoti carichi di saggezza popolare, di lapidarie sentenze tanto colorite d’affetto quanto spietate nel giudizio. Trascrivo dalla postfazione di Angela De Leo che, a differenza di me, conosceva Ninetta, donna «coraggiosa, battagliera e volitiva con cui il figlio era solito battibeccare in duetti dispettosi d’amore, ricamo di note tenerissime.»
Ti confesso, caro Vincenzo, che la lettura fugace di quei duetti dispettosi mi manca molto. I brevi dialoghi, oltre a divertirmi, mi avevano fatto riscoprire l’antichità della terra quando si fonde con la verità del linguaggio, la pervicace onestà delle donne del Sud, come tua madre che non ho mai conosciuto personalmente ma che tu hai reso viva e presente nella mia indole meridionale. Mia madre è nata in città, in una famiglia borghese, ed è naturale che nelle sue parole non abbia mai riscontrato il sapore rustico della terra, né la ruvida carezza di un affetto sempre grezzo e sempre verace, autentico come soltanto il frutto caldo di un terreno fertile e bruciato dal sole, sa essere.
Queste sensazioni di figlio, eterne e primordiali, Mastropirro è riuscito a riscriverle, non più in forma di dialogo sulla pagina di un social, ma in versi, semplici e saporiti, per i tipi di Faraeditore, in ricordo della madre scomparsa. Sessantaquattro poesie (come gli anni dell’autore, quando il volume è stato pubblicato) scritte per lei, per la solitudine che ha lasciato, per il senso del distacco che si patisce e per l’attaccamento agli affetti più cari ed intimi che restano e sui quali ci si concentra per beatitudine ereditata. In Se mi conosci… la mamma di Vincenzo non parla più. Lascia parlare, con le sue parole, il dolore del figlio. «La separazione è il principale atto di dolore della vita», annuncia in esergo l’autore, anticipando un’assenza che ancora non trova requie nel suo animo. Se vorrai posso essere tuo figlio sempre… è il primo verso di un canto di speranza, nel quale si può intuire il cammino di quel bambino, quello che piangeva sulle pagine a quadretti, verso le braccia aperte che lo accolsero sin dalla nascita e che sempre lo accoglieranno; quello stesso bambino che ora, adulto, sta per azzardare il più tenero dei ricatti: stringimi ancora con le forze residue delle tue braccia. / Fallo e ti lascerò andare senza lacrime. Ed ecco che il volume diventa quell’abbraccio reciproco senza lacrime, per tanti figli ma con una sola madre.
mercoledì 13 novembre 2024
LA SOLUZIONE DI VINCENZA SCUDERI
novembre 12, 2024
Una poesia “colta che cerca di fare a meno dell’ornamento”
La soluzione è una raccolta di poesia di Vincenza Scuderi, edita da Fara, Rimini 2024, classificata terza ex aequo al concorso Narrapoetando, ed. 2024. Vincenza Scuderi è nata a Catania nel 1972, germanista presso l’Università della città, saggista, traduttrice, poetessa, autrice di racconti, redattrice della rivista antimafia LeSiciliane-Casablanca. Vive fra la Sicilia e la Repubblica Ceca. Con Accade soprattutto per la strada ha vinto il concorso “Pubblica con noi 2013” di Fara Editore. Tra le sue opere segnaliamo la traduzione delle Lettere del ritorno di Hugo von Hofmannsthal (Villaggio Maori 2015). Come scrive Massimiliano Bardotti nelle “Motivazioni della giuria”: «C’è una fulgente ironia, in questi versi spesso brevi e appuntiti, benché si affacci, sempre senza mai volersi far troppo vedere, una concreta amarezza. Si affronta una malattia in questi versi, eppure ci si ritrova spesso a sorridere…».
Vediamo qualche verso:
Ti aspetto
come si aspetta
la luce
della dea
Riprende il catulliano Carme 51 in conversione: Ille mi par esse deo videtur. Rivisitazione dell’Ode 31 di Saffo (Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν). I versi della Scuderi, concisi, laconici, sono intrisi di tematiche classiciste.
In attesa del corpo glorioso
senza fretta mi godo
l’esistenza di questo.
Anche questo componimento riprende un motivo paolino: «È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria» (1 Cor 15,53-54).
Lo stile della Scuderi si presenta come neo-ermetico, epigrammatico, senza fronzoli, senza ornamenti, come sottolinea Anna Ruotolo, tra le “Motivazioni della giuria”, uno stile essenziale, fatto di pungenti frecciate, come “fescennini versus”. È una poesia rudimentale, che nella sua esposizione, anche ancestrale, si avvicina molto al tipo neo-futuristico della messaggeria contemporanea dei social. L’“Uomo del mio tempo” non ha tempo più per leggere, per meditare, per pensare. Heidegger sottolineava: «L’uomo contemporaneo non pensa più!». È un uomo macchina. E per di più ci avviciniamo all’era delle intelligenze artificiali. La poetica della Nostra ci invita allora ad una riflessone profonda, sulle tematiche essenziali, ridotte all’osso, della vita quotidiana. Proprio per questa ungarettiana simplicitas i suoi versi non ci possono lasciare indifferenti.