lunedì 23 giugno 2025

Complimenti vivissimi a Francesco Randazzo nella terna dei finalisti del Premio Caput Gauri 2025




Spett. Casa Editrice Fara,


comunichiamo ufficialmente che la Giuria Tecnica ha scelto come finaliste della 41-esima edizione del Premio Nazionale di Poesia Caput Gauri le seguenti opere:

DEL TEMPO CHIUSO del poeta Alessandro Riccioni Casa Editrice Book

E fu sera e fu mattina del poeta Francesco Randazzo Fara Editore

LA CITTA’ DEL FERRO del poeta Gordiano Lupi Edizioni Il Foglio

Cogliamo l’occasione per congratularci e inviare i nostri più cordiali saluti.




Roberto Cavalieri
Presidente dell’Associazione Culturale Caput Gauri Aps

domenica 22 giugno 2025

“Con gli occhi pieni di terra e l‘anima piena di cielo”

Daniela Andonovska-Trajovoska, Soul full of sky – Il cielo nell’anima, Poetry – Poesia, Traduzione a cura di Claudia Piccinno, Il cuscino di stelle 2022

recensione di AR



Il dettato poetico di Daniela Andonovska-Trakovska è nitido, perspicuo, “scientifico”; esprime l’umiltà di chi ha una esperienza di vita ricca, ne accoglie i bagliori, ne indaga le oscurità, sa condividere, ascoltare, aprirsi al Mistero. Mi piace iniziare citando integralmente Musica, la poesia che chiude la raccolta a p. 105:

La luce ci vede con i nostri occhi
con il cielo aperto e le mani protese verso Dio
senza chiavi e versi le note cantano in noi
sollevando il diaframma dell’uomo
che esala noi
l’universo crea in noi una musica perfetta
quando sentiamo di non essere soli.

Una poeta, anche quando vive in solitudine o vieni isolato (o perfino esilato) è sempre una voce dialogante, vede la trama della realtà, percepisce l‘insondabile quid dell’esistenza, la fragile e per questo preziosa e sempre interrogante verità della condizione umana: “Con le gocce di pioggia del tempo / e una bustina di camomilla / ho lavato via tutto il dolore / (…) / il mio respiro è rimasto imprigionato / tra le ringhiere di ferro / dei giorni senza nome.” (Respiro imprigionato, p. 101); “La canzone stava risvegliando le corde vocali del cielo, / (…) / Il cielo in estasi non poteva vedere la Terra / e la Terra nel dolore non poteva sentire il cielo / (…) / Con gli occhi pieni di terra e l’anima di cielo / siamo tornati a casa.” (p. 97). Gli accostamenti insoliti, le immagini pulsanti in bilico tra sensualità e astrazione filosofico-geometrica, fra concretezza storica e afflato mistico tendente all’infinito, sono ricorrenti: “Quando ti stai donando a me / con ogni goccia del tuo corpo / il mio viso si trasforma in una luna.” (Marea: 1.618, p. 91); “La parola che mi hai detto ieri / è ancora in cima alla barra delle frazioni / e la follia dell’ipotenusa / sostiene il peso del mio silenzio.” (Seno, p. 87); “Tutta la mia vita / ho costruito angoli retti / con tetti spioventi / sui loro corpi scorre il mio tempo.” (Angolo retto, p. 83); “siamo soli – tra messaggi elettronici automatici” (Desideri elettrificati, p. 75); “– e poi abbiamo tutti gli angoli dalla nostra parte / perché tutti i 360 gradi sono dentro di noi / ma improvvisamente diventiamo depressi in quel preciso momento / in cui a causa della caduta non possiamo vedere il cerchio.” (Gli angoli della nostra vita, p. 73); “a volte è bene / guardare l’orologio / che avvolge i passi già compiuti / e quando tutti gli orologi / mostreranno la stessa ora / tutte le persone ricorderanno / che sono una cosa sola” (La vita e la morte, p. 57); “a volte devi morire / se vuoi vivere.” (Eutanasia, p. 55).
Non sfuggono all’analisi della poetessa macedone le potenzialità, congiunta ai rischi di plagio e omologazione, rapporti flasati/virtualizzati, della modernità: “siamo tutti uguali: identità clonate / tempo della zero uno.” (Democrazia scalfita, p. 53); “la cosa più importante per noi è sapere / con quanti megabit al secondo / passiamo da una parte all’altra della storia” (Vita elettronica, p. 51).
È importante essere accanto, fare comunità, essere granelli di un “deserto” animato, in relazione: “L’aquila in volo / non può vedere il granello di sabbia, / ma il deserto lo vede / con tutti i suoi grani salati e l’oasi. (Deserto dell’anima, p. 15).
Come scrive (pp. 8-9) Mesut Senol nella bella Prefazione a questa intensa antologia del percorso poetico di Daniela Andonovska-Traikovska: “La sua capacità di dare vita a entità inanimate e di coinvolgere attivamente nel mondo degli umani ha creato l’ambiente evocativo in cui la poesia è forgiata attraverso il processo di abbinamento di concetti immateriali con oggetti tangibili.”
I nostri corpi si congiungono al cielo quando le nostre anime si aprono e convibrano, in una parola amano. 

sabato 21 giugno 2025

Quattro inediti di Adele D'Addario




In posa


In posa, come una Monnalisa 

dell’antropocene, incline alla perdizione, 

alla dipendenza, mi consegno

ai vostri sguardi, sorrido nell’enigma,

non avendo nient'altro di meglio da fare,

stornando lo sguardo dal baratro 

sul quale insieme ci affacciamo.


In realtà vorrei gridare,

non vorrei nuovamente sottostare

a queste mie pose da brava bambina

alle quali, per compiacenza,

mi assoggetto 

digrignando.




Hannah Sullivan


Al termine del mattino lei sente 

il torpore della neve distesa 

sulla siepe del giardino, sui rami

protesi sulla strada ammutolita,

sul fiato bianco dei rari passanti.


Lei si domanda come sia la spiaggia 

livellata nel biancore, quel luogo

dove ha vissuto intensamente 

le estati, là dove ha ammirato 

gli intrepidi avventurarsi al largo,


là dove la consapevolezza di esserci

non bada ai giri di parole delle poete mute

né alla dura scorza dei significati 

occultati. Qui dove il conforto di scrivere

qualcosa di appena immaginato

equivale a vivere nella meraviglia 

del momento, quando

tutto appare illuminato alla vista

e all'ascolto e ai sensi scoperti

e alla mia mai sufficiente gratitudine.




Staccarmi da terra


Mi piace chi sa restare sdraiato 

sotto il sole, nel silenzio,

in compagnia dei propri demoni quietati.

Dei miei ormai non ricordo più nulla

non saprei neppure come andarli a incontrare.


Che fino hanno fatto le loro parole

che mi hanno trascinata alla poesia,

a tutto quello che amo e mi spaventa?

Fino a portarmi qui, dove sono ora,

inconsapevole ancora, ancora irrisolta,

con tutta questa vita accatastata,

questa incosciente esperienza 

poggiata sulle spalle nude. 

Ancora incapace davvero a capire

come stanno davvero le cose. 


Potendo vorrei staccarmi da terra,

tingermi i capelli di azzurro

come un palloncino sfuggito di mano,

come una luna attonita,

come una finestra illuminata 

all'ultimo piano 

che ignora serenate improvvisate

e perenni latrati di cani.




Tutto l’ardore che temiamo perduto


Che sia questa l’occasione buona 

per spiegarsi? Per fare scintillare 

tutto l’ardore che temiamo perduto?


Le nostre parole non sono capaci

di sciogliere i dubbi, incrostati 

tra una sillaba e l’altra;

si rifiutano, si contorcono

non sanno dire altro

oltre ai ripensamenti, ai travisamenti.


Rimangono le mani a dire 

e la postura del tuo corpo

e i segni infraintendibili

capaci di convivere con gli enigmi 

che ci compongono

oltre le scontate evidenze,

oltre lo sprofondo occultato

sotto il filo delle pozzanghere,

il fango nell’erba alta

e il bagliore che annuncia l’alba, 

che imperla la rugiada 

sgorgata sonora dalla notte

figlia della nuvola, 

delle nostre anime insonni, 

dei nostri sogni umidi

convertiti in desideri d'acqua.


Adele D’addario nasce a Locarno, in Svizzera, da genitori siciliani. All’età di 10 anni, a seguito della separazione dei genitori, si trasferisce a Messina con la madre. A Messina termina gli studi conseguendo la laurea in Lettere. Attualmente vive in provincia di Monza-Brianza dove insegna, come precaria, nelle classi medie inferiori. Ha pubblicato il libro di poesie “La bambina melodrammatica” (ChiareVoci Edizioni 2024).

martedì 17 giugno 2025

Tre poesie e una postfazione da "La terra silenziosa" di Massimo Botturi





LA SCOMPARSA DELLE API

S’è prosciugato di api il cielo duro
cattura il sonno degli ultimi, e poi plana
sui ferrivecchi chiusi e i mercati del rione.
C’era lavanda nell’aria, qualche foglia
gli ombrelli tondi fatti di sole, e vino nuovo.
I vecchi consumavano gli occhiali sul giornale
io ti cercavo incontrandovi il mio mare
le acciughe come stormi di uccelli;
come il tempo, tenuto nelle mani
un non necessario istante.
S’è cancellato piano dal cielo il volo d’api
sono a cercare l’estate in un altrove.
Io tengo la tua bocca d’inverno
perché è miele, e anche quando grida
è un quaderno elementare
un gesso bianco a orario continuo
scrive: evviva!


PRIMITIVO

Metti sul lago ghiacciato il piede nudo
adesso che la vita è un istante d’ossatura
un cedere costante che allarga;
un vetro piano, dove la terra è sepolta
e dorme fonda. Metti il tuo piede, fratello
e ascolta il taglio, la febbre, l’emozione
l’elettrica frattura. Sii nudo come l’anima
quando non ha più scuse, e vette opalescenti
da aggiungere. Sii nudo, come la guancia
nel giorno di Natale, ai baci colorati
alle pizziche, ai tuoi sogni. Metti il tuo piede
sul ventre di una donna, ascolta gli animali
selvatici, le rose, i torrenti nel disgelo
le Indie zafferane. 
Metti il tuo piede nel mondo, e fallo giusto
come l’incanto del giorno, e della sera
come la Musa notturna e il puro amore.
Come la veglia ad un vecchio, il suo sfiorire
petalo uno sul figlio, e gambo, e stelo.


MILLE MODI DI DIRE ADDIO

All’essere che ero, forma di pesce e squama.
All’alito dell’acqua che predica perenne
alla corrente marittima e al ruscello.
A ciò che bevo e rimane, fango, creta.
Alle mie dita caudali, all’uomo in fasce
all’utero materno di melma e miele insieme.
Alle mie origini sterno e mandibola
alla guancia, la lingua indagatrice animale
alla natura, che liberò dal grezzo la bocca
e la parola. A quell’istinto puro mai morto
di imparare, osservare, e poi di amare.
Al me brutalizzato nei campi, all’uomo mite
coraggio e poi pazienza di frutto.
All’ossatura, venuta un grande albero
di fuoco e di armonia. All’incipit di vita
il suo epilogo; al poema, d’avere traversato
nel tempo caos e luce. A tutto 
quel che dopo verrà, io dico - addio.

Di fronte al titolo di questo libro, il collegamento con La terra desolata di T.S. Eliot (o "devastata", secondo una traduzione più recente) è apparso ai miei occhi immediato e spontaneo.
Non posso negare che questo retropensiero mi abbia accompagnato e condizionato durante la prima lettura del presente testo. 
Il poema eliotiano ruotava e ruota attorno ai temi della spersonalizzazione, della disumanizzazione e dell'incomunicabilità; incarnava e incarna lo spirito del proprio tempo: un'epoca segnata dalla recente fine di una guerra mondiale e presaga di un'altra incombente.
Il testo di Botturi, si parva licet, ha la medesima ambizione: fotografare il proprio Zeitgeist. Annusando lo spirito del tempo contemporaneo Botturi paventa una possibile distruzione della vita umana sulla Terra, causata da un Antropocene mal gestito, e il conseguente silenzio che ne deriverebbe. 

Questo è il tema di fondo, preannunciato anche nelle pagine introduttive. 
Tuttavia, ai miei occhi, poesia dopo poesia, la figura della Terra, con la sua naturale bellezza, il suo destino di deterioramento, la sua potenza e fragilità, si confonde e si trasfigura allegoricamente nella donna amata. Il libro si trasforma così in un canzoniere, in una straziata dichiarazione di fedeltà all’amore e all’accudimento. 

Ci troviamo dunque di fronte a un omaggio, a un canto d’amore indirizzato alla fragilità del mondo e delle persone che lo abitano. 
Un amore che è al contempo sublimato e carnale. 
Un canto che tenta di accordare, di rendere intonato, il grido di dolore che eromperebbe dalla gola, se non albergasse nell’autore una fiducia cieca nella straziante bellezza dell’esistenza. 
Si tratta di un omaggio personale e autobiografico, che, evitando il registro diaristico, si fa voce collettiva, voce di strenua resistenza alla fatica, al dolore, alla transitorietà dell’esistenza. 
La parola poetica che scaturisce da questo atteggiamento è parola limpida che pare trattenere le lacrime sulle bordo delle ciglia.

Botturi è un poeta lirico: non può prescindere dal sé, dalla propria interiorità. 
Anche quando ambisce a cantare il mondo, lo canta dal proprio personale punto d'osservazione: dal tinello di casa, dall'orto sul retro, dagli stenti campi della sua periferia milanese. 
È un canto che nasce da una visione intima e privata, ma che, per la sua generosa intensità, si fa universale.

Chi come me conosce, anche sommariamente, la biografia dell’autore è portato a sovrapporla ai suoi testi, a cercare e a vedere in questi collegamenti le tracce delle sue esperienze personali. 

Rimane da decidere se questa conoscenza rappresenti un arricchimento per il lettore consapevole oppure se sia preferibile che il lettore si confronti soltanto con il testo nudo, libero dalla figura dell’autore. 
A tale domanda non so dare risposta e da tempo ho sospeso agnosticamente ogni giudizio.

Nella scrittura di Botturi leggo quella che mi azzarderei a definire un’ossimorica carnalità delicata. 
Una carnalità che erompe da un linguaggio tellurico e visionario, a tratti sull’orlo del refuso, dell’errore sintattico. 
Ma è proprio da questa tensione, da questo nervosismo sintattico, che la lingua poetica di Botturi trae la propria forza.
La sua narrazione si sviluppa per associazioni e per accostamenti fulminei di immagini, dove talvolta sfugge il senso immediato, ma non l’ambientazione, non il concetto generale, che appare per suggestioni e accostamenti analogici. 
Talvolta, non è chiaro neppure chi sia il "tu" al quale l’io lirico si rivolge. 
Il lettore? La natura? Un'entità suprema che potremmo definire divinità? 
A me piace pensare che Botturi si rivolga sempre alla musa, alla donna amata, la quale, allegoricamente, rappresenta la Terra fertile, la natura allo stato primordiale: generosa di frutti e fragile allo stesso tempo.

È mia convinzione che sia innanzitutto lo sguardo proiettato dal poeta sulle vicende dell’esistenza a creare la poesia. 
Ma è innegabile che ciò che traduce quello sguardo in parole condivise sia la lingua. 
La lingua di Botturi è lingua poetica che, pur attingendo a un vocabolario del quotidiano, stravolge le frasi e gli accostamenti semantici per spiazzare il lettore, per portarci oltre la consueta attesa, come una dissonanza jazzistica che, al termine di una frase disorientante, raggiunge in modo naturale la propria compiutezza armonica.
La lingua poetica del Botturi è una lingua non domata, non addomesticata, che si lascia andare, si abbandona al flusso di un inconscio controllato dall’arte. 
È una lingua magmatica che ribolle, incontrollabile e incontrollata, se non dalle forze della fisica e del mestiere di scrivere.

All’interno di questa mia introduzione ho spesso usato il termine canto, un termine che ci riporta alle radici del fare poetico e all’etimologia della parola lirica, perché la musicalità dei testi di Botturi è evidente alle orecchie di chi ancora non si è assuefatto a certa stilistica monotona e a certa tendenza poetica attuale, elaborata da gente colta ma stonata o priva del minimo orecchio musicale. 
C’è chi dice che, essendo venuto a mancare qualsiasi canone in grado di identificare e definire ciò che è poesia e ciò che non lo è, l’unico metro di misura rimasto sia il ritmo, la cadenza, la musicalità. 
E in questo libro la musica c’è, e canta, innegabilmente.

POSTFAZIONE di Giuseppe Carlo Airaghi


La terra silenziosa di Massimo Botturi  (ChiareVoci Edizioni)

sabato 14 giugno 2025

Una tregua di riflessione

Invito alla lettura di Claudia Piccinno



Ci sono momenti di Alessandro Ramberti
Questa raccolta edita nel 2025 consta di due sezioni, la prima si intitola In cerca, la seconda Pietrisco.
La poesia Meta pagina 10 recita: “C’è un improbabile / di cui si è sempre in cerca / una virtù.”
In questa sezione si parla di utopia, di speranza, di luce che attraversa una chiesa o la quotidianità della nostra vita.
Ci sono pensieri che si fanno sentieri, c’è il viandante e il pellegrino, perché la paura peggiore è quella attesa.
Si parla di passi che calcano sentieri e alla fine il Nostro dirà che resterà solo il sentiero di chi lo ha accompagnato.
La prima sezione dunque è attraversata dal viaggio metafisico alla ricerca della verità, per poi arrivare ad ammettere nella seconda sezione che il nostro sentiero è fatto solo di dubbi, probabilità e ci dice che se non stiamo attenti c’è il pericolo dell’utopia, quasi a volerci riportare alla concretezza del viaggio che è esso stesso ragione e consistenza di vita.
Ci sono affermazioni che sembrano consolidare il pensiero che anche solo tracciare nuovi mondi con la scrittura è una forma valida per seminare resistenza e speranza.
Scrivere è un fatto etico, recita Alessandro, ed è per questo che testimonia la necessità di andare incontro all’altro sia Esso un naufrago o il vicino della porta accanto.
La scoperta fondamentale è proprio il cammino, perché ciascuno di noi va per la propria strada “a mano aperta”, più o meno libero verso la meta ma sempre incontro all’altro ed è in questo incontro, in questo sentiero battuto da piccoli passi che sta la forza del dialogo.
E ancora a pagina 110 nella poesia intitolata Sulle orme si chiede: “È forse eccessiva la bellezza / del cammino?”
Ramberti ci ricorda la lezione della storia quando dice a pagina 119 “La storia che viviamo è nascosta / dalle nostre scarpe”, e lo fa quasi tacciandoci di amnesia così come a pagina 114 scrive: “«Non sai che i solchi antichi non sempre si rivelano alle zolle?»”
Attualissimi i dubbi del poeta e condivisibili più che mai in questo momento storico flagellato da guerra e conflitti in ogni dove.
Ci sono momenti è una raccolta che ci impone una tregua di riflessione e va centellinata, gustando piano ogni ipotesi di pensiero che possa far tesoro degli inciampi e delle fragilità per gettarci nella rete degli abbracci.

giovedì 12 giugno 2025

“Un cuore alla volta.”

Massimiliano Bardotti, A noi basti la gioia di cantare, peQuod 2025

recensione di AR



Lo spirito di Massimiliano è quello di un poeta autentico, sa riempire con umiltà il proprio otre magari in qualche punto crepato e poi cicatrizzato, certamente vissuto, e far uscire dalla canna della zampogna parole di verità, di compassione capaci di comprendere, di farsi accanto, di accogliere. Alla fine (pp. 103-104) di questo libro di versi e confessioni dagli echi agostiniani, Daniele Mencarelli scrive: “… Bardotti indica all’uomo (…) l’unica grande rivoluzione che cambierà la Storia. La rivoluzione dello Spirito. L’uomo ricollocato dentro la sua anima.”

Ho scelto come titolo di questa recensione un passaggio incastonato a p. 99: “Io vi auguro di salvare il mondo. Una vita alla volta. Un cuore alla volta. Cominciando dal vostro.”

Un augurio folgorante, splendidamente impegnativo.

Qualche pagina prima (97) troviamo: “Benedirò le ferite aperte e ogni cicatrice. (…) Siamo una storia intagliata nella carne e nello spirito.”

E a p. 89: “Sono circondato da una bellezza inesorabile. (…) Scopro che la morte è la mia malinconia.”

Ancora prima (p. 82): “Non sappiamo più dare nomi alle cose che ci spaventano e preferiamo non nominarle per paura che ci inghiottano.”

Massimiliano ci ricorda: che la vita è occasione per “pregare incessantemente. Se ogni respiro diventa preghiera si può.” (p. 81) ; che “come l’ape resta fedele alla vocazione del miele, senza perché; così la donna e l’uomo sulla terra, sono chiamati a vivere.” (p. 78); che “il futuro avrà gli occhi delle nostre madri, quando ci tenevano nel grembo” (p. 73); che “Quando nasce una nuova amicizia, il costato del Salvatore, per un breve minuscolo istante, smette di sanguinare.” (p. 64); che la memoria è “antico scrigno delle ore, dove quel che è già avvenuto resiste, ovvero esiste ancora” (p. 53); che “È forse già essere salvi / abitare il cuore degli altri / per accoglienza.” (p. 44); che “canta la pietra, che nel tempo si consuma ma continua a cantare ed è di quel canto che si consuma.” (p. 33); che “ho letto una poesia e ho creduto / per un attimo davvero ho creduto / di essere salvo.” (p. 24).

Il poeta di Castelfiorentino si mette a nudo naufragando nell’amore: “Perdono chiedo al mondo / per ogni volta che ho guardato /senza avere negli occhi la bellezza.” (p. 21).

Il titolo di questa raccolta declina al plurale un auspicio di Turoldo che troviamo in esergo: … a me basti la gioia cantare.

È una scultura spirituale, quest’opera di Massimiliano, un dono prezioso. Condivido le parole che concludono la Prefazione di Guidalberto Bormolini (p. 11): “Bardotti ci mostra, così, come la morte sia inscindibilmente abbracciata con la resurrezione, come possa, per ognuno di noi, diventare qualcosa di meraviglioso: il momento dell’abbraccio con l’Infinito.”