venerdì 26 luglio 2024

«se non scrivo muoio»

Maria Pia Quintavalla, Saudade (2017 – 2022), Prefazione di Giancarlo Sammito, puntoacapo editrice 2024, p. 95

recensione di Giancarlo Baroni



È composto armoniosamente da tre parti il libro di versi e prose di Maria Pia Quintavalla appena pubblicato dall’editore puntoacapo. Le tre sezioni si intitolano Casi del mondo, case dell’amore; Saudade e Le Prose; il titolo del secondo capitolo coincide con quello dell’intero volume il cui sottotitolo specifica il periodo di composizione, cinque anni dal 2017 al 2022. 

Cosa si intenda per saudade lo spiega una delle epigrafi scelte dell’autrice: «dal latino: solitas, solitatis = solitudine, intenso desiderio di qualcosa di ASSENTE in quanto perduto, o non ancora raggiunto». La gamma dei sentimenti oscilla dunque fra nostalgia e struggimento. «Mancanza o assenza. Ma di cosa? Di una trasognata condizione di felicità? Di chi non è più materia, pur essendo ancora con noi?» si chiede lo scrittore Giancarlo Sammito nella sua intensa Prefazione.  

La saudade di cui parla Maria Pia Quintavalla non è sinonimo di isolamento, sconforto e accidia, non coincide con un ripiegamento dell’io su sé stesso. L’autrice è nata negli anni Cinquanta e la sua generazione ha valorizzato la dimensione collettiva del vivere, l’impegno condiviso e comune, lo stare, il fare e il progettare insieme. Il primo verso del libro è in questo senso esplicito: «C’è bisogno degli altri, come di un’illuminazione». L’affievolimento progressivo di questa dimensione  di socialità ha generato inevitabilmente, in chi ci ha creduto anche solo come illusione e sogno, sentimenti di rammarico, rimpianto e nostalgia.

La parola chiave del libro è amore; una parola ricca di benefiche virtù a cui nessuno può rinunciare, pena un inaridimento della coscienza, dell’anima.  

La Nota bio-bibliografica rivela quanto la letteratura e la scrittura siano fondamentali nella vita di Maria Pia: parecchi i volumi pubblicati, numerosi i premi e i riconoscimenti ottenuti; una passione, la sua, che non si attenua e non si esaurisce: «il mio prossimo libro, il prossimo amore», promette con risolutezza un verso. Un brano in prosa, quasi una confessione diaristica, dice: «Se Dio mi ama scrivo e se non scrivo muoio, peggio beccheggio e stono fimo a sera».

Il sentimento amoroso dell’autrice non rimane confinato dentro la pagina letta e scritta ma si estende immediatamente al mondo degli affetti più vicini, alle persone e alle creature più care: «C’è un paese amico che mi segue e chiama, / mi protegge, ha nome: / amicizia affetti figlia, e poi animali». Uno dei libri più intensi di Maria Pia Quintavalla è il romanzo familiare in versi China. Breve storia di Gina, fra città e pianura (Effigie, 2010) di cui è protagonista la madre. A suo padre Piero la poetessa ha dedicato I compianti (Effigie, 2015), sottotitolo Passeggiata con Correggio; nella postfazione intitolata Il nido e la voce della poesia  la scrittrice Bianca Garavelli sottolinea che  «per Maria Pia Quintavalla la famiglia è realtà importante, essenziale, luogo di formazione, crescita, e soprattutto fonte di ispirazione, autentica sfida per la poesia». Nella sua nuova raccolta ci colpiscono i versi ispirati dalla figlia distante; struggenti e appassionati, intinti in una saudade che riguarda sia il passato che il futuro: «ma per colei che vive e che sarà / nata dal riso, / potrei ridarle ancora la mia vita, e poi tacere» e ancora «Essere felice per volere di una / figlia è possibile».

«Nell’eclissi dei sensi e dell’amore», sottolinea l’autrice per metterci in guardia, «anche la ragione si era addormentata, e ritrovata infine in una nicchia inverno, dove sorseggiare ricordi sempre più lontani, o cessava quasi di fantasticare». 

Senza censure né reticenze il libro fa riferimento anche all’aspetto sensuale dell’amore, quello che si esprime appunto attraverso i sensi («dove i sensi sono forme dell’amore pieno») e attraverso un passionale e concreto contatto fisico. Il corpo, i corpi, il loro intrecciarsi, esplorarsi, conoscersi: «Non vedo l’ora di toccarti, / dai genitali agli occhi, tutta la vera superficie / contemplare, mano a pelle, / il viaggio del tuo lungo corpo / che bruciato dal sole e da carezze nuove / attende me».  

L’amore raggiunge forse la sua  pienezza quando si carica di empatia, quando ci spinge a indossare i panni dell’altro e degli altri, a condividere il punto di vista delle persone meno protette e ascoltate, a comprendere e a prendere posizione. L’autrice si mette dalla parte degli umili, degli emarginati, degli «assetati di giustizia», di coloro che soffrono e subiscono, degli afflitti e dei perseguitati, di coloro che cercano disperatamente un destino migliore affrontando rischi indicibili e perfino la morte.

Con versi di straordinario coinvolgimento che possiedono  la forza di un mare in tempesta, Maria Pia Quintavalla ci parla, adoperando un linguaggio intensamente poetico, del naufragio di Augusta, «una delle più grandi tragedie», scrive Sammito nella prefazione, «avvenute nel Mediterraneo, il naufragio del 18 aprile 2015». Dramma, incubo, crudele realtà, «Ora», scrive l’autrice, «questo immenso camposanto è marino, l’assenza di pietà umana ha scelto il colore dell’acqua per manifestarsi».



   

“quadri-sequenza di attimi sospesi nel vuoto della pagina”

di Maria Grazia Martina 

Artista e storica dell’arte 

Alberto Mori, Posture, 2024


La recente raccolta Posture del poeta Aberto Mori si articola in tre direzioni di sguardo: Azione Natura e spazio Set. 

Posture definisce il modo di giustapporre con lo sguardo un dire in cui la parola diviene via via accordo, ambiente, relazione implicita al non dire. 

Il poeta approfondisce, analizza, scruta e trascrive in metamorfica poesia ogni accadimento. Accordo dopo accordo il poeta mappa una narrazione, calibra la scena nel verso, costituito da una a sette parole, in tre o quattro mosse di movimento. 

Blocca le inquadrature in quadri-sequenza di attimi sospesi nel vuoto della pagina permettendo al lettore di formulare l’immagine prodotta attraverso lo scorrere di ogni succedersi. 

La scrittura poetica di Alberto Mori rintraccia l’evocazione registica del fermo immagine nel movimento che la parola mette in atto: spazia dal dato oggettivo al gioco di riflessione e rimando complementare ad essa. 

La complementarità Natura e spazio apre una dialettica sottesa, geometricamente disegnata tra le parole orchestrate in Posture di ritmi, piani, tagli di luce e ombra, che esplicano Tempo: il tempo ampliato dal riverbero verbale: ”Il passato / Un viale rettilineo e vuoto / si allontana tra una fila di alberi” (p. 39). 

Annotazioni, attenzioni si alternano scrupolose nel tracciato poetico, spazio di apparenze e concrete presenze: “la figura si ricompone / nello spazio della folla” (p. 41). 

La stessa parvenza delle cose in preda ad una imminente scomparsa: “Il muro è sgretolato dalla luce” (p. 42). 

Poi, tutto si risolve in atmosfera tra il rumore e il silenzio: “Vibra l’aria ferma” (p. 44). 

Le geometrie delle parole sono Posture di senso. Come la luce trasmettono mutazioni visive trattenute da attimi plastici tempo-reali della percorrenza dello sguardo distolto da immediata Azione combinatoria. 

Set tragitta in habitat, affolta ritmi inattesi tra scorci e aperture: “La porta apre il vuoto” […] “nel deserto dischiuso dalla soglia” (p. 57). 

Ogni scena nello sguardo del poeta, che apre – chiude – attraversa, permette al lettore di cogliere il racconto essenziale eppure grandangolare, cinetico. 

Set annuncia direzioni visivo-percettive dal reale al visionario: l’immaginazione è totale adesione all’impianto stratificato dalla scrittura breve e densa di risonanze che il poeta condensa in studiata armonia compositiva. 

Nella produzione di Alberto Mori Posture sembra slittare verso altri piani più “soliloquiali”, più interni alla ricerca della parola, in grado di ambientare condizioni altrimenti sfuggenti, perdute per sempre. 

Questo, in fondo, fa il poeta: distilla materia prima immutabile da tutto ciò che muta. 

17 luglio 2024

giovedì 25 luglio 2024

La luce “accade” sempre

Tamara Vitan, Accade la luce, Firenze Libri 2022

nota di lettura di Anna Maria Tamburini




Una vitalità poetica che si sostanzia di metafore solo in apparenza semplici, ma che si collocano frequentemente tra parestesie e sinestesie (Ti raccolgo dolce oblio; lacrime di buio, p. 91), esprime la tensione mai allentata del testo a farsi ponte tra visibile e invisibile, in un pieno di concreto e astratto, di percezioni multiple, nelle perdite e assenze che la vita dispensa nel dolore al tempo stesso in cui ci dispone nell’attesa di una luce nuova e restitutiva.

Il testo si fa spesso interrogante, non solo nelle forme interrogative; ma la luce “accade” sempre, dovunque, in ogni caso, in ogni componimento della raccolta, in positivo e in negativo, in presenza e in assenza. Il verbo “accadere” esprime il senso dell’incontro nel “cadere verso…”, di un farsi incontro, magari nel desiderio, come in Vorrei accarezzarti. 

La freschezza delle immagini dissimula, per lo più, il dialogo con gli archetipi, che tuttavia affiorano e sono ricreati: Disegnarti un cuore in alto a sinistra ricorda da molto vicino Emily Dickinson, ma poi il desiderio incalza nel suscitare le dinamiche del sogno desto del cuore: vederlo battere, / vorrei liberarti / per farti incontrare / il tuo riflesso nell’acqua. E ancora la luce nel riflesso sull’acqua che dantescamente ricrea l’ombra dei vivi.

domenica 21 luglio 2024

“Luce e silenzi da ascoltare e tramandare”

Pensieri sparsi (quasi una recensione) tra le righe di 





Quella di Carla De Angelis è una poesia di parole (o meglio: di parola). Di parole cercate. Di parole perse. Di parole ritrovate. Di parole che si rincorrono. Di parole che intessono ghirlande. Di parole che gettano semi. Di parole che dicono pace.

​Di parole piene.
​Di parole vuote.
​Non è la metrica.
​Non è il ritmo.
​Non è la rima.
​Non è l’assonanza.
​Non è l’allitterazione.
​Non è l’andare a capo.
​È la parola che si dà.
​Si svela.
​Si rivela.
​Implode.
​Esplode.
​È la parola in sé. Pura. In-contaminata.
​Nel suo fluire.

Nel suo volo alterno tra le nuvole del pensiero, l’impronta fonica e la sua forma scritta, graffiata (quasi incisa) sulla pagina:

Che avventura entrare in una parola scriverla
per essere compresa
con un pennino d’oro
l’inchiostro azzurro
senza svolazzi
semplice così come verrà letta
pronunciata declamata o recitata
a voce alta sussurrata urlata accarezzata
un tono da regina da re da principe o principessa
bene-detta da un barbone o un carcerato.

(Senza titolo, pag. 28 vv. 1-10)

La parola è dono nel segno della gratuità.​
È seme gettato ma non abbandonato; è il mutuo e reciproco darsi (io/tu/noi).​
Parole. Pensieri. Azioni. Il farsi, cioè, del libero arbitrio della specie umana e della possibilità di essere parola e di tornare sempre parola:

Lungo la strada lascio parole pensieri
azioni che altri possono raccogliere.

Altri lasciano parole pensieri e azioni
che raccolgo come fossero perle.

(Senza titolo, pag. 26)

​È il segno del nostro essere qui ed ora con l’imprinting del nostro pensare il mondo e l’uomo e Dio, che ci accompagna e ci determina anche se non ne siamo coscienti o non lo ammettiamo. Si pensi al Confiteor: “Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”. Lasciamo le omissioni alla morale cattolica (il poeta quando omette lo fa per dare forza altra al suo dire e al suo non dire) e scopriamo che tutto è, nella sequenza indicata da Chiara,“parole pensieri e azioni”.
​Se tutto è parola (e il pensiero è parola interiore e l’azione è il risultato del pensiero) viene da chiedersi se davvero si dia distanza inconciliabile tra la parola dilatata ed esplosa del dire poetico e la parola compressa e implosa del dire del racconto.
​C’è davvero, come qualcuno sostiene, un crinale invalicabile che non consente alla parola della poesia di essere della stessa natura della parola del racconto?
​Carla ci sorprende e sembra rispondere a questa domanda con la chiarezza che è propria di chi sa dire in modo semplice i concetti più complessi e quello che a uno sguardo non attento può apparire nella struttura dell’opera una dicotomia, una frattura insanabile o una contaminazione, in realtà ci mostra che la parola non è poesia o racconto in sé ma si fa poesia e racconto (o poesia nel racconto o racconto nella poesia) nelle mani di chi scrive e negli occhi di chi legge.
​La parola è, insieme, poesia e racconto in un continuum inestricabile quando è la poetessa stessa a farsi voce narrante o parola che si inerpica per altre vie (o forse le stesse della poesia percorse con altre scarpe) lungo i sentieri del pensiero come mostrano i “Racconti flash” che chiudono la raccolta.
​Un esempio.

C’era una volta
​C’era una volta un vuoto, se ci ridevi dentro risuonava. Uno decise che doveva riempirlo con le voci dei bambini, con la marmellata e la ricotta, con i l gelato alla cioccolata.
​Vieni ad aiutarmi e dimmi cosa altro può riempirlo, io ci nascondo i pensieri di oggi per poterli ritrovare, tu metti dentro un suono melodioso, leggi una poesia; io aggiungo un buon pasto di consonanti e vocali, virgole e accenti, qualche punto esclamativo e due o tre interrogazioni. Mi puoi rispondere? Taci: perché taci! Eppure le domande sono semplici…

​Il vuoto è lì che aspetta, che dici?

​Il vuoto è lì che aspetta.
​Esige risposte.
​Cos’è il vuoto?
​È ciò che ancora non siamo e che, invece, dovremmo essere, pronti a non saziarci mai di surrogati della parola; a non cedere al ricatto dell’oblio, a non cancellare le ferite che portiamo.
​Tu che stai dall’altro lato della parola e della pagina sai come si riempie il (tuo) vuoto?
​Se non lo sai, ricorda che non sei solo e abbandonato anche se ti sembra di essere solo e abbandonato.
​Non rispondi perché la tua parola e la tua voce non possono giungere là dove la poesia ti convoca.
​Che cosa riempie (o può riempire) il vuoto?
​Tu non lo sai.
​Io non lo so.
​Forse lo sa il poeta.
​Forse non importa che lo sappia lui, che lo sappia tu, che lo sappia io.
​Intanto ascolta e, forse, tra le domande, tra le righe, tra le parole e tra i silenzi potrai trovare ciò che (in qualche modo) riempie il tuo vuoto, quel vuoto che è tuo e solo in parte mio e di tutti.
​Cosa dice, allora, la poesia?
Nulla.
​Tutto.
​Una parola.
​Un’immagine.
​Un ricordo.
​Un sogno.
​Un urlo.
​Il silenzio.
​Il vero.
​Il falso.
​Tira le parole dove non vogliono andare.
​Naviga nella metafora ed affoga nella metonimia.
​Fa il vuoto nelle parole per riempirle di ciò che mai nessun discorso potrebbe riempire.
È tempo, allora, di ubriacarsi di poesia.

Ho voglia di emozioni forti
bevo un litro di poesia
aggiungo un sorso di luna
ripeto l’antico incantesimo
abracadabra bradacaraba

invito a scrivere un verso per colorare il vino
metto sapienza e amicizia nel pane
una stretta di mano
sorrido alla prima rugiada
che scivola nel giorno.
(Senza titolo, p. 19)

​Come si legge (si interpreta, si vive) la poesia (questa poesia)?
​Il primo approccio, che ci viene sia dalla pratica scolastica sia dal vivere la pagina in sé e per sé, ci porta a una lettura assoluta, cioè sciolta da ogni legame e affidata al fluire delle lettere, delle sillabe, delle parole, dei versi, delle strofe di quella pagina, di quella singola poesia.
​Si naviga, allora, tra le parole.
​Ci si appiglia a una parola, a un suono, a una risacca del pensiero e si naufraga in quel mare che si mostra come un hortus conclusus che tutto vuole contenere e dal quale non sembra possibile uscire o traguardare oltre.
​Ogni poesia è certamente un hortus conclusus, una monade chiusa in sé stessa, ma, se inserita in una raccolta, si anima di altro e vive nuove e infinite vite che attendono di mostrarsi a chi si lascia cullare dalle onde che irrompono vicine o che ci raggiungono da lontano e lontano ci portano.
​C’è allora un’altra lettura della poesia, una lettura che potremmo definire “per contiguità”.
​Anche se il poeta non lo fa coscientemente (ma questo non è il caso di Carla), il disporre le poesie in un certo ordine crea una successione e le singole poesie si intrecciano in rapporti di contiguità.
​Si sorreggono a vicenda.
​Si richiamano.
​Si caricano di significati che la singola poesia non potrebbe avere.
​Provate, allora, a leggere (e a rileggere più volte) le poesie di Carla con la matita in mano.
​Segnate le parole, i pensieri, il detto e il non detto, che si intrecciano tra una poesia e l’altra nel lento fluire delle pagine, e scoprirete (ognuno con il proprio orecchio/occhio e con la propria sensibilità) trame soggiacenti e testi che si intrecciano in un mosaico che muta aspetto a seconda dell’angolo di visuale.
​La poesia senza titolo di pagina 19 si anima e si colora.
​Ci mostra, se letta in successione (anche a ritroso) con la poesia dal titolo “COVID” della pagina precedente, ciò che lo specchio della singola non lascia intravedere.
​Se COVID è il togliere l’abbraccio, la stretta di mano, l’amore; negare lo sguardo, il sorriso, la porta sempre aperta, la carezza; se ci prende e ci toglie la forza di correre e di respirare, il sopravvivere o il vivere ancora (e forse) umani ci è dato da ciò che la natura in sé ha di vivo e di vitale:

Al vento ho rubato il respiro
all’azzurro un raggio di sole
al buio uno spiccio di luna.

(COVID, p. 18 vv. 14-16)

​Ma la poesia non è la natura e facit saltus.
​Spazio bianco (che puoi riempire di silenzi o di pensieri; se vuoi, anche di disegni).

​Altra pagina.

​Altra poesia.

​Altre parole.

​E si spezza il cerchio che sembrava avvolgerci senza speranza: “Ho voglia di emozioni forti / bevo un litro di poesia”, senza dimenticare “un sorso di luna” perché la notte, sospesa tra il buio e il sogno, ci accompagna, e ci dà forza e ci sorregge il viatico della magia della parola (e non solo della parola magica). Ciò che ci sembrava negato è, se riusciamo a colorare il vino con un verso, possibile: “metto sapienza e amicizia nel pane / una stretta di mano”.
​E non è più notte (quella notte da cui sembrava impossibile uscire): “sorrido alla prima rugiada / che scivola nel giorno”.

​Spazio bianco.

​Altra pagina.

​Altra poesia.

​Altre parole.

​Alba e giardino sono il tempo e il luogo che ci invitano a fare ancora un salto: vivere quando non sembra di potere (più) vivere o vivere in forma piena.
​Prova a leggere in successione: pagina 18, pagina 19, pagina 20, (pagina 21), ed ora dimmi se non c’è in quelle pagine un denominatore comune, un tratto che le tiene unite e che le illumina della stessa luce, fioca o intesa che sia.
​C’è, poi, una terza modalità di lettura che potremmo definire “canonica” o “contestuale”.
​C’è, cioè, il rincorrersi nell’intera raccolta di parole chiave, di pensieri, di immagini che non sono solo il portato dell’idioletto del singolo poeta, ma una chiave di lettura che ci dice che una raccolta poetica che sia tale, e non solo una silloge di poesie raccogliticce, è come un tappeto: da un lato ci mostra le figure e di disegni a volte definiti a volte indefiniti, dall’altro l’intreccio della trama e dei nodi.
​Come il tappeto è entrambe le cose, così lo è anche una raccolta poetica.
​Partiamo, allora, dal topos letterario del bere.
​Bere è vivere, assaggiare la vita.
​Con modalità diverse.

(Bere un arancio spremuto non è
come gustare uno spicchio alla volta.)


​La sentenziosità icastica del motto sembra inoppugnabile.
​Chi mai sosterrebbe il contrario?
​La vita, però, non è fatta di sentenze (forse è proprio questo che le parentesi nel testo vogliono insegnarci!), è ciò che accade a determinarci e a farci come siamo, con le nostre fragilità e la nostra finitudine fatte di sorsi, di quei sorsi che ci permettono di non cedere al troppo pieno (un atomo di vuoto è sempre necessario) e di restare aggrappati a tutto ciò che corriamo il rischio di perdere:

Passi il tempo a riempire la vita
quando ti accorgi che sta per traboccare
bevi un sorso perché nulla vada perduto
né un amico, né un nemico
un vecchio mobile, un fiore
un litigio o un abbraccio.

Continui a bere
gli occhi viaggiano
la mano sulla fronte labbra calde come brace
a fare la pace.

(Senza titolo, pag. 40)

​Occorre, però, bere nel modo giusto e senza dare sfogo alla hybris che ci spinge a scalare il cielo perché siamo sempre pronti a cedere all’inganno del Serpente (“Voi sarete come dèi); siamo esposti a questo tutte le volte che cancelliamo (consapevoli o inconsapevoli) il confine tra mortale e immortale, tra divino e di-vino:

Gli dèi non vogliono intrusi
gli angeli incrociano le spade
c’è disarmonia nella ricerca
il sogno si è perso lungo la strada
inverti il percorso
ritrova ciò che è perduto
torna su quei passi che inebriano
come un calice di-vino
sorveglia la vigna.

(Senza titolo, pag. 50)

​Quattro sono le azioni da compiere quando si travalica il confine consentito.

​Invertire il percorso.
​Ritrovare ciò che è perduto.
​Camminare a ritroso.
​Sorvegliare la vigna.

​Ed è nel sorvegliare la vigna, con i suoi richiami biblici, che sta il compito dell’uomo per evitare che la vite produca quel vino che inebria a tal punto da cancellare quell’umano che ci fa e ci rende umani.

​C’è, infine, un altro bere.
​Il bere la parola poetica (figli anche del mito come siamo: il dissetarsi alla Fonte di Ippocrene):

(Bevo un sorso d’acqua per diluire
parole disinvolte e mutarle in un in-canto.)


​Solo la poesia può mutare le parole, quelle parole disinvolteche non sanno di essere parola, in un “in-canto”, cioè in un canto tanto intenso da incantare l’uomo, gli animali, le cose e il mondo(e, per chi crede, Dio).
​E, così, si ritorna alla poesia di parole, anzi di parola.
​È l’urgenza della parola a cui nessun poeta può sottrarsi.
È (forse) il vivere nella propria pelle, nel proprio cuore, nelle proprie labbra quell’eroico furore che non permette al poeta di zittire la parola.
​Nulla dies sine verbo.
​Il poeta è la parola e la parola è il poeta.
​È quella parola (e non un’altra).
​E quella parola (e non un’altra) è un dono che fino al momento della sua rivelazione non sapevamo di possedere già.
​Quante volte camminiamo assieme a parole non comprese e all’improvviso quel mattino…:

Certe mattine nascondono regali
che a cercarli in casa non li trovi
nemmeno sulle scale o nel giardino
nella cuccia del cane tra i suoi peli.

Mi siedo sulla panchina
come un rituale antico creo doni dal nulla
trovo parole non comprese
avevano bisogno di più cura
mi accorgo di averle calpestate
mi accorgo di averle dimenticate.

(Senza titolo, pag. 25)

​Chissà perché le parole si svelano il mattino?
​Forse perché sono figlie del sogno e come gocce scavano la pietra del tempo, là nel profondo del cuore o dell’anima, fino a che, perse le scorze della banalità, lasciano risplendere le scintille che portano dentro e dicono ciò che altrimenti mai potrebbero dire.

​Prendersi cura delle parole.

​Non calpestarle.

​Non dimenticarle.

​Questa è la missione (estenuante ed esaltante) del poeta.
​Questa è la tempesta che agita l’alba di ogni mattino.
​Questa è la fatica (o, se si vuole, la fàtica) a cui non vuole sottrarsi e di cui non sente il peso.

Ci sono parole che non dico
le custodisco come pensieri sacri
ma il verbo non detto si stanca
va in cerca di altri cuori che sanno
dire, sanno camminare senza calpestare
i sentimenti viaggiano
senza timore di essere svelati.

(Senza titolo, pag. 62)

​Non temere la parola.
​Fatti parola.
​Dilla.
​Cantala.
​Urlala.
​Danzala.
​Scrivila.
​Disegnala.
​E, se la nascondi o la zittisci, troverà un altro cuore, un’altra bocca, un’altra mano, un altro foglio per dire ancora ciò che deve dire.
​Per dire ciò che non si può tacere.
​Per seminare ciò che sa come e dove germogliare.
​Per costruire e mai per distruggere.
​Per la pace e mai per la guerra.

Non so costruire case ma
faccio ponti con i fiori di campo
per attraversare albe e tramonti
mi accorgo che quello che so fare.

Non serve a niente
se non so provare fame, dolore
e fermare tutte le guerre.

(So seminare, pag. 41, vv. 7-13)

​Questo è la poesia.
​Chi dice altro, erra.
​Buona lettura!

 

giovedì 18 luglio 2024

“Si fa di vetro il nostro stare insieme”

recensione di Giuseppe Moscati pubblicata su Amicando, n. 65, Nuova serie, Giugno 2024




Ogni tanto mi viene da pensare alla questione di come cambia il mondo, la realtà, ciò che siamo in grado di osservare – la corolla di un fiore come una costellazione – in virtù della luce. O meglio in base alla sua presenza, alla sua assenza o penuria, alla sua intensità, ai suoi possibili e spesso imprevedibili giochi di intermittenza.
A incoraggiarmi a riflettere su questo tema, che è trasversale e ricco di addentellati con svariati contesti semantici, c’è stata di recente la lettura di un agile libro di Marco Mastromauro, una silloge poetica intitolata Separati da raggi dispersi (FaraEditore), ma confesso che in questo “percorso” il titolo è stato solo un pressoché impercettibile complice.
Curiosando tra i versi di quest’opera, che ha avuto il merito di risultare prima classificata all’edizione dello scorso anno del “verace” concorso letterario Faraexcelsior e che tra i suoi esplicitati mentori ha Thomas Bernhard, Etty Hillesum, Pierluigi Cappello e Paul Celan, ci si imbatte sin da subito in alcuni elementi interessanti.
I quali fanno di questo volumetto un libro pieno di luci, appunto, ma con la partecipazione attiva anche di qualche ombra, che non guasta mai quando si è alla ricerca dell’essenza delle cose e si desidera sbirciare al di là della mera apparenza.
Intanto apprezziamo le “sfumature di un inquieto narrare” (l’inquietudine è promossa dall’incompiutezza di alcune parole), mentre i “ricordi in cerca di pace” si confondono con le ombre che vanno occupando la piazza; poi ci accorgiamo che certi volti si accendono grazie a sorrisi che tengono insieme soavità e allucinazione; poi ancora incontriamo proprio quelle intermittenze di luce e buio dalle quali siamo partiti e subito dopo siamo proiettati, come lettori un po’ incantati, oltre il giardino dove “si rischiarano i prati fino a fondovalle”.
Manco il tempo di riprendersi dalla meraviglia che i raggi luminosi, lesti prima di rintanarsi sotto i porticati cittadini, giungono tra pietre e rovi con una loro precisa missione: abbagliarci. E se sciami di api scintillano leggeri, è all’imbrunire che avviene forse la miglior magia: “Si fa di vetro il nostro stare insieme” nel cuore di uno spettro di luci venute da chissà dove.
Non mancano neanche i transiti da oscure dimore, né le malvagità di Acab e Gezabele, in buona parte celate nell’ombra (Narrare); né tantomeno mancano i giorni assolati, durante i quali la più accecante delle luci finisce per sommergere pure le macchie dei lecceti che, prima o poi, vivranno un loro ruolo da protagoniste nelle pagine di un diario. Altrove invece le gramigne sono sospese tra il non detto e il sole che si diverte a far capolino (Meduse).
C’è luce, naturaliter, pure nelle “pozzanghere d’arsura” e gli spiragli di luce sembrano fare appena il solletico al mistero che talvolta ci sovrasta.
E che belle le lanterne che si accendono mentre, disposti nei viali, cerchiamo di farci trovare pronti a un sempre nuovo fuoco!
Il titolo della silloge è donato dall’incipit di Separati: “Separati da raggi dispersi / che attraversano la solitudine del bosco, / i rami, le foglie minuscole, / lontani dai giardini, dai giochi estenuati / dalla febbre del risveglio”. Ma indirettamente quel titolo è dato anche da quanto segue: delle panchine al sole e il buio della galleria; la primavera che s’affaccia e un lampadario sbeccato; la città innaffiata dallo splendore e il mare che “vediamo” solo attraverso acquemarine, gusci e luminosi mondi balneari; degli spegnimenti notturni e dei sentieri in penombra; ancora un volto, ma stavolta fatto di un antico pallore, vicino a un monolite intriso di una sapienza che è invece priva di luce; un atrio buio e riverberi diffusi che, piano piano, ci guidano verso un campanile illuminato. Il posto migliore dove concederci una breve sosta.

"Corri", una poesia di Andrea Corsi



corri lontano, ama il cielo — vestito 
di Dio 
quel che volevamo   
era Cristo nella politica, 
un certo qualché di amaro, 
di rigido e selvaggio 
nel tuo parlarmi — 
vivi l’incredibile 
gli occhi alza — 
io voglio essere rapito 
nel buio della notte 
e non esser mai più visto   
— rinuncia all'intelligenza 
l'uomo dunque si attacca alla vita   
e ne fa un'orto 
— ognuno è una stella. 
Con questo passo lento 
quanta disperazione hai bevuto 
è parte ormai della vita, corri 
per ora una rete ci ammanta come   
un limite sul lastrico   
della libertà — da raccontare 
e tra i palazzi della Malesia...






A. C., 18.07.'24