LA SCOMPARSA DELLE API
S’è prosciugato di api il cielo duro
cattura il sonno degli ultimi, e poi plana
sui ferrivecchi chiusi e i mercati del rione.
C’era lavanda nell’aria, qualche foglia
gli ombrelli tondi fatti di sole, e vino nuovo.
I vecchi consumavano gli occhiali sul giornale
io ti cercavo incontrandovi il mio mare
le acciughe come stormi di uccelli;
come il tempo, tenuto nelle mani
un non necessario istante.
S’è cancellato piano dal cielo il volo d’api
sono a cercare l’estate in un altrove.
Io tengo la tua bocca d’inverno
perché è miele, e anche quando grida
è un quaderno elementare
un gesso bianco a orario continuo
scrive: evviva!
PRIMITIVO
Metti sul lago ghiacciato il piede nudo
adesso che la vita è un istante d’ossatura
un cedere costante che allarga;
un vetro piano, dove la terra è sepolta
e dorme fonda. Metti il tuo piede, fratello
e ascolta il taglio, la febbre, l’emozione
l’elettrica frattura. Sii nudo come l’anima
quando non ha più scuse, e vette opalescenti
da aggiungere. Sii nudo, come la guancia
nel giorno di Natale, ai baci colorati
alle pizziche, ai tuoi sogni. Metti il tuo piede
sul ventre di una donna, ascolta gli animali
selvatici, le rose, i torrenti nel disgelo
le Indie zafferane.
Metti il tuo piede nel mondo, e fallo giusto
come l’incanto del giorno, e della sera
come la Musa notturna e il puro amore.
Come la veglia ad un vecchio, il suo sfiorire
petalo uno sul figlio, e gambo, e stelo.
MILLE MODI DI DIRE ADDIO
All’essere che ero, forma di pesce e squama.
All’alito dell’acqua che predica perenne
alla corrente marittima e al ruscello.
A ciò che bevo e rimane, fango, creta.
Alle mie dita caudali, all’uomo in fasce
all’utero materno di melma e miele insieme.
Alle mie origini sterno e mandibola
alla guancia, la lingua indagatrice animale
alla natura, che liberò dal grezzo la bocca
e la parola. A quell’istinto puro mai morto
di imparare, osservare, e poi di amare.
Al me brutalizzato nei campi, all’uomo mite
coraggio e poi pazienza di frutto.
All’ossatura, venuta un grande albero
di fuoco e di armonia. All’incipit di vita
il suo epilogo; al poema, d’avere traversato
nel tempo caos e luce. A tutto
quel che dopo verrà, io dico - addio.
Di fronte al titolo di questo libro, il collegamento con La terra desolata di T.S. Eliot (o "devastata", secondo una traduzione più recente) è apparso ai miei occhi immediato e spontaneo.
Non posso negare che questo retropensiero mi abbia accompagnato e condizionato durante la prima lettura del presente testo.
Il poema eliotiano ruotava e ruota attorno ai temi della spersonalizzazione, della disumanizzazione e dell'incomunicabilità; incarnava e incarna lo spirito del proprio tempo: un'epoca segnata dalla recente fine di una guerra mondiale e presaga di un'altra incombente.
Il testo di Botturi, si parva licet, ha la medesima ambizione: fotografare il proprio Zeitgeist. Annusando lo spirito del tempo contemporaneo Botturi paventa una possibile distruzione della vita umana sulla Terra, causata da un Antropocene mal gestito, e il conseguente silenzio che ne deriverebbe.
Questo è il tema di fondo, preannunciato anche nelle pagine introduttive.
Tuttavia, ai miei occhi, poesia dopo poesia, la figura della Terra, con la sua naturale bellezza, il suo destino di deterioramento, la sua potenza e fragilità, si confonde e si trasfigura allegoricamente nella donna amata. Il libro si trasforma così in un canzoniere, in una straziata dichiarazione di fedeltà all’amore e all’accudimento.
Ci troviamo dunque di fronte a un omaggio, a un canto d’amore indirizzato alla fragilità del mondo e delle persone che lo abitano.
Un amore che è al contempo sublimato e carnale.
Un canto che tenta di accordare, di rendere intonato, il grido di dolore che eromperebbe dalla gola, se non albergasse nell’autore una fiducia cieca nella straziante bellezza dell’esistenza.
Si tratta di un omaggio personale e autobiografico, che, evitando il registro diaristico, si fa voce collettiva, voce di strenua resistenza alla fatica, al dolore, alla transitorietà dell’esistenza.
La parola poetica che scaturisce da questo atteggiamento è parola limpida che pare trattenere le lacrime sulle bordo delle ciglia.
Botturi è un poeta lirico: non può prescindere dal sé, dalla propria interiorità.
Anche quando ambisce a cantare il mondo, lo canta dal proprio personale punto d'osservazione: dal tinello di casa, dall'orto sul retro, dagli stenti campi della sua periferia milanese.
È un canto che nasce da una visione intima e privata, ma che, per la sua generosa intensità, si fa universale.
Chi come me conosce, anche sommariamente, la biografia dell’autore è portato a sovrapporla ai suoi testi, a cercare e a vedere in questi collegamenti le tracce delle sue esperienze personali.
Rimane da decidere se questa conoscenza rappresenti un arricchimento per il lettore consapevole oppure se sia preferibile che il lettore si confronti soltanto con il testo nudo, libero dalla figura dell’autore.
A tale domanda non so dare risposta e da tempo ho sospeso agnosticamente ogni giudizio.
Nella scrittura di Botturi leggo quella che mi azzarderei a definire un’ossimorica carnalità delicata.
Una carnalità che erompe da un linguaggio tellurico e visionario, a tratti sull’orlo del refuso, dell’errore sintattico.
Ma è proprio da questa tensione, da questo nervosismo sintattico, che la lingua poetica di Botturi trae la propria forza.
La sua narrazione si sviluppa per associazioni e per accostamenti fulminei di immagini, dove talvolta sfugge il senso immediato, ma non l’ambientazione, non il concetto generale, che appare per suggestioni e accostamenti analogici.
Talvolta, non è chiaro neppure chi sia il "tu" al quale l’io lirico si rivolge.
Il lettore? La natura? Un'entità suprema che potremmo definire divinità?
A me piace pensare che Botturi si rivolga sempre alla musa, alla donna amata, la quale, allegoricamente, rappresenta la Terra fertile, la natura allo stato primordiale: generosa di frutti e fragile allo stesso tempo.
È mia convinzione che sia innanzitutto lo sguardo proiettato dal poeta sulle vicende dell’esistenza a creare la poesia.
Ma è innegabile che ciò che traduce quello sguardo in parole condivise sia la lingua.
La lingua di Botturi è lingua poetica che, pur attingendo a un vocabolario del quotidiano, stravolge le frasi e gli accostamenti semantici per spiazzare il lettore, per portarci oltre la consueta attesa, come una dissonanza jazzistica che, al termine di una frase disorientante, raggiunge in modo naturale la propria compiutezza armonica.
La lingua poetica del Botturi è una lingua non domata, non addomesticata, che si lascia andare, si abbandona al flusso di un inconscio controllato dall’arte.
È una lingua magmatica che ribolle, incontrollabile e incontrollata, se non dalle forze della fisica e del mestiere di scrivere.
All’interno di questa mia introduzione ho spesso usato il termine canto, un termine che ci riporta alle radici del fare poetico e all’etimologia della parola lirica, perché la musicalità dei testi di Botturi è evidente alle orecchie di chi ancora non si è assuefatto a certa stilistica monotona e a certa tendenza poetica attuale, elaborata da gente colta ma stonata o priva del minimo orecchio musicale.
C’è chi dice che, essendo venuto a mancare qualsiasi canone in grado di identificare e definire ciò che è poesia e ciò che non lo è, l’unico metro di misura rimasto sia il ritmo, la cadenza, la musicalità.
E in questo libro la musica c’è, e canta, innegabilmente.
POSTFAZIONE di Giuseppe Carlo Airaghi
La terra silenziosa di Massimo Botturi (ChiareVoci Edizioni)