Recensione a Incerto confine di Stefano Vitale & Albertina Bollati.
“La chiave è nella Parola / suono
che resta accanto / colore della pazienza / distesa sul paesaggio delle ore /
passione e destino senza nome”. Quasi come una nuvola, o come uno stormo di
uccelli, questi versi di Stefano Vitale si stagliano nel verde del cielo disegnato
da Albertina Bollati nell’ultima delle “poesie illustrate” o “illustrazioni
poetate” della raccolta Incerto confine (disegnodiverso, 2019).
In un lavoro che fa dell’attraversamento la sua ragion d’essere e, al fondo del
libro, presenta la completa fusione fra “arti sorelle” (le parole della poesia
che si disegnano, il “colore della pazienza” che è il verde performato dal
disegno in cui il verso viene a rendersi visibile) il termine confine
assurge a tema dominante, e al contempo variamente declinabile.
Il primo confine – già accennato – che il lettore del libretto percepisce è
quello dell’espressione artistica: ai versi di Vitale fanno da controcanto le
illustrazioni della Bollati, che nascono quasi come paradossali “ecfrasi” delle
poesie o come rinascimentali imprese (testi-immagini formati da
un’immagine accompagnata da un breve motto ricavato da una poesia). Mano a mano
che si procede la lettura – e dopo che si affianca, in questa danza, anche la
musica, presente nei testi delle poesie di Vitale, fine conoscitore del
repertorio classico (i nomi di Bach e Šostakovič su tutti) – il confine si fa
sempre più incerto, fino a presentare una sovrapposizione completa delle due
arti.
A livello tematico il confine è invece quello della relazione fra uomo e uomo,
fra alterità non “solamente” psicologiche o culturali, quanto marcatamente politiche. Il confine è quello – murato, coperto da filo spinato o dal blocco
dei porti, dello Stato (occidentale, mediterraneo, europeo) – dello Stato:
“Chiudere i porti e lasciar riposare / le nere coscienze marce di rabbia /
merce di scambio di triste rancore / mentre grasse risate dilagano / nelle
sudicie piazze deragliate ragioni”; “Il confine del corpo / è il filo spinato
della paura”; “Tra le nuvole nere / e la linea di fuoco / la vita alla cieca /
non chiede perdono / prima di sprofondare / nello specchio rotto / che abbiamo
dentro / noi che restiamo / e domandiamo / dov’è l’errore, / dov’è la
distrazione?”.
I versi di Vitale, privi di qualsiasi forma di intellettualismo o di
compiacimento formale, sono diretti e al limite del luogo comune, ricchi di
rime e assonanze (quasi carducciane, ed è questo forse il più grosso dilemma
del libro; possono forme “tradizionali” essere al passo della speranza in tempi
così mutati?), oscillando tra un ritmo endecasillabico (a minore, per lo
più) e alcune forme più brevi di litania-preghiera. E proprio questo aspetto,
quello della preghiera, è il segreto portato dei versi, la volontà di abbattere
il confine fra il sé e la propria coscienza (“un brivido lungo la schiena / e
un sorriso stupito spunta sul viso / perché tu ti sei visto e sentito / a te
stesso sorpreso / nell’istante presente ora svanito”) e fra la propria patria e
l’altro che viene in cerca di aiuto (“il disordine del mondo / negli scorci di
luce sfasciata / si perde il ricordo di noi / senza padroni e senza gloria /
vanno e vengono senza posa / le anonime stagioni dell’esistere / senza peso non
c’è rimorso / nell’incerto sfumare / restiamo affacciati / su strade di vetro,
sabbia e lamiere / che oltrepassano il confine / senza passaporto, senza
controlli alla dogana”). La scomparsa o quasi della punteggiatura, il ritmo
incalzante, le immagini che si incardinano l’una sull’altra e si sovrappongono,
susseguendosi senza sosta, abbattono ogni tipo di reticenza e di falso pudore,
approssimando uno sguardo fanciullesco, e quindi puro, incapace di distinguere
i confini fra persone ma perfettamente in grado di riconoscere la presenza
dell’altro, la sua dignità: “Fili d’erba nuova / al vento incerto della
primavera / aspettano i bambini / che la pioggia sia cosa buona / che la luce
non confonda / l’odore del dolore / con la voglia di fuggire / oltre il rischio
della resa / senza più temere / la paura della gioia”.
Michele Bordoni
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