Francesco Filia, La zona rossa, Il
Laboratorio Edizioni 2015
recensione di Vincenzo D'Alessio
Il filosofo e poeta
Francesco Filia ha messo al mondo un altro poema civile che ci giunge con il
titolo di: La zona rossa.
Non è il libretto rosso della
rivoluzione cinese ma ha tutte le caratteristiche per esercitare sul lettore la
sensazione di toccare con mano le stille di sangue versate sulle lastre
vulcaniche delle ampie strade della più bella città d’Italia, Napoli.
Eppure l’inganno filosofico teso al
lettore, dettato all’autore dall’esercizio continuo delle lezioni, emerge
quando nei versi non è più riconoscibile la città partenopea bensì tutte le
città del mondo degli uomini dove si esercita il diritto civile alla Libertà
personale nell’interesse presente e futuro dei figli.
Nelle piazze c’è l’abbraccio di ogni singolo
che diviene comunità nello sforzo energetico di raggiungere “(…) il filo di
luce / amore bellezza furore / (…) che ci ha legati / l’uno negli occhi degli
altri per un attimo, / per quella
gioia mozzafiato” (pag. 64). L’agorà ha ancora le caratteristiche delle poleis
greche nonostante l’oblio del Tempo e il Nostro le coglie sistematicamente: “(…) C’è una macina che trita i suoi grani / secondo dopo secondo, eone dopo
eone / e noi torniamo sempre di nuovo / su quest’identici passi a correre / a
urlare a cercare di aprire / il
cerchio imperfetto di queste vite” (pag. 37).
Come tutti i poemi, destinati a seminare
nel cuore dei lettori l’amore per l’epistemologia dell’Essere, i versi di
Filia raggiungono gli occhi di chi legge attraverso le figure umane, nomi e
date di nascita, attori in un corpo avvinti alla gneosologica degli avvenimenti che sistematicamente
ritornano sul palcoscenico dell’umano vivere: “(…) Memorie / di una nazione
morta / diciamo tra noi ridendo / giocando un gioco di ruoli: l’artista, / il nichilista, l’impegnato, la
giornalista / ma ognuno è di meno di più di una / forma rinsecchita. È la
gloria di una resa” (pag. 36).
La lezione è tratta dalla Scienza
Nuova di G. VICO e il filosofo
irpino Aldo MASULLO nell’introduzione a questo poema la sottolinea: “(…)
Comprendere tutto ciò, avere imparato che l’ideale in quanto necessario, va
comunque assunto come guida, indipendentemente dall’impossibilità del suo
realizzarsi pieno, è avere maturato nell’umiliazione della sconfitta la propria
umanità ben più di quanto si possa nell’esaltazione di una relativa vittoria”
(pag. 8).
Il poeta ha scelto la forma
dell’enjambement per rendere fluida e fruibile una materia grondante veramente
quel lievito umano che ha bagnato le bandiere di tutti i movimenti popolari:
cito per quanto mi è consentito di storicità l’episodio della “Lega
Pellettieri di Solofra”, vermiglia di sangue operaio e di uomini unici come
Ferdinando CIANCIULLI, Vincenzo NAPOLI ed Emanuele PAPA, oggi rinchiusa in una
bacheca di plexiglass come trofeo asettico in un salone solitario.
Le grida di quegli operai pellettieri di
fine Ottocento, colpiti dai fucili delle guardie del Re inviate dal Prefetto,
si sono spente come si sono spente le grida del poema de La zona rossa: “(…) Sgominati chi cade dispersi arresi le mani / alzate e i pugni in faccia,
chi è catturato / e annega nel sangue del proprio viso” (pag. 45).
Quanti giovani saranno chiamati ai “fuochi di questo rito sacrificale” (pag. 45) di fronte al “Celerino assassino”
chiamato a compiere il dovere di fermare la marea che vuole superare
quell’immaginario filo rosso che divide il Potere Politico Pubblico dei grandi
del Pianeta dai poveri senza nome:
“(…) fratelli a guardia di un ordine, / che voi intravedete dietro le mie
spalle, / di cui non so nulla. Io eseguo, a volte / mi piace a volte no”
(pag. 47).
Ritornano alla mente i versi civili del grande poeta italiano
Pier Paolo PASOLINI, dopo gli scontri violenti tra studenti e polizia avvenuti
a Valle Giulia il 16 giugno del 1968: “(…) Quando ieri a Valle Giulia avete
fatto a botte / coi poliziotti, /
io simpatizzavo coi poliziotti! / Perché i poliziotti sono figli di
poveri. / Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.”
Gli eventi del 17 marzo 2001 che Francesco Filia ha vissuto di persona
nella sua città non sono lontani da quelli vissuti dal poeta Pasolini.
Corsi di una Storia che,
volutamente dimenticata, si tiene
lontana dai libri di scuola, dalle aule delle Università, dalla memoria
collettiva, poiché conoscere è pericoloso in un Paese (così viene definito oggi
quello che una volta si definiva Stato) dove: “Emerge, quindi, chiaro fin da
questo momento che ad aggravare gli originari fenomeni di inferiorità economica
e di patologia demografica che caratterizzano la costituzione sociale del
Mezzogiorno, molto ha contribuito e contribuisce tuttora lo Stato, che, da
organo supremo del diritto, da fonte precipua ed unica di eticità, si trasforma
in Italia in organo del privilegio, in fonte continua e perseverante
dell’ingiustizia” (Guido DORSO, La rivoluzione meridionale, Piero
Gobetti Editore Torino 1925).
Il poema vive di luce propria, di similitudini, sinestesie, inglesismi e
una celata parte narrativa del proprio quotidiano: “Ascoltando qualche volta
il walkman / camminando tra bancarelle e clacson / in una via Foria infinita
andando / verso un silenzio, un liceo, un destino” (pag. 51) e altrove: “(…) E
allora questo costruire un futuro di libri / e ordinaria amministrazione il
ripetersi / di un domani che non mi appartiene?” (pag. 20).
Sono molteplici gli stimoli che giungono
dalla lettura magmatica dei corpi
poetici che in qualche chiusa conservano la rima sonora e la liricità della
serena poesia non piegata dalla necessità della Storia: “Il sole dietro i
tetti l’incendio / del tramonto irraggia il cielo / il lento mutarsi della luce
nel cortile / l’ombra che avanza divorando / le pareti centimetro dopo /
centimetro” (pag. 58).
La figura paterna, cara al poeta, emerge forte nel racconto attraverso
l’uscita di uno dei protagonisti dalla piazza, mentre si placa il rosso della tragedia che continua nel
chiuso delle Caserme del Potere: “(…) e vedi il tuo viso di allora / nello
sguardo smarrito di un ragazzo / che chiede aiuto. Ora la cura silenziosa / di
un padre ti appartiene per un attimo / senza parole, ma con gesti minimi
d’amore” (pag. 51) e ritorna ancora nei ringraziamenti
a pag. 67: “Ringrazio mio padre che mi ha affiancato nel lavoro di rilettura e
rielaborazione di questo libro.”
Montoro, 20 aprile 2016
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