recensione di Marcello Tosi
Allarme meteo (così frequente in quest’epoca): Neve a Napoli! Quella della nuova intensa e dolente raccolta poetica di Francesco Filia (Fara Editore), opera vincitrice del Premio Faraexcelsior 2012, che avvolge la città dell’autore, in genere considerata ben poco toccata da questo fenomeno atmosferico. Quindi a suo “poema dell’assurdo”, sottolinea nella sua prefazione Sebastiano Adernò, che “attraversa la città, la storia del proprio vissuto e della città stessa… quasi prosa poetica… Quasi un evento, un segno benigno, quella promessa bianca che ha la forma della manna… che induce a guardarla come un incanto, come un disegno appena abbozzato, che contiene, come ha scritto Anna Ruotolo, ogni gesto e il suo contrario “come / un mai e un sempre” (XXIII frammento), in cui convivono il bianco e il nero. La neve contiene la sua caducità, aggiunge Adernò. La differenza capace di trasformare la vita in ricordo.
Nel teso respiro di questa città dove la luce fatica ad uscire tra i palazzi, quale speranze di cambiamento sopravvivono, quale dolente attesa di vivere e amare? Forse la stesso dolente senso di sterile, vana speranza che fu di Pavese, citata in esergo alla raccolta: “Qualcuno ci ha promesso qualcosa? / E allora perché attendiamo?”
L’autore, che vive e insegna a Napoli, è stato vincitore della sezione inediti del premio Dario Bellezza (edizione 2001) e finalista di altri premi, tra cui il premio Città di Tortona 2008). Con La neve si è aggiudicato anche il concorso nazionale editi Civetta di Minerva 2013 ed è stato finalista del premo nazionale di poesia Ponte di Legno 2013. Ha fatto parte anche dell’antologia Subway. Poeti italiani Underground, a cura di Davide Rondoni con introduzione di Milo De Angelis (Net, 2006), e pubblicato il poema in frammenti Il margine di una città, con prefazione di Raffaele Piazza e dieci tavole di Pasquale Coppola (Il Laboratorio, 2008).
Frammenti i suoi, “di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti / gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età / come chi dovrà morire sul serio…” (I frammento) e “per saggiare il fondo delle nostre vite, per sapere / se siamo pronti per questa città che ci assale alle spalle / che non lascia prigionieri se non l’offerta dei nostri sguardi tagliati…” (III frammento).
La neve, dice l’autore, quella vera, non l’abbiamo mai vista “se non nella bocca a nord del vulcano / nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia / che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza / ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa / e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa / fino al midollo…”
Neve che si scioglie “tra lava e cenere ammassate… l’alito della terra che rinasce / Rimarremo tra calcina e cemento armato tra crepe / e radici…” una Napoli fatta di terra, cenere e fango, metafisicamente, disperatamente silente, che tra vocio e magma di piazze sembra disfarsi attimo per attimo davanti agli occhi dell’autore: Il corpo di Napoli è pioggia che gronda “portando con sé omissis di parole e pupille graffiate dall’aria… ogni gesto conduce a questo gelo di piazze senza nome / a un orrore di statue erette da millenni…”.
Un malessere profondo che ha radici antiche là dove “Cocci di bottiglie sui muri azzannano, come denti / la carne viva della nostra adolescenza… / (…) / Rimaniamo per sempre nell’attimo tra lo slancio e lo stacco / del corpo tra gli scogli (12 anni). Dolore e disperazione tra le pieghe del tempo che hanno anche una data precisa: 23 novembre 1980, quando “Non avevamo capito che il terremoto era appena / iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore / di tubi innocenti e siringhe di cemento armato / di lavori in corso e doppi turni…”.
Il brusio di tempo di antiche perdute Discendenze, rimandano ad una Napoli tra passato e “futuro remoto di grida e strati sepolto” (XI frammento), gettata tra il mare “e un incubo / appena iniziato, il cerchio spezzato di queste colline” (XII frammento).
Quali restano ancora le Cose da fare lungo le strade di questa città ormai non più tale, ma “gioia / perduta, destino”? “Costruire sillaba dopo sillaba / le strade che hai amato, vico della fate a foria /(…) / … la terra che brucia la pelle / trattenere il fiato chiudere gli occhi, riaprirli. / Rientrare nell’incubo” (XV frammento).
Lacrime come la pioggia, l’incubo di una città smarrita, dove le ombre dei palazzi si allungano e “I morti ci entrano / dentro… / (…) /… ci reclamano con un conto / da saldare, una consegna da rispettare” (XVII frammento). Geografie come quelle del Centro direzionale, della Direzione Capodichino-Autostrade disegnano un enigma, che ancora divora per capire come siamo… l’enigma di una città “che ci ha voltato le spalle” (XX frammento), lungo il suo perimetro assediato, che imprigiona “nel carcere di questi vicoli”, nella strettoia di “un destino sbagliato, come la risacca dopo la marea, / come un mare, come una madre” (XXI frammento).
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