lunedì 13 giugno 2011

Su Falò de’rosari di Neil Novello

Aragno, 2011

recensione di Vincenzo D'Alessio

Ho letto, con profonda attenzione e sofferenza ,la raccolta poetica, Falò de’rosari di Neil Novello. Non la sofferenza che ti disorienta, frusta gli occhi e ti distrugge. Ma un amaro sapore di “sale di nulla” (pag.15), che ti raggiunge sulla salita verso la cima e ti ripropone la lettura dal principio,”da laggiù nostro venuto mai” (pag. 123).
La prima immagine affiorata nella mente, ché la vera poesia questo possiede di grande, è stata la lastra della” Tomba del Tuffatore” a Paestum: il sacerdote, l’anima e il suonatore di siringa che incede. Il tuffo da quest’esistenza certa ad un’altra azzurra, aerea, d’impatto:

“Al parto d’astri,
va su per erbari,
spetala più luce
con le mie mani.” (pag .22)

L’amore del poeta verso la madre è racchiuso in tutta la raccolta. Il rosario di una esistenza legata a cristiana tradizione e all’indecifrabile cartiglio della Morte. Forte è la lezione del Novecento ermetico nella poetica del Nostro; gli enjambements danno vigore alle stanze; l’azione asindetica genera l’armonia nelle parole; l’acribia costruttiva incede: ”fra le piante dai nomi poco usati” e minerali rari; gli ossimori stimolano all’attenzione; il richiamo al mondo greco è sempre presente.
Atti di una tragedia che l’Umanità vive da milioni di anni. Stasimi che intervengono a sedare, utopicamente, le paure ancestrali che la scena umana ripete. Il divino che non appare, se non per fede, nell’immutabile spasimo vita/morte:

“L’ala accende la tenebra,
e non più ronza,
a filo di lama,
tu notte materna
già urna di terra.” (pag. 32)

Ritorna il mito della “larva argentea” del Satyricon, 34. Come risuonano alla mente i versi del premio Nobel Salvatore Quasimodo che ci sostengono nell’incedere: “Ma ai morti non è dato di tornare, / e non c’è tempo nemmeno per la madre / quando chiama la strada” ( I ritorni, Newton, 1996).
Il dolore non dà pace. Neanche nel gioco onomatopeico del bambino: “Cucù” che richiama alla mente l’amore della madre, santa, genuflessa, con il rosario tra le mani:

“Ora veglia tu la vergine
e libera l’ora sorvolante
su noi.” (pag. 9)

Sono tante le emozioni trasmesse nei versi. Il termine “lager” è la costrizione e la costruzione a: “Il tarlo trapassa l’onice, / in vetta” (pag. 33). Nove sottotitoli, per nove poste di Rosario. Una rotazione in versi. Un fluire che ricade su se stesso: “Nuoto per deserto in suole / e cullo l’ora senza lancette, / bocca a bocca in palma” (pag. 33).
Brucia l’esistenza in un roveto ardente: chi fa fede, segue la fede. Chi ha fame di conoscenza, cerca oltre il tempo:

“Se fosse di noi cosi,
tu da culla neve a me,
incontro a un tempo.” (pag. 44)

Tutta questa bellissima raccolta vibra di un dolore cogente, umano, scoccato dalla freccia della Poesia. Versi che permettono al lettore di porsi all’ascolto del silenzio che la fine della vita dispone. Il poeta lo fa con parole composite, con fiori, con strali di luce. Nel fondo il dolore resta: come resta l’amore verso la propria madre; verso la culla che genera; verso la Creazione che geme, nel freddo degli inverni. Eppure Novello cede la madre al suo creatore, dolcemente, con l’amaro dell’abbandono e del tu, che non sarà più il noi, chiedendo:
“Fa’ tu la carità al tuo Dio” (pag. 119).
Vorrei accostare questa pura voce poetica del finire del Novecento ermetico, al poeta meridiano che più di ogni altro ha interpretato l’amore per la madre e per la terra del Sud:
“Resta il freddo da cui non ci difende / nessuna parola che torni / a bassa voce con noi. / E i giorni. / Nei giorni il senno di poi / che ci offende.” (Alfonso Gatto, A bassa voce con noi, dalla raccolta La forza degli occhi, Mondadori, 1967).

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