martedì 31 maggio 2011

Su Falò de’ rosari di Neil Novello

Aragno, 2011

recensione di Marcello Tosi

Falò de’ rosari di Neil Novello è una corona di filo spinato, di versi martellanti come chiodi, come lamento di salmi cantati sul salterio.
In principio del mondo e alla fine della vita, recitano i versi in dialetto friulano di Pier Paolo Pasolini posti come introduzione: “ogni nostra parola vuol dire madre”. “Rosa gospel” è il canto profondo e intendo che l’autore bolognese dedica alla madre. Segno di fuoco, voce riarsa di un poetare che scandisce le sue parole come atto di dolore, di preghiera, come simbolo di una ferita, di un legame di sangue messo in gioco dalla morte che rende orfani della luce.
Un canto ad una maternità lacerata che le stesse note finali apposte dall’autore chiariscono come l’aprirsi di un calice, di una corolla, di un’antera edipica, di uno stimma della vita (“Stasimo in petalo verde”): “Tu marina borea / non stella, non stame sei / stame di nulla…”.
La lingua che la bocca riarsa fa risuonare, è come uno scandire di versi tra echi della poesia del Novecento, che si fa strada dolorosa tra ortiche, aridi roventi, schiocchi, polvere d’ossa, grani di sale. Sentirsi “stelo in cerchio d’ombra”, là dove “verrà la falce e mieterà il nulla”, e noi, cuore nudo e lontano, siamo “carne scolata fuori tempo”.
Emerge una condizione creaturale del senso più intimo e doloroso della parola madre, di cui si fa simbolo la pierfrancescana “Madonna del Parto” di Monterchi (“Libera, libera tu l’ultimo passero”), ma anche il cammino verso un calvario fatto di nere croci, su cui “ampolla di vergine / calice di sangue svetta in croce”. L’autore muove, quasi alla maniera di un novello Parsifal, alla ricerca del proprio Graal (“Mille d’ali di rugiada”), di una via del Tao, in cui i simboli del sangue, del fuoco, diventino pietra di Dio, lingua incarnata in cui la realtà ferita “si alza dal buio / nel fondo della luce”.
L’arido calice e la coppa dei versi toccano le labbra di Socrate, il fiore arso a bocca di leone di Giacobbe. Presso il roveto ardente del falò dei rosari “fumante lo sterpo / … già tuona il calice da bruciato lillà”.
L’uso dello stesso dialetto calabrese ove inserito, è come il segno e il sogno della lingua madre, che è lingua di poesia. L’ombra della luce si chiude a proteggere la materna, poetica visione.
È amigdala, ovvero quella parte del cervello che gestisce le emozioni e in particolare la paura, che diventa guida della poesia nell’attraversamento oltre il disco della notte, verso quella luce che è un tornare all’origine, alla madre, rinvenendo nel verso che attraversa il tempo, il battito ferito del cuore.

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