Terza raccolta poetica, dopo Liaison (2002) e L’uomo che sogna (2004), Alluminio (LietoColle, Faloppio, Como 2008) di Mario Fresa forma con i precedenti libri un trittico di suggestiva forza e bellezza. Nucleo concettuale dell’opera, la ricerca, o piuttosto la registrazione di un indistinto caos interiore in cui si intrecciano, confondendosi, atmosfere oniriche, insorgenze subliminali e imprese memoriali, fatte di luci e di «parete oscura», «di vaghe solennità» e «rovine ansiose», «quasi che Fresa - scrive Mario Santagostini nella prefazione - voglia alludere a cosa è (o è stata) la percezione prima che la ratio illuminante intervenga a discernere quanto viene afferrato ‘qui ed ora’ da quanto ritorna, risale dal passato».
Chiave di lettura del libro, il titolo dell’opera. Termine chimico che designa un metallo bianco-argenteo, duttile, malleabile e leggerissimo, “alluminio” rinvia all’idea della impalpabilità, della evanescenza, dell’aria «fine» che «soffoca il riposo / delle mani», del sonno «pesantissimo che annuncia fuochi / di serpente» o, ancora, dell’ombra «che nasconde docili rumori e a poco a poco estingue / in laminata attesa il precipizio d’acqua».
Elementi ispiratori, da una parte, il sonno, da intendersi nel significato di sospensione dello stato di coscienza, di caduta, scivolamento nelle remote profondità dell’Es, dall’altra, il viaggio, seppure interiore, ipnagogico «nei magnifici ingressi», verso i «penultimi confini», lungo «la strada amica» al termine della quale – sembra suggerire il poeta – ad accoglierci è la «piazza della lunga solitudine», la «morte lentissima di luce». Basterebbero questi pochi versi a illuminarci sull’operato di Fresa che desume la sua energia in un affastellarsi di immagini, percezioni, pensieri partoriti da un flusso psichico persistente diversamente modulato, polifasico, vale a dire ora rapidissimo ora ad onde lente, come si dà allorquando l’io più profondo affiora in superficie, alle «superbi luci», al «suono colorato dei richiami», vinto «il salto nel buio», scavalcate «le mura della notte». L’impressione che si ricava è quella di una poesia psicoanalitica e “fortemente dinamica”, nel senso etimologico del termine greco “dinamikòs”, da “dunamys” = forza, potenza, e dunque movimento prodotto da forze che agiscono in continuum; peraltro, l’aggettivo non è fuori luogo, considerata anche la scelta del poeta di avere voluto illustrare il libro con due dipinti del futurista Umberto Boccioni, l’uno dei quali dal significativo titolo di Dinamismo di un foot-baller. Tale “dunamys” si snoda per moti improvvisi e vorticosi cui fanno da controspinta attraversamenti piani e dimessi, come si evince da questi versi: «piano risale il gesto / avvolto dall’assillo dei fondali. / Poi si rinnova, adesso, l’aria bruciante, / esplosa sulle pareti nude, e nel passaggio / si rafforza la galleria di questi suoni / ribollenti nella luce». Ne consegue che la tipologia narrativa, funzionale a questo colloquio con la «gioia inarrivabile, segreta», è ancora una volta il flusso di coscienza al quale ci ha largamente abituato Fresa, quivi adoperato in modo però meno univoco, alternato a un monologo interiore più controllato, che sappia esprimere il trattenersi del poeta «sospeso tra io e inconscio, tra materia e apparenza della materia» (Santagostini).
Interessante, anche, la resa sul piano espressivo. L’impianto stilistico ricorre massicciamente all’aggettivazione, anche doppia («implorante / luce notturna»), che conferisce ai testi un andamento prevalentemente sulle righe, secondo un processo di amplificatio espressiva, non per questo infiacchente se costantemente modulata, o piuttosto diluita, da tocchi di delicata grazia. Inoltre, proprio l’aggettivazione ricalca le proprietà tipiche dell’alluminio. Dei diciannove testi, infatti, di cui è composta la raccolta, non uno manca al suo interno di un aggettivo che evochi espressamente le qualità del metallo; «splendente», «risplendente», «luccicante», «cangiante», «chiaro», «riluce» sono tutti lemmi afferenti allo stesso campo semantico di abbacinamento e lucore. Altrettanto incisivo è il ricorso a ridondanze espressive, di cui sono testimoni i superlativi assoluti («pesantissimo», «lentissimo») e gli avverbi («pazientemente», «perdutamente», «ansiosamente»); efficace l’adozione di una punteggiatura assai varia, vale a dire del punto e virgola e, più spesso, dei due punti, atti a creare un arresto del discorso o una ripresa a fini chiarificatori del detto prima o del non detto sufficientemente. Non ultimo il ricorso a congiunzioni del tipo «dunque», in posizioni chiave, anche qui con il chiaro scopo di introdurre una proposizione che esprima la conseguenza di quanto precedentemente detto, di riprendere continuamente un discorso che - per statuto onirico - si palesa interrotto, franto. L’effetto che si ricava è decisamente straniante, come pure si desume da questi sintagmi sinestetici («aceto dei sospiri», «le labbra sollevate sul respiro della neve») che creano uno choc davvero forte e in cui risiede, più che negli altri procedimenti, la tenacia, la caparbia espressiva dell’autore nel discostare il lettore dal livello percettivo concreto.
(recensione apparsa su «Caffè Michelangiolo», anno XV, n. 2, maggio-agosto 2010).
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