"Tra gli aranci e la menta", la plaquette di Lorenzo Spurio dedicata a Federico Garcia Lorca. Recensione di Isabella Michela Affinito

Recensione al libro di poesie di Lorenzo Spurio, dal titolo: “ TRA GLI ARANCI E LA MENTA – Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca”, Collana L’Appello – Poetikanten Edizioni dell’Associazione Culturale Ilfilorosso di Rogliano (CS), Seconda edizione Anno 2020, Euro 10,00, pagg.65.

 


«[…] Lungo una strada va/ la morte incoronata/ di fiori d’arancio appassiti./ Canta e canta/ una canzone/ sulla chitarra bianca,/ e canta, canta, canta.// Sulle torri gialle/ tacciono le campane.// Il vento con la polvere/ compone prore d’argento.» (Dalla poesia Clamore di Federico García Lorca, tratta dal libro monografico n°5 Federico García Lorca – POESIE, Collana “La Grande Poesia – Corriere della Sera”, Edizione speciale per il Corriere della Sera, RCS Quotidiani S.p.A. di Milano, Anno 2004, pag.49).

L’omaggio poetico che il saggista scrittore critico letterario della provincia di Ancona, Lorenzo Spurio, ha voluto dedicare a uno dei più importanti personaggi della letteratura spagnola del primo Novecento, Federico García Lorca (1898-1936), assomiglia alla magistrale e temeraria entrata dell’abile surfista nella galleria d’acqua provvisoria dell’onda ‘perfetta’, fino a percorrerla tutta prima del suo rovescio sulla superficie marina.

Gli aranci sono in riferimento alle terre calde che li producono, terre assolate dove gli inverni sono miti come la nostra Italia del Sud, le regioni mediterranee, piuttosto che la Spagna dove sul finire dell’Ottocento nacque, nei pressi di Granada in Andalusia (zona della Spagna meridionale) colui che divenne il poeta e non solo, Federico García Lorca, della vita con tutte le sue inquietudini soprattutto imbevuta di pianto e di sangue, di paesaggi coi suoi fiori frutti e plurimi colori, di giustizia mancata e di surrealismo che s’andava affermando in quegli anni del secolo moderno – lo scrittore andaluso fu amico fraterno dell’artista catalano inquieto e stravagante surrealista, Salvador Dalì, a cui destinò la sua prosa poetica titolata Ode a Salvador Dalí.

La menta perché probabilmente in mezzo a tanta inclemente arsura di terre infuocate dai raggi solari, essa come erba aromatica rappresenta la freschezza dei luoghi umidi dove nasce e così la figura eroica-letteraria dello stesso Lorca si staglia dal gruppo dell’oltre la decina di liriche che il poeta Lorenzo Spurio ha composto per Egli, morto prematuramente all’età di trentotto anni e che fece parte della memorabile “Generazione del ‘27” all’indomani dell’instaurazione del regima franchista contro la Repubblica dando il via alla guerra civile durata fino all’aprile 1939; cosicché il 19 agosto 1936 venne crudelmente fucilato il poeta Lorca dai sostenitori del dittatore Generale Francisco Franco (solo dopo la morte di quest’ultimo nel 1975 finalmente la produzione letteraria di García Lorca ha potuto meritare la divulgazione e il mondiale riconoscimento) a qualche chilometro da Granada, allacciandosi idealmente al celebre dipinto del precedente artista spagnolo ritrattista della famiglia reale di Carlo V, Francisco Goya, del 1814 titolato Fucilazioni del 3 maggio.

Dicevamo della rassomiglianza con l’immagine del provetto surfista perché i versi di Lorenzo Spurio diffondono un equilibrio perfetto in sintonia con quelli di Federico García Lorca: nel versificare la territorialità, gli ambienti caldi andalusi di Lorca il poeta delle Marche s’è unito all’universale respiro letterario ardente lorchiano fatto di attimi stillanti musicalità, dramma, simbolismo, surrealismo, ermetismo, passione lacerante e lacerata da improvvisi colpi di scena tra cui, fra i tanti, la morte per ferimento alle cinque della sera durante l’esibizione tipica spagnola, la corrida, dell’altro suo carissimo amico torero Ignacio Sánchez Mejías, a cui dedicò una lunghissima struggente poesia (1935), divisa in quattro parti, carica di valori correlati alla vita stessa fatta di dolore e di lotte.

Così ha composto il poeta Spurio in relazione a quell’episodio: «[…] Nelle tribolazioni invereconde e nella polvere/ paraventi di luna che fugge alla notte/ incunaboli di dolore in tabernacoli di pianto/ il fluido rosso fondamento di sacrificio.// Nelle cuevas gitane l’umidore sembrò placarsi;/ quella sera la luna non si presentò/ talmente impaurita preferì nascondersi/ ma alle cinque, tu, dov’eri? » (Dalla poesia La luna si nasconde, pagg.18-19).

Per comprendere appieno i testi poetici della silloge in questione dell’autore iesino, bisogna prima conoscere la breve eppure complessa esistenza del poeta Federico García Lorca, che crebbe in una famiglia dove non c’erano problemi economici dato che il padre era un ricco possidente terriero e la madre, seconda moglie, era insegnante ma di salute cagionevole per cui il piccolo Federico venne allattato dalla moglie del responsabile di un’azienda agricola, che aveva il compito di controllare i subalterni, e forse soprattutto per questo il poeta da adulto divenne il propugnatore del concetto d’uguaglianza tra gli uomini: dai gitani ai negri, agli ebrei, alla gente più umile…

La madre lasciò l’insegnamento per dedicarsi con cura all’educazione del figlio, trasmettendogli l’amore per la musica (il pianoforte) e stimolandogli una grande sensibilità, anche perché Federico García Lorca nacque sotto il Segno zodiacale d’Aria dei Gemelli, il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros, votato alla parola, ai viaggi, alla curiosità, al protagonismo con già una platea interiore pronta ad applaudirlo, all’amicizia, alla novità sotto tutti i punti di vista.

La corrente surrealista, in ambito artistico e letterario, si fece largo dopo il primo decennio del Novecento in Francia, a proposito del poeta scrittore critico d’arte, Guillaume Apollinaire (1880-1918), che usò per primo il termine sur-réalisme e man mano entrarono a farne parte le teorie inerenti l’inconscio grazie specialmente alla psicoanalisi di Sigmund Freud, l’immaginazione liberata dalla ragione, la casualità, il sogno e in Spagna uno dei più importanti pittori surrealisti fu, appunto, Salvador Dalí, ammiratore sin dall’epoca universitaria di Lorca, il quale prima si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza poi passò a quella di Lettere, insieme al regista Luis Buñuel e un’altra importante amicizia di García Lorca fu quella col poeta cileno Pablo Neruda, più giovane di lui di sei anni e che visse fino al 1973, conosciuto a Buenos Aires e rivisto a Madrid nell’ultimo paio d’anni della sua breve esistenza.

Federico García Lorca fece anche molto teatro – andò in giro per i villaggi sperduti della Spagna con la compagnia teatrale ambulante La Barraca – scrivendo opere ispirate agli usi e costumi della sua Spagna fortemente legata alle tradizioni punzonate dalla condizione di subalternità della donna, le tragedie familiari dovute anche alla difesa dell’onore, le promesse da mantenere, l’amore contrastato e la morte sempre in agguato, che poi negli ultimi tempi evolse in una drammaturgia difficile da rappresentare perché assorbito dal mulinello surrealista.

«[…] La mia dimora è l’ambiente, l’anziano ulivo,/ l’oliva e la screpolata corteccia, la radice/ magnifica e atroce e la foglia a forma di lancia:/ cercatemi là, non lontano dal limoneto nauseante/ dove sosto ad abbeverarmi del nettare acido/ per tornare a vagare nei dintorni confusi/ e abitare smanioso ogni luogo del campo. » (Dalla poesia Non lontano dal limoneto, pagg.49-51).

 Isabella Michela Affinito 

 

IT'S FRIDAY! Quattro poesie inedite di Giusi Montali

It's friday è una rubrica poetica a cura di Luca Pizzolitto



Albedo


viriditas 


I.

si vede dormire ai piedi di una quercia,

l'erba tra i capelli, il sonno quieto

di chi dorme in pace, la quercia affonda

nel ventre, dall'ombelico s'innalza, la schiena

è radice, e lei dorme nell'ombra, fiorisce

il cranio, sì trasforma in volta: voci

s'avvicinano, si arrampicano, e lei

sorregge tutti: albero e popolo 


II.

trasformarsi nel rumore di fondo, divenire

albero, fluire dall'interno, rovesciarsi

nel cielo, nella terra affondare, nella stasi

il movimento, lo scorrere delle stagioni:

ergersi a tempo, nel tempo, mutare

a tempo, fare parte del primo suono,

vestirsi di sé


III.

sola, tutta sola, tutt'una

nel tepore che diviene ardore

per adorare le ore del fuoco

e custodirle e ravvivarle

nel caldo turbinio del sangue,

nella pelle che respira e ricorda,

tirarsi addosso tutto il rosso

il giallo e l'arancione, mescolarsi

al vento, al verde, al verde dell'età,

viriditas, il verde della

verità, custodire e l'acqua e il sole,

e il loro mitigarsi




**


Quando sarò angelica


le biblioteche sono piene di lacrime e i fiori cadono dai prugni,

mentre io resto in casa giornate intere e guardo nell’armadio

le rose fiorire e parlo di nuovo a me stessa e alle tante in me

che vivono nei vasi da fiori aspettando che la notte finisca


conversando si riconoscono e si misurano, imparano

dove ferire e dove curare, prima per gioco, poi non più,

e la luce del mattino illumina il letto: sono di nuovo

ricaduta nella commedia e indosso uno sporco io


ho il gemito dei colombi e piume e quando infine

sarò angelica, mi toglierò i vestiti e vedrò:

la nota da cui tutto ebbe inizio e che ancora risuona

e il sogno di una formica che ridisegna l’universo



- tanti universi quante specie sognanti! -

nei probabili e improbabili universi 

si ripete inizio e fine: scriverò ancora 

questa poesia, e so di averla già scritta prima


nella polvere un albero si risveglia, verde e fiorito,

dopo il sonno invernale, nel calore riapre gli occhi

non sapendo nulla della neve, e il sognatore ai suoi piedi

dorme, sogna, e nel sogno esplode un altro universo



(La poesia è stata ispirata dal ritrovamento e dalla rilettura della selezione da me operata di alcuni versi di Allen Ginsberg provenienti da testi differenti.)





Giusi Montali (1986) insegnante di yoga e poeta, si è laureata a Bologna con una tesi su Amelia Rosselli e ha conseguito un dottorato presso l'università di Pavia. 

È autrice di Fotometria (Prudrock spa, 2013) e di Dietro l'occhio (Howphelia, 2021) e coautrice, assieme a Luca Rizzatello, di Faria ( Dot.com Press, 2016). Alcuni suoi testi sono antologizzati nel secondo volume di Poeti italiani nati negli anni '80 e '90 a cura di Giulia Martini. 

Ha collaborato con la rivista cartacea "Le voci della Luna" e collabora con la rivista online "Ibridamenti". 

È stata nella giuria del Premio Anna Osti e in quella di Bologna in Lettere.

Ha organizzato reading presso diversi locali di Bologna e ha curato assieme a Luca Rizzatello la rassegna poetica Precipitati e Composti.

È coautrice assieme a Martina Campi del format di poesia formula_truepoetry.


“Monologo dell’angelo caduto”. Opera poetica empatica e sincera di Giuseppe Carlo Airaghi

recensione di Vincenzo Capodiferro
pubblicata su Insubria Critica


Monologo dell'angelo caduto è un’opera poetica di Giuseppe Carlo Airaghi, pubblicata da Fara Editore, Rimini 2022. Come si legge nella Prefazione, di Alessandro Ramberti: “Lo stile di Airaghi ha un nitore che ci rimanda ai cieli ed alle prospettive di Piero della Francesca, la forma esatta e luminosa del suo dettato varca il confine fra visibile e invisibile, fra emozioni angeliche ed umane. È come se le inquadrature fossero sempre sul punto di muoversi, elasticamente soggette ai flussi e riflussi della realtà e del nostro sguardo, che può focalizzarsi, ora su un particolare, ora su un altro’. È bella questa immagine del poeta-angelo, memore dei tempi stilinovistici, e più vicino a noi al Montale, che disse: “Tutte le cose portano scritto più in là”. Così ci troviamo dinanzi a una sperimentazione di poesia metafisica, o poesia del confine. Il poeta-angelo riporta i versi dei cori angelici in una dimensione discorsiva, più umana, riporta la visione beatifica nella dimensione del tempo:

Volevo camminare sopra i giorni

ancora non vissuti, immacolati,

sfiorandoli appena. Proseguire …


L’essenza del tempo è la futurità. L’estasi più importante delle tre: passato, presente e futuro, sintetizzate nelle tre facoltà agostiniane (memoria, intelligenza e attesa), è il futuro, il proiettarsi, o progettarsi heideggeriano nel contesto del gettamento esistenziale.

Non fu il caso a farci incontrare.

Il nostro incontro era deciso

nel destino di quei giorni di luce
(p. 28).

Il caso non esiste. Chiamiamo caso colo ciò che non riusciamo a capire, ciò che vediamo in maniera confusa e oscura. Caso e causa provengono dalla stessa radice, come cosmo e caos.



Giuseppe Carlo Airaghi è nato a Legnano (MI) nel 1966. Vive a Lainate. È impiegato presso un’azienda di servizi. Ha lavorato come geometra, animatore nei villaggi turistici, venditore di prodotti siderurgici, cantante di musica blues. Ha pubblicato le raccolte di poesia I quaderni dell’aspettativa (Italicpequod), Quello che ancora restava da dire (Fara Editore), La somma imperfetta delle parti (Giuliano Ladolfi Editore) e il romanzo I sorrisi fraintesi dei ballerini (Fara Editore).

IT'S FRIDAY! Quattro poesie inedite di Eleonora Ines Nitti Capone



It's Friday è una rubrica poetica a cura di Luca Pizzolitto



Nessun verso potrà mai essere pari all’arco disegnato dal volo degli stormi
né al nero pesto delle notti o al miracolo di luce delle stelle
chiunque scriva per davvero scrive nell’insegnamento di questi alti maestri.


**

                                            A S., nel tempo in cui non c’è


Ora che tu te ne sei andato
io non riconosco più le mura dentro la mia casa
e non riconosco più le strade che da sempre mi ci hanno riportato
non sono più capace a usare queste porte
e le finestre che danno sul giardino che era il nostro non sono più le stesse
Ora che tu te ne sei andato
io non riesco a riconoscere il mio letto
ed il soffitto che ho pregato tanto ora ti chiama
ogni cosa adesso porta il nome tuo
Ora che tu te ne sei andato
io non so vedere i luoghi dentro la mia vita
e la faccia che mi da lo specchio se lo guardo io non la riconosco
Una sola cosa resta uguale nei miei occhi
adesso che tu sei andato via
il Cielo sempre e in ogni luogo io resto capace a riconoscerlo
e lui so che riconosce me.


**


Con tutti i cuori aperti vado dentro le tempeste
e pienamente di me faccio consegna ai venti
poiché io so che i venti sanno pienamente
cosa è bene per davvero che di me sia fatto.


**


Quale bisogno c’è ch’io sia eterna?
A chi è che gioverebbe questa lunga permanenza?
Che canti quindi la mia voce finché riesce prendendo la sua parte nell’orchestra
esista fino a che ce n’è bisogno e poi si spenga
e vada in alto a fare un poco luce - se capace - come stella.




Eleonora Ines Nitti Capone ha una laurea triennale in Lettere Classiche presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, dove è iscritta attualmente al corso di laurea magistrale.
Ha pubblicato Maria dei meschini (Oltretuttolibri, 2018), Primo Fuoco (Musicaos Editore, 2019), La Parola Buona (Animamundi Edizioni, 2020) ed ha partecipato alla raccolta poetica Sulla Paura – parole in soccorso ai tempi del coronavirus (Animamundi Edizioni, 2020). Di recente ha collaborato alla scrittura del testo per il brano De finibus terrae di e con Rachele Andrioli.
Lavora con il teatro e con il canto, è nata nel 1998 e vive tra Lecce e Bologna.

Il saluto poetico di Francesca a Fano venerdì 10 marzo 2023

Francesca Bavosi presenta Ipotesi di misura, raccolta poetica vincitrice del concorso Faraexcelsior, a Fano, Sala da tè L'uccellin bel verde, via Rinalducci 5


venerdì 10 marzo ore 21:15




“l’innocente splendore delle cose di quaggiù”

Biagio Accardo, La luce del più vasto giorno, peQuod 2022

recensione di AR




Il poeta è a suo modo un avventuriero, un profeta (spesso inconsapevole), uno slancio vitale (citando Bergson) che si mette in gioco, “il piede che varca la soglia / ignaro della casa in cui entra” (p. 130). Biagio Accardo è intriso di una luminosa spiritualità scout, per cui le relazioni tra viventi (homo sapiens e altre specie, “Io recito la mia preghiera quotidiana / lasciandomi catechizzare da una formica”, p. 128), l’attenzione ai piccoli, a chi è in situazioni di bisogno (“Scavo in periferie d’anime”, p. 120), il rispetto per la natura e l’ambiente che sono fonti infinite di bellezza ed energia (se non li devastiamo), la ricerca quotidiana di piccoli gesti di pace, l’affrontare gli ostacoli con entusiasmo facendo ciascuno del proprio meglio… ecco credo che questo dia un timbro particolare, impegnato e sorridente, un’impronta riconoscibile, uno stile a questa raccolta per altro composita. Le poesie sono infatti state scritte in un lasso di tempo che supera il decennio (a partire dal 2009) e risentono di un percorso personale che ha dovuto affrontare diverse prove, mai del tutto esplicitate, ma si sente che le parole hanno un peso, una forza che è data dalla loro verità e così anche gli oggetti, gli elementi naturali risaltano nel dettato come immagini indelebili, di empatica autoironia: “(…) Mi chiedo / se fu amore ciò che poi non si ricorda, / se questo vuoto condanna me / e condanna lei al rimorso di ciò che mi ha donato.” (p. 11); “Era lastricata di fango la strada / versi il santuario. Un fico, / spento candelabro, recitava / la sua preghiera annerendo / sotto il gelore dell’acqua.” (p. 20); “Nessuno di noi considerava / (…) / che sarebbe tornata l’ombra / l’ombra così sorella della luce.” (p. 22); “Il fremito degli angoli della casa, / il balbettio dei posacenere” (A più tremanti mani, p. 23); “La mia macchina come mi somiglia! / (…) / quel suo andare storto, una sorta / di dono, e pare anche a me che la guido / di avere qualcosa da dare, / qualcosa di strano che sono e che porto.” (p. 29).

Siamo tutti preziosamente imperfetti, ci ricorda Biagio, mai autosufficienti eppure capaci di innescare cambiamenti, di rendere assieme a fratelli e sorelle di buona volontà il mondo (sociale e ambientale) migliore, di camminare insieme per iniziare a tracciare nuovi sentieri di umanità e giustizia, costruire visioni calate nel reale, responsabili e consapevoli: “Magari dirlo il nostro grazie al tempo / al suo andarsene senza far rumore, / (…) / è un bene  che certe feriti stentino / a chiudersi, a rimarginarsi: / così la memoria resta a due passi / dal suo dolore, la corsa si fa lentamente / cammino, la speranza pazienza, / la fede un sì detto abbracciando / tutto il buio della notte.” (p. 33); “ed anche ciò che scrivo è testimonianza / che non mi reca onore: mi copro / le spalle d’un mantello che sfigura, / smisurato per la mia stretta taglia.” (p, 43).

Splendidi i versi seguenti che ci portano all’essenziale (un pensiero simile l’ha sviluppato recentemente Luigi Maria Epicoco ne La scelta di Enea): “Io non so cosa ho perso, / ma ciò che ho perso è solo ciò che sono, / ciò che resta, e questo poco / che resta è il solo pane che spezzo / la razione del mio domani, / quella che lascio sul palmo delle tue mani.” (p. 46). Struggente la dichiarazione: “scrivere poesie che solo / i sassi sanno, l’erba / ode, cantano le lumache.” (p. 52). Lapidaria l’affermazione: “noi siamo tutti un unico nome” (p. 66). Chirurgica la sequenza cesellata a p. 76: “Mi dici se credo? Vorrei risponderti / che sì, credo nella linea / mobile che divide la sabbia / dal mare e questo dal suo cielo; / nel miracolo del bordo di una foglia / che fa di quel verde proprio quella foglia, / buona a schermare la vastità del cielo.”

Come vediamo Biagio Accardo ci accompagna, ci sospinge, ci scuote, ci riposiziona, ci commuove come nella seguente poesia a p. 79 che riproduciamo integralmente: “Ho deciso di amare cose / non più grandi di un sasso. // Chiedo al fuoco che consuma la legna / di dirmi dove ha casa la cenere. // Se questa piange quando il vento / la porta via.”

O la poesia sul Letto di San Francesco a La Verna, con questo pregnante, ossimorico e vibrante ritratto del Poverello (p. 97): “Ah! uomo esile come un fuscello, àncora / del tuo Dio, cardine del suo perenne andirivieni. // come una corda hai retto la sua tenda, / legato alla tua radice il suo passo leggero e inavvertito.” 

Biagio  confessa (p. 129): “(…) e  il mio oramai / è uno scavare che deturpa: somiglia / al campo d’una talpa il cuore, / tessuto da cunicoli di buio e radure / di luce. Ma so che continuerò”. Ci auguriamo ardentemente che lo faccia per essere con lui ad osservare il “(…) volo / della poiana, divinità maestosa, che sfiora / i fragili sterpi, per far ritorno lassù / poi, al picco, dove resta / a guardia del suo cielo.” (p. 130).    


PS Il verso che titola questa recensione è tratto dalla poesia a p. 25 (sezione “A più tremanti mani”).



Enchiridion celeste selezionato al Premio Universum Basilicata 2023

Classifica dei vincitori del 10° Concorso Internazionale di Poesia Universum Basilicata

Libro Edito

1° “Cinque sensi” di Tiziana Rumi di Reggio Calabria

2° “Il mare nell’anima” di Emanuele Aloisi di Zaccanopoli (Cs)

3° “Gli occhi delle donne” di Emilio D’Andrea di Barile(Pz)


Autori selezionati

Alessandro Ramberti di Rimini
con Enchiridion celeste

Illustrazione di Alessandro Burrone


Renzo Piccoli di Bologna
con  “Casale California”


Poeta dell’anno 2023 Silvio Di Fabio  di San Salvo (Ch)per l’elevato punteggio conseguito nelle diverse sezioni in cui ha partecipato.

Virtuosismo con contenuti


Claudia Piccinno, Implicita missione. La fotosintesi della memoria, Fara 2023

recensione di Renzo Montagnoli pubblicata su Arteinsieme


Non si può certo dire che Claudia Piccinno non ritragga soddisfazioni dal suo “poetare”, perché, a parte i gradimenti espressi dai suoi molti lettori, le note critiche e le recensioni sempre gratificanti, ha anche riconoscimenti in concorsi di pregio, dove si misura con altri artisti di grande qualità, tenzoni involontarie, ma da cui esce quasi sempre bene, insomma al podio è certamente abituata. È accaduto così anche per il Narrapoetando 2023 che l’editore Fara propone da tempo ogni anno a verseggiatori e a prosatori. Implicita missione è la raccolta presentata in concorso e che ha ottenuto il prestigioso riconoscimento. Ho potuto leggere con calma, a tratti, ponderando se del caso di volta in volta le riflessioni che sorgono spontaneamente e ho rilevato innanzitutto che le quattro sezioni di cui si compone la silloge (Poesie varie, Haiku, Tautogrammi e Dediche) rappresentano la capacità dell’autrice di variare nel campo stesso di quest’arte antica e immortale (basti pensare al riguardo la presenza degli Haiku, di questa forma direi anche tecnica tipica del lontano Oriente, del Giappone, ma che ha preso piede un po’ ovunque; se non bastasse, il ricorso ai tautogrammi rispolvera una specie di gioco di origine medievale). È una ecletticità che non sacrifica l’arte poetica per stupire, no, è funzionale alla stessa, e non si tratta nemmeno di accademismo, bensì di capacità, di virtuosismo, che restano qualitativamente quelli a cui ormai ci ha abituato, virtuosismo che porta Claudia Piccinno a giocare con le parole, ma senza sacrificare i contenuti.

Ciò premesso, mi sembra che in questa silloge la poetessa ci proponga la sua visione metafisica del mondo e dell’esistenza, partendo dal presupposto dell’astrazione dal presente che è l’unica soluzione per poter espandere la propria voce quale risultato di un procedimento di analisi interiore. E in questo lavorio emergono, filtrati, ma non appannati, i sentimenti come in Tra gli Ulivi (“Tornano / quando si soffre / i volti di chi / abbiamo amato. / Vuoto il battito / muta la voce / ci si aggrappa / a un sentire lontano. /…”). E fra questi volti non possono mancare quelli familiari, quelle persone che per noi hanno rappresentato un esempio e che ci hanno insegnato gli scopi dell’esistenza, come nel caso di A mio padre (“Profumano delle tue arance / le mie mani. / E ti rivedo in sogno / nei momenti di pace / quando ti si allargava il cuore / in un sorriso. / Profumavano di terra le tue mani / Di tabacco e eau d’Hermes. / Contraddizioni e friselle / mandorle e fichi / dolcezza e stupore. / Grama fu la tua infanzia / ma nel bello trovavi conforto. / Profumano delle tue arance / le mie mani / / in quel profumo… rivedo te.”). Questi, versi, palpitanti, capaci di trasmettere emozioni quasi con violenza presentano tanti aspetti positivi, come il ritmo, il preambolo di una storia di affetti e la chiusa che è fulminante, ma poi quasi olfattivo è anche un miscuglio di profumi, da quello delle arance, del tabacco e, penetrante, l’afrore della terra. Viene voglia di respirare a pieni polmoni, è una poesia che profuma e questo profumo si trasmette, come quello delle arance dalle mani del padre a quelle della figlia. Queste composizioni fanno parte delle Poesie varie, la sezione più ampia, sulla quale ci sarebbe tanto ancora da dire, ma purtroppo il tempo e lo spazio sono pochi.

Per chi non conoscesse il tautogramma dico subito che non è un esercizio facile perché comporre versi le cui parole cominciano tutte con la stessa lettera e ovviamente dando un senso compiuto non è da tutti. Un esempio? Eccolo fra quelli “in b” (“Biascicavi bavose balbuzie, / bellicosamente blateravi. / Beccheresti briciole di baci / ballando bruschi boleri / boicottando belle ballerine / borseggiatori e bombaroli./ …”).

Salto gli Haiku che sono ampiamente gradevoli e passo alle Dediche che chiudono la raccolta e sigillano così nel migliore dei modi un’opera di indubbio valore. Sono poche, mirate, e la mia preferita non è quella a un poeta famoso o comunque a personaggi del passato anche lontano, ma quella che riguarda una bimba al suo primo compleanno, con tutta una vita davanti e con gli auguri di chi è già nel corso della vita e che con ogni probabilità guarda a quella piccina con una inconscia punta d’invidia, perché adesso che sappiamo come è, che abbiamo le nostre esperienze, ci viene spontaneo pensare come sarebbe bello poter ricominciare.

Da leggere, senza dubbio.

Vorresti farti luce

Alessandro Ramberti, Enchiridion celeste

di Giovanni Fierro in Fare Voci marzo 2023



Trovare la dimensione del qui ed ora, raccontare il vitale abbandonarsi alla fede, attraverso una spiritualità che si esprime anche nella verità della natura, per poter misurare e mettere in evidenza ciò che di sacro si manifesta in ogni vita.
È ciò che succede nelle pagine di Enchiridion celeste, la più recente raccolta poetica di Alessandro Ramberti.
“Ci è chiesto un equilibrio -/ fidiamoci dell’angelo/ il nostro aggancio al dopo”, e il confine dell’esistenza si trasforma in una frontiera dell’appartenenza al tutto; dove in ogni giorno “incorniciare dubbi/ è mettere in tensione/ la tela della vita”.
Ramberti in queste pagine, con assoluta semplicità ed efficacia, costruisce un continuo confronto con sé stesso e con il mondo, nutrendo questa ricerca con dubbi e domande, e riuscendo allo stesso tempo a far mettere radice ad ogni certezza: “ci accoglie un firmamento/ di stimoli e sussulti// non sai che la bellezza/ si dispiega-rifulge/ se c’è una dedizione?”.
Con lo svolgersi in due tempi – “Idilli” e “Piccolo manuale per abbracciare il cielo” – il nuovo scrivere dell’autore riesce ad avere anche la freschezza dell’haiku, “la luna sul sentiero/ il rumore dei sassi/ un niente di respiro”, che intarsia il suo fare poesia con la stessa incisività con la quale riesce a trovare forma all’intensità della fede, “con le radici scandagliando il campo/ della memoria il pozzo che conserva/ l’intrico luminoso della vita”.
Enchiridion celeste è la possibilità di trovare nuove vie di accesso ad un qualcosa di più profondo ed ampio, un respiro celeste che si manifesta e si svela, però, sia nel corpo dell’autore che nel corpo dell’esistenza stessa: “ecco sento nuove scosse – esplosioni -/ magari ce ne fosse almeno una/ che generasse una crepa anche piccola// perché uno spillo di luce si insinui…”.
La natura qui mostra il proprio vigore, la propria capacità di farsi significato e simbolo, temperatura dello stare al mondo, per riconoscere “cosa ti anima quando/ resinosi cipressi/ sconvolgono i ricordi// portandoti spogliato al/ centro della mancanza”.
Questo libro è un sentiero che porta lontano, un avventurarsi in una mappa che è ancora da definire, una cartografia dell’anima che si disegna passo dopo passo, dove si può riconoscere “le sue isole a volte/ grandi come deserti”, e farti accorgere che “ti estendi laddove il sole attira/ ti fai vecchio anello dopo anello/ maturi da solo o in compagnia”.
Perché “perfino più veloce/ del nostro procedere è il pensare/ l’immaginare mete”.

Continua in farevoci.beniculturali.it/fare-voci-marzo-2023

Teresa Armenti legge “L’alveare assopito” di Angela Caccia

recensione di Teresa Armenti


Opera poetica I classificata al Faraexcelsior 2022


Di solito, quando mi arriva un libro fresco di stampa, mi soffermo sul titolo e sulla pagina di copertina, che accarezzo a lungo e delicatamente, come se le mie mani volessero afferrarne l’essenza. L’immagine di copertina mi ha colpito molto, perché rappresenta un alveare speciale, a spirale, creato da api particolari, senza pungiglione, chiamate tetragonulaecarbonariae. Costruiscono decine di livelli uno sopra l’altro, dando al nido una forma a spirale. Sono insetti che rappresentano il simbolo dell’anima, della purezza, del coraggio e delladifesa del loro habitat; sonodavvero incredibili e non finiranno mai di stupirci, così come ci sorprende sempre Angela Caccia anche con la sua ultima raccolta, L’alveare assopito, prima classificata al concorso di poesia Faraexcelsior 2022. Del resto, il suo curriculum è costellato da numerosi e prestigiosi premi per la sua indiscutibile forza comunicativa data dai suoi versi “metallici e taglienti, incisivi e fertili”, come sono stati definiti dalla componente della giuria Ilaria Maria d’Urbano. Come la spirale evoca il flusso del tempo con i suoi vari cicli di cambiamento, così la Nostra, varcata la soglia dei Sessanta, compie un viaggio dentro sé stessa. Ci trasporta in un mondo di meditazione, di nostalgici ricordi e di una solitudine avvolta nel silenzio. Il silenzio la guida, soprattutto di notte, verso l’ascolto dei desideri più nascosti, le fa comprendere la coscienza più profonda, in un delicato alternarsi di toni, dove luci ed ombre, sogni e realtà, dolori e gioie, smarrimenti e speranze, assenze e presenze convivono e creano un equilibrio che affascina fin dai primi versi. Una foto da cui sciamano presenze, trovata per caso, suscita in lei il confronto tra la giovinezza e l’età delle rughe e la vita si srotola come fili impercettibili; apre una parentesi nella linearità del tempo e lo sospende. Insieme ad Angela Caccia si va oltre, in un’altra dimensione, si sorvola sulle frivolezze, si vola ad alta quota, mentre si seguono le nuvole che si ammatassano, mosse dal vento che inscena un teatro di ombre. La luna, di leopardiana memoria, striscia, si arrampica e nel tonfo asfalta l’opaco, disegnando la solitudine della strada. Si vive un tempo sbilanciato povero di promesse, avaro di attese, si assiste al cambio delle stagioni, soffermandosi su un agosto che evapora a colpi di coda per cedere il posto ai bucati di settembre, gli ultimi pranzi di un sole malfermo e partecipando al congedo della rondine sulla rampa ripida dell’autunno. In primavera si sbenda l’inverno, increduli che l’aria sia tornata a profumare. Alla scrittura, una lama che sfibra il foglio, così viene descritta nell’accurata prefazione di Davide Zizza, la poetessa affida i suoi sentimenti di figlia (siamo entrambe gocce pendule a un ago di pino) e di madre (ci vivremo accanto nell’orbita dell’abbraccio che conosciamo), i suoi dolori che scavano strade nel sonno, mentre riallaccia la vita alla vita e sente invecchiare il tempo a un ritmo più pigro, pervasa da una malinconia sonnolenta; le fanno compagnia le pagine sfogliate a caso della poetessa Biancamaria Frabotta, che immagina immersa nel giallo delle ginestre tra la Viandanza e l’Affeminata. Sono, queste, vibrazioni trasmesse con uno stile che si nutre del nettare magico dell’immaginazione, che si perde in ombre di antiche tenerezze nella consapevolezza che, invecchiare invecchiando è un sentimento elastico, mentre si riempiono i giorni del sole a disposizione.

“… orme / di futuro non ancora calcate”

Mariateresa Giani, L’integrità del mondo, Contatti 2022 

recensione di AR



La raccolta si dipana come un cammino di consapevolezza nel mondo fisico e metafisico, carnale e spirituale. È divisa in tre sezioni: iniziamo dall’ultima, “Verticalità della visione”, che ci porta un po’ all’esito di questo percorso dantesco e si apre con “Poesia è mistero / di sangue e respiro” (p. 53). Ecco allora che vi troviamo versi di nitore impalpabile e correlativi oggettivi ramificati, scarificati, nudi e fiammeggianti: “Al buio ho sottratto parole / a forgiare una veste alla luce” (p. 77); “Ha messo in croce la Verità: / questo è l’uomo. Eppure Cristo / lo ha reputato degno di tanto / (…) / di schiodare dal legno di morte / alla vita eterna l’anima immortale.” (Pasqua!, p. 75); “Gli alberi ostentano palchi da cervi / maestosi isolati o in branchi.” (Giornata d’inverno, p. 70)… Riproduciamo integralmente L’albero (p. 69), composizione essenziale e perfetta:

La cupola di foglie giallo-oro
s’accende di un fuoco da eruzione
solare e cede all’ecatombe
della massa di detriti inceneriti
al suolo. Lo scheletro, lambito
snudato presagisce nelle nere
ferite l’acerbo bruciore del gelo.

Spesso nei non rari endecasillabi restano impressi flash sapienziali di cui troviamo in più punti di questa raccolta empatici bagliori, sinestesie, accostamenti lessicali saporosi, immagini evocative, ossimori affascinanti. Dalla seconda sezione “Risonanze, relitti, evocazioni”: “e le parole tastano visioni che / affondano ed emergono, oniriche / e reali, sfiati d’ambiguo vero.” (Magia, p. 49); “L’anima non è uno sterile grembo, / ma un pullulare di presenze mute / che balenano – s’oscurano come lucciole” (La foresta dell’anima, p. 47); “I versi sono tenere labbra di un cuore che, assopiti i sensi, / assapora il respiro mite delle cose” (La poesia, p. 39).

Siamo infine giunti all prima sezione che dà il titolo all’intera silloge: “La volontà di farsi cibo, carne / e sangue, a nutrimento d’anime / è l’apice cristiano dell’amore” (Corpus Domini, p. 23), “Se fossi te, vorrei essere libera / nell’etere, un pensare palese, / ebbrezza pura i sensi e sottile / tanto da penetrare rocce interdette / infiltrandone l’aspro grigiore” (p. 11). A questi versi che ci proiettano oltre con il loro desiderio di resurrezione aggiungiamo l’esplicativa e intensa chiusa della poesia che apre L’integrità del mondo (p. 9): “Ho intessuto tele sospese / nel profondo-alto, dall’oscura / trama materia ho estratto, / filtrando luce emulando / l’intreccio coeso del Tutto.”

PS Nel titolo di questa recensione un passo della poesia che inizia con “Nell’anima del mondo…” (p. 33).     

Interviste a Joan Josep Barcelò e Filippo Papa a cura di Emanuela Rizzo

 


I giorni 16 e 17 marzo 2023 sulla Pagina Facebook

 

https://www.facebook.com/FeiraVirtualdoLivroPortugal

ci saranno due interviste molto importanti: 

Il 16 marzo 2023 saranno intervistati il poeta e traduttore di Palma di Majorca Joan Josep Barcelo' e l'artista performer italiano Filippo Papa. Il 17 marzo 2023 sarà intervistata l'ambasciatrice culturale internazionale messicana Marlene Pasini di origini emiliane.

Gli artisti intervistati hanno un legame molto forte con l'Emilia. Joan Josep Barcelo' e Filippo Papa sono venuti più volte a Parma per presentare i loro libri e i loro progetti artistici. Grazie al ponte culturale creato anche Marlene Pasini progetta di venire a Parma per presentare la sua arte.

Gli artisti saranno intervistati da Emanuela Rizzo ambasciatrice culturale della Fiera Virtuale itinerante in vari paesi del mondo.

Si ringraziano gli organizzatori della Fiera Alan Morales e Caesar Salvatierra e tutta l'organizzazione della Fiera Virtuale del Libro.

 

Emanuela Rizzo

 


Poesie inedite di Alberto Padovani




Una bella pioggia, non cattiva

Ha benedetto l'auto, stanotte

Donandole perle, che raccolgo

Sul cruscotto, come punti di una

Cosmica patente, da sublimare

Nella stagione estiva, sotto luna.

La stessa pioggia, brilla l'erba

Rendendola grassa, luccicano

Gli occhi del fanciullo, già perso

Nella casa di brughiera, ove sogna

Le fiere di paese e le future risse

Baluginare nel suo sguardo terso.

M'incanto da citrullo, in questa fine

Dimenticando: le guerre, lo sfacelo,

Disastri di ogni tipo, sotto la cappa

Dove l'uomo combina e aggiusta se

Può aggiustare, oppure no: lascia

Tutto andare, in questa folle nottata.

In un amen, ti racchiudo l'esistenza

La nonna del rosario, la troia sulla

Nomentana, e le segretarie incerte

Su come spendere la tredicesima

Prima che la feroce bolletta giunga

Sorda a mangiarsi vestiti e balocchi.

 

[Irish coffee]

 

 

Mi chiedi di incontrarti

Un sottosera

Dove il borgo traspira

E d’improvviso, apre

Mettendo pancia ad ovest

Dove lo sguardo

Si fa campagna

E dove pochi chilometri dopo

Via Emilia

 

Sono queste gelosie

A tenere incollati

Muri e uomini in

Un destino di grate

E sapiente dimenticanza

Che dove hai messo casa

Non ti serve più

Conoscere, e il foresto

Principia a infastidire.

 

[Le gelosie]

 

 

Mostrami, nel tuo gelido inverno

Le terre rare

No, non ritrarti, ognuno

Disvela al tempo

Le sue tetre insegne

Lungo il cammino

La persistenza in vita

Impone un costo, sul corpo

E, dopo tutto quello che viene

Definito: Amore

Nelle varie letterature

Resta il silenzio

La luce che fu

La fede cieca

Le terre rare

 

[Terre rare]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando è notte, qui

Scendono cinghiali

Li vedi tagliare, in fila

La Provinciale, lesti

Ad attraversare, come

Operai dell’ANAS

Ieri notte, il vento

Si è riposato, non

Soffiava la landa

Pulendo i residui

Di pane sciocco, dal

Borgo. Stasera invece

Taglia, come lama il tuo

Viso, la luna è offuscata

Mentre, poco più sotto

Urla l’autostrada umbra

Qualche tribù ha deciso di

Anticipare, io credo sia

Giusto aspettare, in questa

Terrazza notturna, che arrivi

L’angelo, o forse, il lupo

Nel dubbio, meglio ora

Rincasare, chiudere il portone

Del casale antico, rimesso in sesto.

 

[Notte nel casale]

 

 

Alberto Padovani nasce a Colorno (Pr) nel 1970. Si appassiona gradualmente alla poesia, e insieme alla scrittura di canzoni, attività artistiche che prosegue in parallelo, con occasioni di interazione reciproca. L’esordio come poeta è nel 2009, con “Poesie raccolte”, edito dalla locale TLC.

Nel 2010 esce “Il setaccio nel fiume” (autoproduzione), ispirato all’Antologia di Spoon River e utilizzato per diverse letture pubbliche con musica. Nel 2013 esce “La poesia sociale” (autoproduzione).  Contemporaneamente viene aperta una pagina Facebook, ancora oggi attiva: “La poesia sociale di Alberto Padovani”. Nel 2017 esce “Il Manutentore” (Zona), curato da Luca Ariano, con la collaborazione di Camillo Bacchini. Tra i riconoscimenti, il Premio “Padus Amoenus” (2011, 2012, 2019) e il Premio “Cinque Terre” (2012). Nel 2019 riceve una segnalazione al Premio Giorgi di Sasso Marconi, Sezione Poesia Originale. Partecipa a varie antologie, tra cui “Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma” (Puntoacapo, 2018)  e “Parma. Omaggio in versi” (Bertoni Editore, 2021) Nel 2022 esce per Bertoni Editore la sua quinta raccolta di poesie: “Poeti con le maniche corte” - a cura di Luca Ariano - che ha un buon riscontro di critica, suscitando vivo interesse presso il pubblico di riferimento.