lunedì 7 novembre 2022

La responsabilità dell’interpretazione


recensione di di Claudio Tugnoli


Che la vita sia una commedia ce lo ricordano tre esponenti dello stoicismo: Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. Il primo per ricordarci che non importa quanto sia lunga ma come sia stata vissuta (Epistola 77). Il secondo nel suo Manuale ci vede come attori di un dramma o commedia, la cui durata dipenderà dalla volontà del suo autore; e precisa che il nostro compito non è quello di decidere quale personaggio dobbiamo interpretare, ma solo di rappresentare bene la figura che ci è stata assegnata. Marco Aurelio (XII, 36) a chi si lamenta per la fine prossima della sua vita rammenta che poco importa per quanto tempo è stato cittadino della sua città: accade come quando un regista licenzia un attore dopo averlo assunto assegnandogli una parte nella rappresentazione. Gli uomini recitano un copione che è stato loro predisposto da qualcuno sul quale non hanno alcun potere. Devono rassegnarsi, accettando l’ignoranza che è loro richiesta rispetto al tempo precedente la nascita e a quello che seguirà la loro morte. Non possono neppure esigere un senso preciso che inquadri la loro attività di attori. Ma in ogni commedia che si rispetti oltre agli attori protagonisti intervengono le comparse, i cui movimenti ai margini sono subordinati alla resa migliore possibile della scena principale. Anche loro sono commedianti, ma solo di secondo grado. Se l’attore protagonista ha la consistenza di un’ombra poiché rinvia alla vita vera, la comparsa non può essere altro che l’ombra di un’ombra, l’immagine più persuasiva di un’esistenza del tutto insensata e accidentale, la cifra della mera insignificanza della vita umana.
Il filosofo stoico insegna ai suoi discepoli a non pretendere troppo, a comportarsi come in un banchetto nel quale è decoroso e saggio non allungare la mano per afferrare le vivande dalle portate e ancora più lodevole è non toccare cibo, atteggiamento che rende l’ospite degno non solo di sedere a mensa con gli Dei, ma anche di regnare assieme a loro. Il filosofo stoico non si concentra sulla ricerca di ciò la cui conoscenza non dipende dai comuni mortali, ma preferisce ignorare ciò che non potrà mai sapere e liberarsi dalle catene del desiderio e della paura, praticando un fatalismo che segna una differenza rispetto all’insegnamento evangelico. Il saggio stoico insegna che non si perde nulla, neppure la vita, ma si restituisce ciò che ci è stato assegnato. In Giobbe è presente l’idea della restituzione (Dominus dedit, Dominus abstulit) come pure in Matteo con la parabola dei talenti(XXV, 15-30). Per il cristiano la restituzione implica la sottomissione all’imperativo ineludibile, stabilito dal decreto divino, di restituire ciò che è stato prestato, per il saggio stoico invece la restituzione comporta il dovere e l’interesse di rassegnarsi alle leggi naturali, in obbedienza alla ragione stessa che governa tutte le cose.
La raccolta poetica di Anna Maria Ercilli si snoda come una successione di tappe che equivalgono a domande sul senso del tempo – passato, presente e futuro – domande implicite che salgono dalla fenomenologia vasta e frastagliata dei ricordi, delle sensazioni, delle parvenze, dei travisamenti, colti nella loro nudità, nella loro oggettiva e fugace immediatezza. La poesia di Ercilli rifugge dal lirismo edificante, dalla parola che consola e conforta, dall’esaltazione della luce, perché troppe ombre affollano le scene, i paesaggi e le presenze umane. Così compare «la fretta di una comparsa, / stare in scena quel tanto / che serve alla recita, / in attesa che smontino / la scena spariscano le quinte, / svuotata l’anteprima». Il compito del poeta è di non affrettarsi a colmare le 
lacune, a cucire insieme i brandelli dell’esperienza sopravvissuta nella memoria, a sua volta sempre incerta e labile – quasi una prova di lealtà verso i destinatari della sua testimonianza e di sincerità con sé stesso: quel che vedo è questo, qui è tutto il significato che conta, la sola realtà che mi è rimasta («nulla conosci di quanto vedi»). Nessuna pretesa dunque di accampare un io poetante onnisciente, ma solo l’umile ammissione che viviamo recitando un copione, senza poter vantare nulla di originariamente e indubitabilmente nostro. Nella memoria «vanno in scena le nostre pretese / proiezione di desideri /ossessioni, omicidi procurati / senza corpi, immagini / cruente, nostri incubi di gente / perbene, onesti mentitori / rivestiti d’ombra / rumore di passi». Meglio allora che «dimentichiamo di essere stati». Ercilli riesce a riprodurre nei suoi versi “difficili” gli inciampi nel dire l’indicibile e l’immemorabile affievolirsi dei ricordi e degli affetti più cari di un tempo. Tutto nella vita è condannato a sbiadire, attenuarsi, spegnersi, perdersi nel tempo; non abbiamo alcuna mappa che ci orienti. Lessico e sintassi sono piegati alla necessità di mantenere i versi aderenti alle tracce smunte, ai passaggi di un momento. Questi frammenti di esperienza erano indecifrabili allora o lo sono diventati nel tempo? Se «quello che non vedi / non esiste», ciò che si mostra è un resto ed è insondabile, ma occorre pensarlo e nominarlo in versi che restituiscano il sapore dell’incompiuto, l’insoddisfazione dell’incerto, la delusione postuma per ciò che non è stato detto e fatto a suo tempo, l’ammissione dell’irrealtà del tempo e persino del destino (che «porta sempre inatteso / il rovescio / neppure la cattiveria è reale, malessere della mente»). I rumori del mondo o ciò che rimane di essi che cosa dicono, quale ambiguo messaggio annunciano? Non sono forse incerti e indecisi come un «cancello lasciato a cigolare /chi ritorna e chi parte / rimane per questo apertochiuso / a metà»?
La differenza tra viventi e non viventi scompare sotto una coltre misteriosa di ombre, di polvere e di cenere («noi siamo cenere / soffiata nel vento, / nient’altro»). Alla diffidenza taciturna dei primi corrisponde l’inattesa emissione di «voce quasi umana» dei secondi. All’autrice che vorrebbe salutarla, una donna che passeggia di mattina in campagna, non appena sente il rumore della finestra «si gira / cala il cappuccio peloso sul viso, / scontrosa / traccia umana sullo sfondo».
La voce delle cose, che la sensibilità del poeta riesce ad ascoltare, ci rammenta che esse parlavano un tempo, ma ora non accade più. Se gli esseri umani sono comparse – ombre – gli esseri inanimati saranno ombre di ombre, visibili solo con la luce diurna. In definitiva il poeta scommette che la multiforme varietà di tutto ciò che cresce e cade (come i «maestosi tronchi / ricchi di vento pervasi di musica») rimanga «nel ricordo / della foresta, rifugio e passaggio / di giusti e perseguitati / Deus sive natura», quali modi degli infiniti attributi della sostanza infinita secondo la metafisica di Spinoza.

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