lunedì 15 aprile 2019

La guerra di… Fabio Orrico



recensione di Gianni Iasimone


In letteratura ci sono autori che scrivono e altri che sono una scoperta. La prima volta che ho letto il nome di Fabio Orrico è stato in rete, una dozzina di anni fa, precisamente in un blog da lui stesso co-creato come Scrittinediti, in una appassionata recensione cinematografica, se non ricordo male, sul cinema di Cimino o Chabrol, o giù di lì. Ecco, ricordo bene però che mi stupii nel provare una incomprensibile curiosità per quel modo di argomentare schietto e esuberante, esplicito e obliquo, e per un attimo pensai che mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Poi, dopo aver quasi dimenticato quella voglia iniziale, pur avendo continuato a leggere i suoi scritti di cinema, per strane e fortunate coincidenze della vita, ho avuto modo di incontrarlo e conoscere di persona. Al contempo, ogni volta che ho ricevuto tra le mani una delle opere della sua intensa (compulsiva?) produzione letteraria, fatta di thriller scritti da solo o a quattro mani con Germano Tarricone, o romanzi o raccolte di poesie come il “librino” Della violenza. Una guerra di nervi, uscito per i tipi di Fara Editore, mi è suonata come una conferma. La curiosità che avevo provato leggendo quella recensione era la fantasia di un avveramento di un intuito di per sé sempre incerto? È ovvio che almeno per quanto riguarda la letteratura stiamo parlando di un rischio leggero che senza danno alcuno può essere anche lasciato allo stato potenziale, diciamo: come una sana “tensione” al futuro. Per l’autore in carne ed ossa, senza attardarsi su questioni altre, l’alea è maggiore, tuttavia, da subito mi è sembrato che Fabio Orrico sia una persona che “è quella che è”, uno che non si nasconde dietro un dito, senza infingimenti, o come direbbe F.S. Fitzgerald, non ha bisogno di apparire “normale”. Uno che non ama nascondersi dietro trite convenzioni sociali e che – pure se in apparenza ontologicamente non interessato – astenendosi sempre dal giudicare, dal vivo o sulla carta, e altrettanto in rete, “sceglie” da che parte stare e “ci scuote con la sua ironia”, non di rado incitando ad agire. Del resto, a dispetto della sua appartenenza alla cosiddetta “generazione invisibile”, vanta una grande facilità di comunicazione con i media e le tecnologie digitali, a conferma che ogni cosa “mentre è non è”, come direbbe Eraclito, o forse più calzante, alla Pessoa, “nulla è, tutto coesiste”. Insomma, evitando di fare congetture sulle umane intenzioni del nostro, trattasi di un interessante esito dell’annosa questione del rapporto tra opera e autore, ancorché tra contenuto e forma. Ad esempio, Della violenza. Una guerra di nervi, silloge finalista alla I edizione del concorso “Versi con-giurati”, organizzato dallo stesso Fara editore, e pubblicata nel 2017, restituisce questa impressione e, come rimarca Alessandro Ramberti nella puntuale presentazione al libro, si può dire che Orrico con questa raccolta di poesie da subito “ci mette di fronte con partecipata (ma non compiaciuta) crudezza, con una sobrietà onesta e uno sguardo che vuole essere di con-di-visione, le zone d’ombra che sono in noi”. Scorrendo le pagine dei successivi “eterogenei” componimenti, difatti, il nostro autore, con passo a tratti lento e storto o svelto e brusco, poggiandosi su continui cambi di verso e gradazione, costruisce un mondo pervaso di violenza, talvolta in fieri più spesso come un vero e proprio incubo, fino a «sognare quello che stiamo vivendo. / “Non ho mai passato momenti come questo” hai detto / “percepire l’aria come un urto è troppo per chiunque.”». Visioni, forse, frutto di pura fervida immaginazione, o traumi fondanti, precipitanti nella strofa o nei versi seguenti non di rado contraddicenti – smascheranti – con spettacolari fratture di ritmo che, per scherzo o puro “ossessivo” piacere creativo, sovente mettono il lettore all’angolo, contro un muro, lo spingono in un vicolo cieco di paura e “fatica”. E dove sembra già di poter sentire una risatina – cinica(?) – di un “regista” misterioso. Come non pensare a un autore sicuramente caro al nostro come il miglior e compianto Roberto Bolaño, vero e proprio fenomeno letterario che tutto ha incorporato e meravigliosamente espresso più delle tante e vane voci di poeti e romanzieri del nostro tempo. Ecco, senza ombra di dubbio, anche questo lavoro di Orrico, già inguaribile cinefilo, più di ogni altra cosa, sembra voglia restituire in versi fantasmi e “allucinazioni”, immagini sovrapposte e voci che rinvengono dal fondo dell’inconscio collettivo – trasfigurate altresì nella sua passione di fine critico – lacerti di film amati come “riparazione” mitopoietica, dialoghi ora assertivi ora problematici in prima o terza persona, inquadrature, “fotogrammi” profetici come inserzioni di vita e schegge di Storia comune – irreparabile. Spietato comune destino proiettato su uno schermo nero dissolvente – lentamente – nel Nulla. In questo libro “secco” e sfuggente il tempo non è quello presente. Come più tradizionalmente succede quando si racconta una storia, all’interno del singolo testo o scorrendo man mano le pagine, scarta bruscamente, declina al passato. Ma è sempre un tempo diacronico, “spostato”. In una sorta di raffigurazione della realtà che allo stesso tempo è “luminosa” e paranoica, schizofrenica. L’insensatezza delle nostre misere esistenze su questa «terra straziata» dove «nemmeno gli innocenti, promettono, saranno graziati» è come se venisse “zoomata” da un punto di vista futuro più o meno immaginario. Un occhio sensibile che riflette da lontano sulla retina della memoria questa feroce era di violenza, questa insostenibile, assurda “guerra di nervi” e non solo, per smascherarla meglio. E di questa limitatezza umana – disumanità – non restano che macerie accatastate ai margini di vite secondarie, senza voce, come in un “racconto” della migliore narrativa nord o sudamericana o di un “angoscioso” Thomas Bernard, per intenderci. Immagini forti e desolanti – di violenza inferta o subita dall’“io” dei protagonisti, per partecipata mimesi, spesso al femminile – o dialoghi che echeggiano non vuote parole «“ma meglio morire per strada che nel letto di un ospedale. Meglio / senza parole, fossero pure solo quelle di una cartella clinica.”». E così, il linguaggio, che in apparenza cede continuamente la forma alla prosa, si carica senza sosta di poetico, si coagula nel verso lungo con frasi che suscitano il senso del tempo come spazio di interrogazione profonda, di agra messa in discussione della conoscenza. Con relativo senso di spaesamento. Imitazione involontaria di un ricordo, forse, di un’illusione, di un sogno. Schegge di uno specchio che riflettono un io narrante inadeguato e inattuale «come da un’altra / epoca. Io non sapevo (…), io non / padroneggiavo le opere come / i pensieri. Erano solo facce, segni che i bambini lasciano sul muro.» Ma forse l’immagine più reale di questo autore è quella di un detective speciale – come a un certo punto succede ai “detective perduti nella città oscura”, canta magicamente Bolaño – che, appunto, seduto al tavolino in un improbabile bar di un desolato quartiere periferico di una metropoli “distopica”, al fine di un resoconto (morale?), prende appunti materiali e immateriali sul taccuino della sua anima già stracciata, trascrivendo dialoghi, immagini in diretta o riflesse, più che per scrupolo o per dovere professionale, prima che sia troppo tardi.  La poesia – sembra dirci Fabio Orrico, come del resto attiene al suo discorso personale, di cui all’inizio di questa riflessione – certo, non giudica, e se letterariamente ammette la violenza, non può non indagarne il “non-senso”. Perché il poeta può (deve) prendersi il suo «tempo per riflettere, / entrare nel guscio della poesia / preservandone la polpa. Perché noi / siamo salvi per miracolo». E non parla solo con le parole, almeno se (si) vuole uscire dall’incubo: dell’ingiustizia, della rabbia, del rancore, della paura. Ovvero, della violenza, della guerra intima e globale, del disastro finale.

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