recensione di Gianni Iasimone
In letteratura ci sono autori che
scrivono e altri che sono una scoperta. La prima volta che ho letto il nome di
Fabio Orrico è stato in rete, una dozzina di anni fa, precisamente in un blog
da lui stesso co-creato come Scrittinediti,
in una appassionata recensione cinematografica, se non ricordo male, sul cinema
di Cimino o Chabrol, o giù di lì. Ecco, ricordo bene però che mi stupii nel
provare una incomprensibile curiosità per quel modo di argomentare schietto e
esuberante, esplicito e obliquo, e per un attimo pensai che mi sarebbe piaciuto
incontrarlo. Poi, dopo aver quasi dimenticato quella voglia iniziale, pur
avendo continuato a leggere i suoi scritti di cinema, per strane e fortunate
coincidenze della vita, ho avuto modo di incontrarlo e conoscere di persona. Al
contempo, ogni volta che ho ricevuto tra le mani una delle opere della sua
intensa (compulsiva?) produzione letteraria, fatta di thriller scritti da solo
o a quattro mani con Germano Tarricone, o romanzi o raccolte di poesie come il
“librino” Della violenza. Una guerra di
nervi, uscito per i tipi di Fara
Editore, mi è suonata come una conferma. La curiosità che avevo provato
leggendo quella recensione era la fantasia di un avveramento di un intuito di
per sé sempre incerto? È ovvio che almeno per quanto riguarda la letteratura stiamo
parlando di un rischio leggero che senza danno alcuno può essere anche lasciato
allo stato potenziale, diciamo: come una sana “tensione” al futuro. Per
l’autore in carne ed ossa, senza attardarsi su questioni altre, l’alea è
maggiore, tuttavia, da subito mi è sembrato che Fabio Orrico sia una persona
che “è quella che è”, uno che non si nasconde dietro un dito, senza
infingimenti, o come direbbe F.S. Fitzgerald, non ha bisogno di apparire
“normale”. Uno che non ama nascondersi dietro trite convenzioni sociali e che –
pure se in apparenza ontologicamente non interessato – astenendosi sempre dal
giudicare, dal vivo o sulla carta, e altrettanto in rete, “sceglie” da che
parte stare e “ci scuote con la sua ironia”, non di rado incitando ad agire.
Del resto, a dispetto della sua appartenenza alla cosiddetta “generazione
invisibile”, vanta una grande facilità di comunicazione con i media e le
tecnologie digitali, a conferma che ogni cosa “mentre è non è”, come direbbe
Eraclito, o forse più calzante, alla Pessoa, “nulla è, tutto coesiste”. Insomma,
evitando di fare congetture sulle umane intenzioni del nostro, trattasi di un
interessante esito dell’annosa questione del rapporto tra opera e autore, ancorché
tra contenuto e forma. Ad esempio, Della violenza. Una guerra di nervi, silloge finalista alla I edizione del
concorso “Versi con-giurati”, organizzato dallo stesso Fara editore, e
pubblicata nel 2017, restituisce questa impressione e, come rimarca Alessandro
Ramberti nella puntuale presentazione al libro, si può dire che Orrico con
questa raccolta di poesie da subito “ci mette di fronte con partecipata (ma non
compiaciuta) crudezza, con una sobrietà onesta e uno sguardo che vuole essere
di con-di-visione, le zone d’ombra che sono in noi”. Scorrendo le pagine dei
successivi “eterogenei” componimenti, difatti, il nostro autore, con passo a
tratti lento e storto o svelto e brusco, poggiandosi su continui cambi di verso
e gradazione, costruisce un mondo pervaso di violenza, talvolta in fieri più spesso
come un vero e proprio incubo, fino a «sognare
quello che stiamo vivendo. / “Non ho mai passato momenti come questo” hai detto
/ “percepire l’aria come un urto è troppo per chiunque.”». Visioni, forse, frutto
di pura fervida immaginazione, o traumi fondanti, precipitanti nella strofa o
nei versi seguenti non di rado contraddicenti – smascheranti – con spettacolari
fratture di ritmo che, per scherzo o puro “ossessivo” piacere creativo, sovente
mettono il lettore all’angolo, contro un muro, lo spingono in un vicolo cieco
di paura e “fatica”. E dove sembra già di poter sentire una risatina – cinica(?)
– di un “regista” misterioso. Come non pensare a un autore sicuramente caro al
nostro come il miglior e compianto Roberto Bolaño, vero e proprio fenomeno
letterario che tutto ha incorporato e meravigliosamente espresso più delle
tante e vane voci di poeti e romanzieri del nostro tempo. Ecco, senza ombra di
dubbio, anche questo lavoro di Orrico, già inguaribile cinefilo, più di ogni
altra cosa, sembra voglia restituire in versi fantasmi e “allucinazioni”, immagini
sovrapposte e voci che rinvengono dal fondo dell’inconscio collettivo –
trasfigurate altresì nella sua passione di fine critico – lacerti di film amati
come “riparazione” mitopoietica, dialoghi ora assertivi ora problematici in
prima o terza persona, inquadrature, “fotogrammi”
profetici come inserzioni di vita e schegge di Storia comune – irreparabile. Spietato
comune destino proiettato su uno schermo nero dissolvente – lentamente – nel
Nulla. In questo libro “secco” e sfuggente il tempo non è quello presente. Come
più tradizionalmente succede quando si racconta una storia, all’interno del
singolo testo o scorrendo man mano le pagine, scarta bruscamente, declina al
passato. Ma è sempre un tempo diacronico, “spostato”. In una sorta di
raffigurazione della realtà che allo stesso tempo è “luminosa” e paranoica,
schizofrenica. L’insensatezza delle nostre misere esistenze su questa «terra straziata» dove «nemmeno gli innocenti, promettono, saranno
graziati» è come se venisse “zoomata” da un punto di vista futuro più o
meno immaginario. Un occhio sensibile che riflette da lontano sulla retina
della memoria questa feroce era di violenza, questa insostenibile, assurda
“guerra di nervi” e non solo, per smascherarla meglio. E di questa limitatezza
umana – disumanità – non restano che macerie accatastate ai margini di vite
secondarie, senza voce, come in un “racconto” della migliore narrativa nord o sudamericana
o di un “angoscioso” Thomas Bernard, per intenderci. Immagini forti e desolanti
– di violenza inferta o subita dall’“io” dei protagonisti, per partecipata
mimesi, spesso al femminile – o dialoghi che echeggiano non vuote parole «“ma meglio morire per strada che nel letto
di un ospedale. Meglio / senza parole, fossero pure solo quelle di una cartella
clinica.”». E così, il linguaggio, che in apparenza cede continuamente la
forma alla prosa, si carica senza sosta di poetico, si coagula nel verso lungo
con frasi che suscitano il senso del tempo come spazio di interrogazione
profonda, di agra messa in discussione della conoscenza. Con relativo senso di
spaesamento. Imitazione involontaria di un ricordo, forse, di un’illusione, di
un sogno. Schegge di uno specchio che riflettono un io narrante inadeguato e
inattuale «come da un’altra / epoca. Io non sapevo (…), io non / padroneggiavo le
opere come / i pensieri. Erano solo facce, segni che i bambini lasciano sul
muro.» Ma forse l’immagine più reale di
questo autore è quella di un detective speciale
– come a un certo punto succede ai “detective
perduti nella città oscura”, canta magicamente Bolaño – che, appunto,
seduto al tavolino in un improbabile bar di un desolato quartiere periferico di
una metropoli “distopica”, al fine di un resoconto (morale?), prende appunti
materiali e immateriali sul taccuino della sua anima già stracciata,
trascrivendo dialoghi, immagini in diretta o riflesse, più che per scrupolo o
per dovere professionale, prima che sia troppo tardi. La poesia – sembra dirci Fabio Orrico, come
del resto attiene al suo discorso personale, di cui all’inizio di questa
riflessione – certo, non giudica, e se letterariamente ammette la violenza, non
può non indagarne il “non-senso”. Perché il poeta può (deve) prendersi il suo «tempo per riflettere, / entrare nel guscio
della poesia / preservandone la
polpa. Perché noi / siamo salvi per miracolo». E non parla solo con le
parole, almeno se (si) vuole uscire dall’incubo: dell’ingiustizia, della
rabbia, del rancore, della paura. Ovvero, della violenza, della guerra
intima e globale, del disastro finale.
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