Articolo di Lorenzo Spurio
Sulla testata online Rolling Stone alcuni giorni fa è stato
pubblicato un articolo[2] a
firma di Gianmarco Aimi dedicato al poeta
pakistano Umeed Ali dal titolo incisivo (quanto forse provocatorio) “E se il
miglior poeta italiano fosse in realtà pakistano?” nel quale viene
presentato – per pillole – un identikit del poeta Umeed Ali, attualmente residente
a Palermo in condizioni disagiate, tracciando anche elementi della sua vita
passata.
L’articolista è piuttosto convinto nel
sostenere – sulla scia di intellettuali di vario calibro – che la poesia di
Umeed Ali sia particolarmente persuasiva
ed efficace, dotata di spontaneità
e ricca di tormento per la povertà
con la quale ha sempre vissuto (e vive tuttora) a contatto ma anche di messaggi
di forte responsabilità civile
nonché di speranza.
Ho deciso, nel giorno stesso della
pubblicazione dell’articolo di Aimi, di rilanciare la notizia ponendo la giusta
attenzione sul poeta pakistano – secondo me meritorio di lettura e di maggiore
approfondimento – rilanciando anche la recensione che cinque anni prima scrissi
sul suo libro Bilancio interiore, acquistato direttamente da lui quando lo
incontrai a Palermo ad aprile 2015. Lo rincontrai, poi, casualmente, nel
capoluogo siciliano, a tarda sera, in un’afosa serata di luglio 2017, in un
momento di riposo nei pressi di via Maqueda. In quella nuova circostanza mi
propose il suo nuovo libro – non ricordo ora il titolo ma un amico che era con
me, invece, mosso da un sentimento credo di compassione, lo comprò – che per
varie ragioni decisi di non prendere. Ma fu piacevole ritrovarlo e poterci
riparlare.
Propongo a continuazione la recensione
che scrissi a Bilancio interiore (da
lui letta – allora – in anteprima e condivisa con entusiasmo) non prima di
osservare che il titolo dell’articolo di Aimi, come forse era prevedibile succedesse, non ha mancato di generare
criticità – quando non vero e proprio disappunto – in alcune persone, tra chi
ha avuto da obiettare sull’estrema distanza (e impossibilità di conciliazione)
tra la religione islamica (di cui Umeed è fedele) e la poesia in quanto campo
libero, respiro di creatività che non può derivare da un’ideologia – per alcuni
– vicina o coniugante una vena anti-democratica. Chi, invece, forse in odore di
pregiudizi razziali e da un’impostazione vistosamente eurocentrica, non ha
gradito il fatto che l’autore dell’articolo si è spinto troppo oltre, generando
egli stesso un paradosso. Valido,
ovviamente, nei termini della provocazione
– o semmai dell’invettiva[3] –
nell’individuare il miglior poeta italiano in un esponente che, di fatto, per ius sanguinis non lo è.
Mi sento di prendere le distanze da entrambe
le prese di posizioni che non condivido e che reputo non accettabili e al
contempo vorrei rammentare dell’arricchimento che nel corso degli anni – e
ancora nelle ultimi decadi – la migrant
writing, vale a dire la letteratura di autori stranieri emigrati in Italia,
sia stato rilevante al punto di aver contribuito nettamente a scrivere pagine
rimarchevoli, allargare contenuti, amplificare e ibridare linguaggi e tanto
altro. Considerare il concetto di nazionalità nei termini di supposte barriere
nazionali, che in gran parte non esistono più per l’Europa e che sono perlopiù
confini mentali, è da reputare una bieca ristrettezza dal momento che, se per
la legge non è possibile ritenersi cittadini di uno stato nel quale non si è
nati, per la letteratura molto probabilmente sì. Un poeta che da tanti anni
vive in Italia, che conosce bene il territorio, la lingua e la cultura, le
usanze della gente, che ama quel territorio e – soprattutto – che ha un
atteggiamento rispettoso e meritorio verso l’altro, non ha forse contribuito col
suo percorso esistenziale – complice la sua attitudine doma ed empatica – a
iscriversi (e ritrovarsi benvoluto e corrisposto) in un contesto che non è più
il suo, nativo e ancestrale, ma italiano e in particolare palermitano? Lascio a
chi vorrà riflessioni in merito alla questione. Non giudizi tranchant che, come spesso accade, non
sono utili per dirimere questioni.
Umeed Ali |
Dal giorno in
cui ho capito le linee della mia mano
ho cominciato a
litigare con la vita.
(34)
Il mondo è come
un bel libro
e il tempo è il
migliore maestro:
volendo, si può
imparare quasi tutto.
(110)
A testimoniare
il fatto che gli incontri migliori e che più ti arricchiscono sono sempre
quelli che capitano casualmente, o comunque senza nessuna coincidenza
prestabilita, vorrei parlare del mio incontro con Umeed Ali, un signore
pakistano della regione del Punjab, nato nel 1961 e poi emigrato in Italia in
cerca di un futuro migliore molti anni fa. Non è la sua una delle tantissime
storie di emigrati che tentano solamente di approdare in quello che ai loro
occhi può apparire come il paese di Bengodi dove lasciarsi alle spalle le
sofferenze e la povertà, ma è la vicenda amara – salda nella credenza religiosa
– di una persona dall’animo profondamente sensibile. La scrittura, il suo amore
per la poesia e la riflessione nel mondo di carta, infatti, lo ha portato a
stringere un profondo legame con la parola: le sue prime opere, scritte già
durante la sua esistenza in India, vennero scritte negli idiomi locali tra cui
l’Urdu, il Saraiki e il Punjabi.
Ho conosciuto Umeed Ali durate un ciclo
di eventi culturali che ho co-organizzato a Palermo a metà Aprile del 2015 ai
quali lui, grande amante della cultura e frequentatore della Libreria Spazio
Cultura dove si tenevano gli eventi, si è presentato interessato. Alto, dai
profondi occhi neri e dal viso di una serietà dolce e pacata, con una
generosità d’animo difficile da trovare oggigiorno si è presentato facendoci
leggere anche alcuni estratti apparsi su giornali nazionali e locali di
prestigiosi nomi che l’avevano recensito o conosciuto. Mi ha raccontato che la
sua vita non era mai stata facile e neppure in quel momento, pur trovandosi a
Palermo da alcuni amici, lo era. Era sempre alla ricerca di piccole donazioni
per potersi sostenere e inviare soldi alla sua famiglia in India. Ciò che mi ha
colpito è stata la sua voglia di parlare: di narrare di sé ma anche di saper
ascoltare le vicende altrui, cosa che raramente un recente conosciuto è portato
a fare.
Ho scoperto così che nella sua attività
di vucumprà, che ha contraddistinto
la gran parte della sua vita una volta giunto in Italia, ha praticamente
viaggiato in su e giù quasi tutta la Penisola e che conosceva città, monumenti,
collegamenti stradali e orografia ancor meglio di un qualsiasi nativo. Di esser
stato vari anni a Padova che, anche se non ha amato molto la mentalità della
gente del posto, adducendo alla loro freddezza e riluttanza, d’altro canto gli
è stata propizia perché, proprio nel Triveneto, è stato appoggiato seriamente,
per la prima volta, da associazioni, biblioteche ed enti locali che gli hanno
fatto vendere un gran numero di copie del suo libro. Della mia Regione mi ha
detto di esser stato a Jesi, Ancona, Falconara Marittima, cioè praticamente di
conoscere il territorio abbastanza bene e, si sa, un vucumprà che è costretto a muoversi di continuo e sulle sue uniche
gambe è il miglior “viaggiatore” e conoscitore degli spazi che ci possa essere
sulla Terra. Il viaggio, che non è un divertimento, è funzionale al
sostentamento ma al contempo gli permette di osservare il mondo nelle piccole
cose e di conoscere meglio le persone. In tale contesto devono essere lette le
sue considerazioni in merito alla sostanziale disparità tra un Nord freddo e
disattento ai contatti sociali ma tendenzialmente lauto nel sostegno economico
e, di converso, un Sud contraddistinto da grande spontaneità e calore ma
oculatezza (parsimonia) in termini di aiuti ricevuti. Tra i due, come già
accennato, non ha celato più volte di preferire il Meridione ed è proprio a
Palermo dove l’ho incontrato che, forse per la multiculturalità del capoluogo
siciliano e la stratificazione di popoli che nel corso del tempo si sono
prodotte, che maggiormente ha trovato sintonia.
Mi ha raccontato che ha vissuto tanti
anni a Perugia (nella quale – mi ha detto – ha intenzione di ritornarne dopo questa
sua permanenza a Palermo) della quale conserva un bel ricordo e insieme abbiamo
ripercorso i vari ambienti della toponomastica cittadina che ben conosco perché
vi ho studiato due anni. Negli anni in cui io studiavo alla Facoltà di Lettere
lui abitava poco distante da Piazza Morlacchi dove, pure, nella nota
Libreria-Casa editrice Morlacchi aveva dato alle stampe il suo libro di poesie.
Io a quel tempo mi servivo nella stessa libreria per testi universitari e
dispense.
Durante la serata del 18 aprile, in cui
alla Libreria Spazio Cultura avevamo organizzato il reading poetico dal titolo
“Grandi e Dimenticati: la poesia che non muore”[4],
Umeed ci ha letto tre sue poesie presenti nel libro o, meglio, le ha recitate a
memoria in parte chiudendo gli occhi ma dandone sempre il massimo della forza
espressiva nel suo italiano, perfetto, con lievi sentori di un difficile
percorso di apprendimento. Ci ha spiegato che nelle lingue indiane da lui
conosciute una stessa parola in base alla lettura, alla sonorità che ne
scaturisce dalla pronuncia è possibile ricavarne significati differenti,
completamente distanti tra di loro e che c’è una ricchezza lessicale
stupefacente. La sua difficoltà nell’esprimersi in italiano, negli anni, non è
stato il semplice saper tradurre da parola a parola, cosa meccanica e semplice
come potremmo fare tra una lingua neolatina e l’altra, ma andare a vedere se
nel relativo termine tradotto in italiano, in effetti, si mantenesse il
significato originario del termine, nella lingua pakistana, come lui l’aveva
inteso e creato. Un processo senz’altro difficile al quale la sua poetica,
raccolta in questo volume bilingue italiano-inglese, si è dovuta piegare ma
che, a ben vedere, non ne ha risentito in maniera troppo dura. Così scrive
nella poesia intitolata “Dal giorno in cui ho iniziato a scrivere in italiano”:
“È difficile riuscire a trasmettere i
sentimenti/ in una lingua straniera,/ perciò mi manca sempre qualche parola
giusta/ o qualche frase,/ ma quando finiscono queste lontananze, di lingua e
colore,/ siamo tutti vicinissimi” (66).
Le poesie di Umeed Ali parlano di
solitudini e lontananze, di indifferenze sociali e di disagi che si realizzano
distanti dagli occhi dei più, sotto la luce del giorno. Sono parole che
risentono dell’offesa subita, della mancanza di aiuto, dell’insensibilità e di
una divinizzazione dell’uomo contemporaneo portata all’estremo. Una società in
cui, parafrasando Orwell ma anche Sciascia delle Favole della dittatura esistono maiali (potenti) e topi (vittime)
dove i primi, in cima alla scala piramidale, gestiscono l’esistenza di tutti e non
fanno altro che incamerare ricchezze e infischiarsene di coloro ai quali per lo
meno potrebbero dare briciole dei loro “pasti” da nababbi.
In questo Bilancio interiore, che è il titolo della raccolta, Umeed si denuda
sulla carta per raccontarci la durezza di un’esistenza improntata alla continua
ricerca nell’altro di comprensione, apertura, vicinanza e curiosità. Anche la
semplice parola, il regalare una conversazione a una persona sola, depressa,
malata o denigrata può significare per essa la salvezza e al contempo
scopriremo che sarà stato un regalo anche per noi.
Il libro si apre con la poesia “Per Dio
Grandissimo” e il “Dio Grandissimo” di Umeed chiaramente è Allah anche se lui
non lo nomina e, parlando con lui di religione, ho percepito la sua
indignazione su quel viso scuro prima rilassato e di colpo compunto e
un’espressione schifata quando abbiamo parlato della nuova e grave minaccia
terroristica che riguarda il mondo tutto. La religione per questi fanatici è
solo un pretesto per ambire a qualcosa di più alto con l’aiuto di ingaggi
internazionali che forniscono armi e coperture. Li ha definiti con i peggiori
epiteti che si possano udire e ogni volta che ne fuoriusciva uno dalla sua
bocca percepivo la sofferenza di chi ha sperimentato sulla sua pelle la
violenza, la coercizione, lo sfruttamento, l’abnegazione a sedicenti logiche di
salvezza.
Umeed è il poeta del sentimento, un uomo
che, dinanzi a tante difficoltà, è riuscito a prediligere il lato umano e il
rapporto interpersonale su ciascuna cosa ed è proprio per questo che è in grado
di scorgere la bellezza, nella donna o nella natura, quando forse sarebbe più
istintivo trovare spazio nello sconforto di immagini fosche e deprimenti: “Tocca la mia fronte/ perché il profumo della
tua mano/ possa cambiare il mio destino” (28). Ed anche se la durezza di una
vita trascorsa tra difficoltà (“io faccio
sempre una dura vitaccia”, 56) e lontananze dai suoi cari è pesante da
sostenere ed Umeed ci parla dei suoi “problemi
di tutti i giorni” (34) il messaggio finale non è mai cupo, non tende al
pessimismo, né allo scoraggiamento poiché, come lui stesso sostiene in maniera
lapalissiana: “La vita è una gioia e pure
un dolore/ la vita è un’offesa e pure un amore” (46).
Per un emigrato in un paese talmente
diverso dal suo luogo di nascita e dalla sua cultura ci sarà sempre spazio al
ricordo, più o meno mesto, di ciò che ha lasciato per altre terre. Trovo che
nella poesia “Nostalgia” di Umeed sia contenuto questo sentimento di
angoscia-ossessione che lo lega a un passato distante non solo in termini
cronologici, ma spaziali, culturali e soprattutto affettivi: nella poesia
“Nostalgia” leggiamo: “Mia cara nostalgia
rimani con me/ non devi lasciarmi solo/ […]/ Se vuoi stasera andiamo insieme/
in qualche luogo particolarmente bello,/ […]/ e ti racconterò una bella poesia/
dedicata a te, mia cara nostalgia” (60).
Un libro-testamento che ci consegna
pensieri sulla vita, sul senso della stessa e su come potremmo tutti vivere
meglio se allontanassimo da noi il narcisismo che dilaga, se rifuggissimo
l’invidia e abbattessimo l’indifferenza che costruisce giganti di roccia,
monadi in sé chiuse e apparentemente autosufficienti. Nessuno è autosufficiente
a sé stesso. Nessuna famiglia. Nessuna società. Ed è così che Umeed Ali ci
interpella su riflessioni di questo tipo alle quali tutti i giorni non diamo
troppo spazio impegnati nei tanti impicci quotidiani assorbiti da una ritualità
che ci ha fatto automi: “Se tutti siamo
figli di Eva e Adamo, / come mai fra noi così mal pensiamo” (54). Due versi
linguisticamente semplici privi di retorica che non hanno la volontà di metter
a giudizio nessuno, ma di aprire alla consapevolezza in unione con una
contemplazione e profonda gratitudine verso il Dio creatore che dobbiamo
pregare, invocare e sentire vicino a noi, come un grande amico a guidarci verso
il bene mettendo fine a ciascuna idea che consacri la violenza e il sopruso tra
gli uomini: “Vergognati egoista, hai
sempre sete/ del sangue del tuo fratello innocente./ Non devi scordare che
esiste un vero potete, grandissimo/ Di universale misericordioso” (64).
I versi di Umeed riguardano verità
sacrosante che vanno scolpite sulla roccia e incise sui muri delle città
affinché restino lì, perentorie, a informarci quale può essere lo spauracchio
che dilania la comunità per chi ne svia il percorso e s’imbatte in territori
dove la moralità e il senso di rispetto sono stati relegati a categorie
inutili. La forza della parola è altisonante e diventiamo amici di Umeed
uomo-esule-vucumprà-poeta-cittadino di nessun luogo che con l’arma più potente
e persuasiva ci permette di guardare dentro di noi con più convinzione e
serietà. Il suo verso si fa ora canto, ora preghiera, ora denuncia ora sdegno e
commento critico sul mondo e nel complesso ci consegna un compendio autentico e
sofferto del suo arcobaleno emotivo che, a intervalli, riaffiora nel cielo dopo
momenti di pioggia e oscurità: “Quanto è
bello stare con se stessi,/ raccontarsi di cose profonde/ e anche ascoltare se
stessi” (92).
[1] La presente recensione al volume
di poesia Bilanci interiori / Inner Balance di Umeed Ali è stata scritta il
30/04/2015 e pubblicata su Blog
Letteratura e Cultura in data 01/05/2015 e al suo interno fa riferimento
anche all’incontro fisico avuto con il poeta il 18/04/2015 a Palermo presso la
Libreria Spazio Cultura (Macaione) in Via Marchese di Villabianca.
[2] Gianmarco
Aimi, “E se il migliore poeta fosse in realtà pakistano?”, Rolling Stone, 27/07/2020, link: https://www.rollingstone.it/cultura/interviste-cultura/e-se-il-miglior-poeta-italiano-fosse-in-realta-pakistano/526421/?fbclid=IwAR0C68QiPYYuQDdLYhiAlQM4AH7bdwr9P1rcpJF6kJ32t_fTdNNvy8jy_9U (Sito consultato il 31/07/2020
[3] Infatti Aimi propone la
questione non come definitiva e oggettivamente plausibile, ma la sottopone al
lettore nella forma di un interrogativo, vago quanto retorico, curioso quanto
difficile da appurare dopo aver letto il suo articolo. Giudizi di merito
attorno alla poetica di Umeed Ali sono stati prodotti, nel corso del tempo, da
parte di vari intellettuali che ne hanno riconosciuto qualità e forza
espressiva. Chiaramente Aimi lancia il sasso nello stagno: sta al lettore
dell’articolo farsi un’idea in merito a ciò che egli “narra” ma è chiaro che
risulta complicato – impossibile rispondere – al quesito; per lo meno se non si
sono lette le poesie del poeta pakistano. Se la sua vita tribolata fa “scena”,
effetto plot (con plausibili sentimenti di compassione e vicinanza verso
l’uomo) è anche vero che per poter esprimere una valutazione qualificata e
oggettiva, critica e analitica dell’opera, essa vada ricercata e letta.
[4] Le poesie dei poeti che presero
parte a tale reading – assieme a quelli di altri reading precedenti organizzati
dalla rivista di letteratura Euterpe e successivi organizzati dall’omonima
Associazione Culturale Euterpe di Jesi – sono stati pubblicati nel volume
collettaneo: AA.VV., Sicilia, viaggio in
versi. Antologia dei reading poetici organizzati dall’Ass. Euterpe in Sicilia
(2013-2018), a cura di Lorenzo Spurio, Associazione Culturale Euterpe,
Jesi, 25019.
Nessun commento:
Posta un commento