martedì 11 novembre 2025

Poesie velate – Intingo le dita nella parola: due nuove sillogi di Donatella Nardin


Poesie velate, Il Convivio Editore 2024
Prefazione di Giuseppe Manitta

Intingo le dita nella parola, Macabor 2025
Prefazione di Ivano Mugnaini

recensione di AR

Inizio cronologicamente da Poesie velate. In questa raccolta Donatella Nardin possiamo trovare nella poesia finale (XL a p. 60) una sorta di confessione, di dichiarazione poetica ed esistenziale che colpisce per l’intensità emotiva sempre unita a uno sguardo razionale a volo d’uccello sulla condizione umana. Bellissima la cascata di immagini e sentimenti che, con un ritmo scandito e toccante, ci avvolge in modo profondo. La poesia andrebbe citata interamente, ma mi limito ai primi 9 versi, lasciando a chi vorrà donarsi il piacere di avere in mano questo libro, la gioia di assaporarne in toto le ricchezze: “L’uccella ha incastonato nell’aria / il suo canto e ora, intingendo / l’intero piumaggio nella parola / – che del silenzio è fiamma / irraggiata e nostalgia – / dispiega ovunque canzoni / e poesie per offrire  a una inferma / visione dell’amore preziosa / la compagnia.”

La poesia precedente (p. 59), dal tono escatologico, termina così: “Riposerà nel silenzio  votivo / anche la rosa evaporata con noi oltre l’acceso / orizzonte e chissà se saremo / attesi, chissà.”

Risalendo a p. 56, ci pare di vedere Donatella a inizio giornata presso una finestra rivolta ad oriente già pronta a farsi strumento delle Muse (sempre in tensione fra entusiasmo e disincanto): “Oggi l’aurora incide versi / luminosi sulla pelle più sensibile / del mondo per farne balsamo / da appoggiare sul cuore. / (…) / È una calma apparente, / una intenerita pienezza destinata / a durare poco l’illusione del bene, / non si può dominare l’ombra / né chiedere un talento agli amori / nati già morti.”

Questa voce lagunare così attenta alle ombre, al guizzo delle lingue di luce sulle increspature dell’acqua, alla presenza fuggente eppure percepibile di chi magari ci ha lasciato, ci incanta e commuove con versi come i seguenti: “C’eri tu nel tuo dolcissimo / dire a imbiancare le ombre e i silenzi, / (…) / un ritorno in un sussurro / appena contro / l’inestinguibile cadere / nei fallimenti e nelle paure.” (p. 55); “Che si adempia il prodigio, / che finemente in me respiri la tua assenza.” (p. 47); ”tra le braccia stringevi / un esile filo di vento, / (…) / di quanta invenzione ha bisogno per vivere / la verità.” (p. 44); “– consolati madre non prova / dolore il nulla –” (p. 37); ”s’imprime nel nulla / il volo aggraziato di un colibrì / come, sulle terre straziate / da guerre e tormentim un tremore / di rose mai sbocciate intere.” (p. 26); “Scorteccia i sogni la sorte / nell’umile certezza crea / sperdimenti la foglia / caduta dai rami informi.” (p. 20).

Se il tono è per lo più elegiaco (“– anche il vento anche / il vento deposto ai piedi del tempo –”, p. 16), mantiene una sorta di vitalismo desiderante che si affida alla sublime concretezza della natura: “papaveri gialli ridenti / sui cui possa indugiare / una tenera scrittura di cieli, / arancionube felice uno sguardo / vibrante nell’epica dimessa / della quotidianità.” (p. 19). 

Bene osserva il prefatore Giuseppe Manitta (p. 7): “La parola in questa inermità [di esseri umani], si rivela uno strumento importante per fare il punto su sé stessi e sul mondo, per condurre alla meditazione e alla coscienza di un indomani incerto per il quale, però bisogna lottare.”

***

Forse troviamo in Intingo le dita nella parola alcune riposte (aperte, ovvero dilemmatiche e interrogative) alle domande “velate” della raccolta di cui abbiamo parlato qui sopra. Nella poesia eponima, che apre la silloge (p. 15), Donatella scrive: “Intingo le dita nella parola / come in una luce ribelle / per dare voce a qualche oscurità, / (…) / Compagna del mio poco / e del mio nulla, scrivo / come respiro, le note acerbe / infilate nella gola, nel pallido / gioire canto la poca vita / che mi resta e senza pelle / quel sentire clandestino / e senza un dove l’altrove / che chiama in pienezza e verità.”

Come perspicuamente osserva Ivano Mugnaini (Prefazione, p. 6): “La ferocia del tempo, la lama del ricordo che consola ma logora e lacera, gli inganni di amori esangui e solitudini inesorabili, sono ritratti qui con mano lieve ma senza sconti.”

In effetti a p. 19 Nardin fa i conti con l’impermanenza  del nostro stare al mondo (e alla relativa permanenza della poesia stessa, Foscolo docet, che può vivere solo se qualche vivente continua a pronunciarla): “Dovrebbe brindare alla vita / la vita, ai suoi teneri arcani / e invece stringe un deserto / tra i denti dove nuotano nudi / i pensieri e i luoghi feriti.”

Sono stato particolarmente colpito dall’immagine delle “violaciocche sul bordo / insonne del tempo” (p. 20), perché mio nonno le coltivava in piccole aiuole in giardino e io mi ritrovo bambino immerso in colori e odori di una estate di dodici lustri fa. Mi è facile allora immedesimarmi in poesie come L’attesa (p. 23): “Vieni, saremo solo noi due / – diceva l’ombra assisa / sulle spalle ossute del tempo – / vieni, diceva, in quel punto / perfetto di luce in cui, / affratellati, saggiare eternità e bellezza.” O Misteri (p. 30): ”Pur se avvolto nelle nebbie / fittissime dei suoi infiniti / misteri, anche il cielo sogna. / E noi invece – impoveriti / dai giorni – quando e dove / abbiamo abbandonato l’età / fertile dei sogni?” O ancora Inevase risposte (p. 35): “Macchia lo sguardo di inevase / risposte la mente, è un tracollo / improvviso intrecciato cupo / alla fronte, batte forte nel petto / un tempo bianco / che nulla trattiene e nulla dice.”

Invito chi mi sta leggendo a immergersi in queste pagine che esprimono desideri, ricordi, malinconie (un esempio fra i tanti Un mormorio a p. 38), pulsioni, timori, aspirazioni assolute… condividendo, con l’umiltà di chi ha raggiunto un stile saggiato e provato, dunque efficacissimo e illuminante, il mondo poetico di una autrice che sa accompagnarci mettendosi a nudo e invitandoci a fare altrettanto, per gettare un po’ di noi oltre di noi: “Ho cercato a lungo parole / che, nel tempo, non mutassero / pelle e colore, una materia vivente che, per darci pace, / fosse nel sempre incatenata. (Parole, p. 42); ”Fragile arpeggia la nuda scintilla / nel nevicare nell’aria una scia / di tepore per dire – in forme / medicate, leggere tra il qui / e l’altrove – dell’ineffabile  / la fame, la sete oltre ogni dolore, / oltre ogni umana mestizia.” (Gli occhi dell’anima, p. 45); “E chissà dove sarà mai questo / sempre invocato altrove / che ci insegna l’ardire / di stare qui e ora pur nella labilità.” (Un sogno assopito, p. 46); “anche nell’asprezza / più cruda, c’è una luce / che dura, è li sull’altra / sponda, dall’altra parte / del cuore.” (Dall’altra parte del cuore, p. 51); “… la vita / insegna sempre un modo / per imbrattarsi di qualchwe / azzurra felicità.” (Ci tocca l’amore, p. 52).

C’è quindi una scintilla di speranza, e finanche di fede (essendo la fede un processo di accoglienza di sé, degli altri, degli eventi… di una Grazia che per agire ha bisogno di umiltà, una fede che quindi ci è richiesto da alimentare, svuotandoci dei nostri attaccamenti effimeri ed idolatrici che ci depistano con le loro false sicurezze e simulacri): “Frana il futuro e perde chiarore / l’auorora se tutto si risveglia / capovolto come questo presente / e come tutti i presenti passati / segnati da timore e ansietà. / /…) / Cerco una sguardo innocente / (…) / petali d’insospettata gioia / tra il dentro, il fuori e accanto.” (Frana il futuro, p. 63). La poesia che chiude il libro, Qualcosa manca sempre (p. 64), ci ricorda che è proprio quando ci troviamo persi, inutili, doloranti, feriti, devastati, quando constatiamo che “nemmeno la poetante / parola sa sanare la frattura”, quando “una rondine, / con le ore tra le ali, ha smarrito / l’armonia del volo”, ecco quando sperimentiamo la nostra pochezza, possiamo al tempo stesso percepirne la preziosità e farci cassa di risonanza di una “voce sacra d’altrove che parla / con tutte le nostre voce” (Gli occhi dell’anima, cit.) 

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