lunedì 12 marzo 2018

“una promessa e una storia / mai raccontata”

Carla De Angelis, Mi fido del mare, FaraEditore, Rimini, 2017

recensione di Raffaele Urraro

http://www.faraeditore.it/html/filoversi/mifidodelmare.html
 

“Ancora una volta andrò in spiaggia / fra la schiuma e il suono delle onde / lascerò una promessa e una storia / mai raccontata // sarà una rivelazione /senza astio senza arroganza // Mi fido del mare”: così recita il testo di pag. 41 di questo libro di Carla De Angelis, ed è il testo che contiene il verso eponimo: Mi fido del mare che dà il titolo al libro, il che lo rende speciale rispetto agli altri perché contiene l’affermazione esplicativa dell’intento dell’autrice: si fida del mare al quale racconterà “una promessa e una storia / mai raccontata”. Perché al mare?
Perché il mare, con la sua “schiuma” e con il “suono delle onde”, fa da contesto paesaggistico e da sottofondo sonoro alle sue confessioni. Se ne deduce, ovviamente, che siamo di fronte a una poesia confessiva nella quale le vibrazioni dello spirito, le scosse della interiorità costituiscono il mondo da rivisitare ed esplorare. Ciò perché uno degli scopi fondamentali del fare poetico è un esercizio teso a scuotere, fin dalle fondamenta, il castello della ietà, cosa che, probabilmente, permetterà di comprendere non soltanto sé stessi ma anche il mondo circostante.
D’altra parte la stessa autrice, nella sua introduzione di pag. 11, ci suggerisce la chiave di lettura per penetrare con maggiore consapevolezza nel suo universo poetico attraverso quattro proposizioni: 1) scrive di notte, forse perché la notte garantisce il silenzio che è compagno fedele e sincero delle sue riflessioni e delle sue idee, per rievocare “luoghi, persone ed emozioni” che hanno costellato la sua esistenza; 2) scrive “per capirsi e conoscere il perché dell’esistenza”, perché concepisce la scrittura come mezzo per attuare l’analisi introspettiva che porti alla “coscienza di sé”, e quindi a “cercare il posto che mi spetta nel cerchio” (p. 15); 3) come risultato di questo processo l’autrice è pervenuta alla “consapevolezza dell’unicità e irripetibilità di ogni istante”, anche perché il tempo passa e va e non offre alcuna possibilità di fermarlo, nemmeno per un secondo; 4) la nostra poetessa e qui è enunciato un principio specificamente poetico e poietico insieme – chiarisce il senso della tipologia della sua scrittura: scrittura “trasparente per trasmettere emozioni e imparare a fare poesia e amore della vita”.
Ma vi sono altri testi metapoietici, disseminati in tutta la raccolta, che è necessario prendere in considerazione perché rappresentano una sorta di sezione a parte, nella quale Carla confessa e chiarisce altri aspetti importanti della sua poetica e della sua poesia.
A partire da quello di pag. 40 in cui confessa la tipologia della sua poesia che nasce dalla “voglia di raccontare / un ricordo finito tra i rifiuti non riciclabili”, e la sua confessione tradisce quella che è la genesi vera del suo fare poetico, che germoglia dalla osservazione del reale e dalla volontà di rappresentare il suo mondo con “colori e pennelli” a raffigurare le sue “emozioni e riflessioni”. E si tratta davvero della volontà di rappresentare il mondo, quello esterno e quello interno: “I miei versi cantano appesi a un filo / come panni al vento senza punti e virgole / metafore, impronte semplici che / si mescolano – così uno dice: // È carne o pesce, terra o mare?” (pag. 42): i versi di Carla sono “semplici”, ricchi di metafore, sì, ma facilmente interpretabili perché la sua vuole essere, programmaticamente, una scrittura “trasparente”. E metafora “semplice” è quella con la quale Carla definisce la sua ricerca sul linguaggio come un’attività tesa a “ricamare dall’alba al tramonto parole / pronte per la semina”, per la scrittura, che parte da un “filo d’erba” per inerpicarsi lungo la sua interiorità: “la risata del vento ci contagia / consacriamo quel grondare d’allegria / sull’altare della speranza” (pag. 46).
Ciò perché Carla “ama la poesia” che serve a nobilitare le parole (“sollievo della parola”) perché è proprio la sensibilità del poeta che sottrae le parole dalle loro normali tipologie semantiche per consegnarle a significazioni più alte e più ricche, e così “nascono emozioni che prima si attorcigliano / poi si dispiegano in versi” (pag. 56). E ciò è davvero un prodigio del fare poetico. A volte si passa il tempo nel “silenzio”, a guardare la “pagina bianca”che ti guarda a sua volta e sembra sfidarti fino a quando “un silenzio di vita su una pagina bianca / un racconto di stelle ad occhi chiusi / cala la penna sul foglio, sinfonia / come carezze per un tacere complice  // Tu osservi e riprendi a esplorare mani e parole” (pag. 59).
Ma c’è di più. Spesso la sfida non è tra la poetessa e la pagina bianca circonfusa di silenzio, ma tra lei e le sue parole che “sono come le pulci / quando sto per scriverle saltano via / e se le scrivo di fretta non so rileggerle” (pag.66), soprattutto quando “la distanza tra il pensiero e le parole” non è colmabile proprio perché le parole sembrano restie a farsi incastonare in un pensiero.
Infatti “ci sono parole che quando le vedi / fanno paura, pungono forte / si adagiano dentro come un masso” (pag. 102). Allora è il momento di chiedere aiuto a qualcuno, a quel “Padre nostro” forse rinnegato inconsapevolmente. Ma basta un’invocazione per risolvere il tutto: “Finisco di contare le stelle / mi avvicino di lato a quelle parole”.
Fin qui le confessioni di Carla e le finalità che vuole perseguire attraverso la scrittura poetica. Vedremo di che cosa, in realtà, si tratti. Ma già possiamo dire che i principi enunciati e le finalità dichiarate sono da considerarsi non solo legittimi e certamente condivisibili, ma anche una efficace chiave di lettura che ci permette di entrare, come si è detto, nel suo mondo poetico con più chiara consapevolezza.
Ma i principi devono essere messi in pratica. Allora vediamo come Carla sia riuscita a realizzarli, partendo da un testo, quello di pag. 14, che ci immette direttamente nel suo mondo poetico.
È un testo nel quale si parla di “emozioni”, cioè di quello stravolgimento della coscienza che la coglie nell’osservazione della realtà all’interno della quale viene a trovarsi, una realtà molteplice la cui percezione la confonde e la coinvolge con tutta l’anima: emozione significa osservare la neve che cade sui capelli (“tuoi”: di chi?) quasi danzando al ritmo di una musica “lieve” come l’ondeggiare dei fiocchi bianchi; emozione è essere sommersa dai colori (bianco, nero, verde) che abitano il bosco e la cui percezione dà alla nostra poetessa quel senso di leggerezza che le dà l’impressione di “ritrovare il cielo”; emozione è nuotare nell’azzurro dove nuotano i sogni di chi deve partire per un altrove indefinito; emozione è riempire la pagina bianca di “parole nere”, trapuntate da un raggio di sole giallo, mentre si fantastica su improbabili speranze, tra suoni, gesti e sorrisi; emozione, infine, è lasciarsi andare, uscire all’aria aperta come per assaporare un po’ di libertà, intrufolandosi nell’atmosfera della sera, quella che “confonde i sensi” e ti garantisce un po’ di serenità.
Ecco cosa sono le emozioni, quelle particolari vibrazioni dell’anima e della coscienza che ti vengono regalate dal mondo dei colori del reale e che mettono in moto il tuo spirito. Ed è proprio la scoperta del reale, la scoperta del volto e del senso delle cose che coinvolgono Carla con tutto il suo essere. Possiamo dire che questo prodigio avviene perché sembra che si realizzi quell’unità degli aspetti della natura che richiama, in certo modo, le correspondances di Baudelaire.
Ma a pag. 16 l’orizzonte della visione si allarga, ed ecco una poesia che per tanti aspetti richiama esplicitamente il poiein pascoliano, quello delle “piccole cose”: il paesaggio circostante, caratterizzato da un “soffio di luce”, da una “vanga” che scava, dalla primavera, dai “merli”, da un “odore buono” e da un “buon sapore” delle cose vicine, famigliari, abituali, il paesaggio dicevo – stimola la creazione poetica sicché “nei solchi fluttuano le parole”.
Ma il protagonismo animale non è limitato ai merli perché l’orizzonte della poetessa si allarga fino a comprendere uno stormo di uccelli che mangia il seme (pag. 17), le “formiche impazzite” che si affaticano alla ricerca di un “destino nuovo” (pag. 20), i merli che ritornano a pag. 21 mentre “danzano lontano dall’uva” perché i “tempi non sono maturi”, le “farfalle rapite dai colori” e il “battito d’ali di un passero” (pag. 23), gli uccelli che “sparlano dei pesci” (pag. 25): protagonismo animale che presenta risvolti umani, quasi un’altra umanità che ci accompagna nel duro cammino dell’esistenza, o che simboleggia nelle sue epifanie la stessa condizione umana, e che occupa la prima parte di questa raccolta di versi nella quale si nota la nostra poetessa al centro dell’universo che l’affascina e la turba, la coinvolge e la inquieta, fino a farla sentire affratellata  al destino di quegli esseri così simili a noi nei loro comportamenti.
La seconda parte della raccolta, invece, è più problematica perché Carla affonda i suoi occhi nella parte più sublime del nostro essere, nella sua anima. E qui la sua poesia si eleva di tono man mano che Carla si abbassa fino alle più ardite profondità: si affaccia sull’orlo delle cose, a volte ne ha quasi paura, altre volte, invece, con il coraggio delle parole, sfida la realtà e s’inoltra là dove soltanto la poesia ci consente di arrivare, al cuore dell’anima delle cose stesse per scavare il cunicolo sotterraneo che consente di penetrare nell’abisso più profondo, quello della propria interiorità. Infatti Carla cerca “una lama di sole / là dove tutte le porte / sono chiuse”, perché si sente tutta protesa a scardinare la crosta delle cose per scendere nelle loro ragioni e nelle loro motivazioni più profonde. La verità è che la vita, la nostra vita, che non è infinita (“non so quanto resta da vivere”, pag. 37), che ci propina, in alternanza certa, “solitudine e allegria”, che spesso ci illude o ci conforta con la promessa che si apriranno nuove strade / insieme ai sogni e al coraggio /di lasciarsi andare”, è una realtà a dimensione ridotta. E allora, poiché “il tempo è prezioso e finito / è meglio nuotarci dentro / come fosse mare” e vivere quel chiaroscuro esistenziale che ci esalta e ci deprime, ci conforta e ci inabissa.
Questo significa dovere imparare da soli il “mestiere di vivere”: “devo imparare le note / spalmare le dita per suonare / una corda, solo una corda alla volta” (pag. 38), per rendersi conto di che cosa sia veramente questa vita, che in effetti non è altro che un susseguirsi di “inquietudine” e di “allegria” (pag. 45). Perché alla fin dei conti “non sappiamo fare di più che / apprendere a vivere e a morire” (pag. 48), cosa che rappresenta il più difficile mestiere. Ciò induce ad un lavoro supplementare di ricerca di senso, chiedendosi in ogni momento che cosa sia veramente questa vita, anche se è duro ammettere che “non troverò la vita che cerco / troppi pensieri sviano la guida” (pag. 77).
E allora? La risposta di Carla: “voglio vivere il presente”, quasi uno slancio a gettarsi nelle braccia dell’esistenza e una rassegnazione di fronte a quesiti insolubili, abitati dal dubbio e da perenne incertezza.
La conclusione di questa poesia euristica, appassionata, intensa? Eccola: “Eppure amo questa vita che fa di me una persona / impreparata inquieta // Voglia di restare un po’ ragazza / studio le parole / veglio l’angelo che dorme sul fiore / cerco l’oro luccicante nel mare // Nella chioma delle nuvole intravedo / quel giallo prezioso come la fede: // Dio poi formò l’uomo con la polvere / della terra e soffiò sul volto / e divenne uomo” (pag. 105): sì, la “voglia di restare un po’ ragazza” nasce dalla voglia di affidarsi ai propri sogni, ma è anche l’ammissione della propria fragilità, che forse è davvero la più grande qualità dell’uomo, nato dalla polvere ma per natura portato dalla sua immaginazione e dalla sua fantasia a coltivare quelle illusioni che portano Carla a dire: “veglio l’angelo che dorme sul fiore”.
Volendo ora tirare le somme complessive del nostro discorso, possiamo affermare che siamo di fronte a una poesia che ha richiesto alla sua autrice fatica, ricerca laboriosa sulla parola, per esprimere un mondo, il suo, che in apparenza, ma solo in apparenza, può sembrare facile da scoprire nella sua fenomenologia più evidente, ma che il linguaggio, sofferto ma finemente elaborato, ci induce a scandagliare più in profondità alla scoperta delle sue inquietudini e delle sue incertezze. Di qui quella dolorosa visione della vita che consiste, come per tutti noi, nella privazione di qualcuno o di qualcosa. Infatti, a te Carla “la luna invidiosa della tua bellezza / quella notte si posò accanto al tuo lettino / rubò quialcosa di te /basterà la vita per ritrovarlo?” (pag. 13).

                                                                                                                            




Nessun commento: