venerdì 11 marzo 2016

Versi che innescano domande: su Fermata del tempo

Stelvio Di Spigno, Fermata del tempo, Maros y Marcos 2015

recensione di Alessandro Ramberti


http://www.marcosymarcos.com/rassegnaelementi/fermata-del-tempo/
 Questa notevole raccolta poetica ci offre una visione del mondo e di ciò che sta oltre la visione sensibile in componimenti caratterizzati da versi per lo più lunghi che hanno il ritmo della risacca: c’è un mormorio di fondo (meglio, la suggestione di una sinfonia mahleriana) che pare cullare anche i versi più doloranti, i momenti più critici, le questioni più angoscianti o sospese (non a caso l’esergo è pascaliano ed inizia con le parole “Se non ci fosse alcuna oscurità, l’uomo non sentirebbe la sua corruzione”). Il poeta si espone, ci parla di sé, delle persone che ama, di quelle che hanno comunque lasciato in lui una traccia importante (“Mio nonno, il comandante, dilaniava i giardini. / dava fuoco all’aurora…” p. 35), di luoghi, di viaggi… condivide pensieri, meditazioni, preghiere sobriamente e laicamente inserite in varie poesie. Ci offre immagini vivide, pastose e dagli accostamenti audaci: “Tracce di ferro e cemento steso male / fanno da confine all’aria angolata. Poi c’è l’orto che da sempre / s’incanta col pineto, e un mucchietto di utilitarie / che stanno in silenzio, (…)” (Faville, p. 33).
Fermata del tempo è un titolo che esercita su di me (di formazione scout) un certo fascino: mi ricorda il “fare il punto” cioè determinare la propria posizione in una mappa topografica, con tutte le interpretazioni metaforiche e allegoriche che la cosa comporta. La prima sezione si intitola “La stessa faccia” ed è composta di 7 brevi (sei o sette versi) movimenti con un titolo fra parentesi (sottrazione) che si direbbe tautologicamente rivelatore di un mancanza, di un vuoto. Nel secondo movimento è scritto: “il volto è sempre quello mentre / il corpo se n’è andato” (p. 17). Forse questo distico può essere una chiave della raccolta?
La seconda sezione, “Le radici sepolte” (di sapore ungarettiano?), ha in esergo versi di Drummond de Andrade (“La festa è finita, / la luce si è spenta…”) che esprimono molto bene la saudade, e si apre una poesia che esprime il desiderio del paradiso ove possano essere ricomposti gli affetti “insieme nel puro silenzio” e “senza dovere niente alla fatica e al lutto / al mancare interno e al rischio dell’eterno” (p. 23). Mi ha qui colpito non tanto il desiderio di essere “per sempre nello stesso giorno / magari d’infanzia o adolescenza” (di questo parla ad esempio anche Fabrice Hadjadj ne Il paradiso può attendere, Lindau 2013), ma l’immaginare il paradiso come “puro silenzio” mentre, specie da un poeta, ci si attenderebbe più la consueta immagine di un iperspazio fuori tempo (siamo comunque al di là dello spazio-tempo) ripieno di musica sublime. Forse Di Spigno privilegia un fermo-immagine, un silenzio assoluto che accolga (come il bianco i colori) tutte le musiche e tutti i movimenti?
Nella poesia successiva, Parole da libro dell’infamia (p. 24) ho sottolineato questi versi che credo rivelino un po’ i segreti della sua officina poetica: “Le parole si svelano con gli anni. Prima / sono vento che tace. Quanta luce è possibile che passi / da corpo a un altro, da una mente a un’anima, perché diventi sé stessa e non un’altra”. Li trovo di una sfolgorante bellezza e ancora una volta abbiamo una metafora (o meglio una kenning, come ci ha rivelato Borges) del silenzio: “Vento che tace” potrebbe suggestivamente essere il nome “indiano” di Stelvio.
In Prosa della madre incantata (p. 30) troviamo i versi: “Era una donna e insieme una finestra, mai cresciuta. / (…) / Una volta l’ho raggiunta nel ’70: / non sono ancora nato ma parliamo, / sento la sua pietà come il suo sonno”. La poesia emana nel complesso bagliori tragici, anche se il registro scelto e molto anglosassone.
I
n Faville (p. 34) il poeta canta: “Qui voglio morire, perché l’anima piagata / non trova né una donna né un luogo migliore / per dare tutta sé stessa  al silenzio finale dei vecchi. / La compagnia dei fiori di campo mi farà / da corteo funebre e l’Irpinia, lontana e senza foschia, / intonerà un concerto come solo il vento, / incastonato tra i rami dei pini e i trifogli argentati, / sa fischiare tra i corridoi immensi delle case, / anche se preferirei il fuoco delle stoppie / per capire se Dio mi è stato amico negli anni di vigilia.” Mi sembrano versi dai molteplici echi biblici: il “vento” mi ricorda lo spirito di Dio e la sua energia vitale e creatrice, “l’anima piagata” il Salmo 41/42 (Come una cerva anela…); “il fuoco delle stoppie” il roveto ardente di Esodo 3… Sono poi menzionati luoghi cruciali probabilmente da annoverare fra le “radici sepolte”. 
Nella sezione “Napoli rivisitata” la poesia Senza vergogna ci offre un esempio particolarmente intrigante della poetica del Nostro, giocata su un umorismo venato di drammaticità, su un’autoironia che denuncia al tempo stesso con giornalistica precisione le cose che non vanno in te e nel mondo “fuori” (un mondo che non rado è davvero “fuori di sé”), le questioni che ci smuovono e pungolano e al tempo stesso ci bloccano sulla soglia delle scelte: “… Vorrei vivere poco, / ma dopo mi resterebbe, seppure in paradiso, / troppa curiosità. Sono tutto e il suo contrario, / l’arte di tenermi insieme è più difficoltosa / dei primi gorgheggi quando studi canto” (p. 43). E alla fine si parla delle lacrime che scaturiscono dal vedere al proprio posto nel coro i nuovi adolescenti: il ricordo del poeta adolescente gli fa piangere lacrime più amare di quelle “del primo vagito”: entrare nella vita è (solo) amaro pianto? 
Ed eccoci cursoriamente arrivati alla sezione “I testimoni”. Da Preghiera del mezzogiorno (p. 53) estraiamo questi versi: “Sarebbe magnifico evaporare, / essere fiore, strada, frontiera, / ascoltare quello che dicono i risorti / con la loro voce di gloria, col permesso / del paradiso in persona, sarebbe intramontabile, / la gioia di lasciare il corpo, assestare la mente, / annientarla nella luce oltremontana, dire credo / che qualcosa cambierà…”. La morte è il frutto di tutta una vita, come diceva un poeta tedesco… 
In Trastevere ore quindici (p. 63) è scritto: “ci assomigliamo ma qualcosa ci divide, / e questa cosa è la parola che invece condivide”. C’è dunque una parola “diabolica”, mentre la vera parola (magari con la P maiuscola) abbraccia? 
Nella sezione “Generazione mortale” che si apre con una citazione di Isaia 22,13 di sapore qoheletiano (v. in particolare il cap. 3: “Ogni cosa ha il suo momento, ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo: Tempo di nascere e tempo di morire, / tempo di piantare e tempo di sradicare, / tempo di uccidere e temo di curare / tempo di demolire e tempo di costruire, / tempo di piangere e tempo di ridere / (…)”, versione Edizioni San Paolo 2014), a p. 68 si invoca il perdono di Dio. A p. 71 si constata che “La vita è tutta un debito. Attorno è terra bruciata. / L’uomo deve vivere, invece sopravvive”. A p. 73 (Trentasette primavere, interessante la coincidenza dell’inversione delle cifre) il poeta fa il punto del suo cammino e confessa che “A trent’anni la vita si spezza e non si rialza. Lo vedo da me, / coricato in questa clinica per dementi di cuore, per afflitti / da vene in coma e otturazioni di arterie. Dicono: realizzati”. A p. 78, pensando ai suoi cari defunti, Stelvio scrive che “la parete della morte / non si fa attraversare. Loro sono oltre, io dall’altra / parte, non se se partire, restare, pregare / per una vita breve”.  A p. 81, in Ballata del giorno normale (scritta in corsivo forse perché musicale?) attesta che “Siamo una specie senza predizione. / E col presente non va meglio: / cos’è questo tutto che mi circonda, / quanto e larga la parola destino, / quando incontrerò qualcuno / che mi somiglia. // Anima, sole, castrazione / di ogni volontà”. Ecco ci pare significativamente sotteso un significativo rapporto con la fede: una scommessa pascaliana e/o nell’incarnazione troviamo davvero amico e prossimo nel prossimo Colui in cui vale la pena di “ricapitolarci”? 
Nella penultima sezione, “La buona maniera“, nella poesia Nautica popolare, si rievoca il mito di Ulisse: “… a niente, se ci pensi, servono gli uomini, / se non hanno nel cuore un luogo eletto, / una patria o nazione immaginaria, dove fuggire”. Forse la poesia stessa è per Di Spigno questo luogo eletto. 
L’ultima sezione, “Lettera di una badante”, consta di un solo componimento intitolato (lento con grazia), attribuito a una badante ucraina la quale, dolo la morte della vostra zia che la chiamava figlia, vi chiede: “ricordatemi tra una preghiera / e l’altra, se non vi è di disturbo, / chiamatemi quando viene sera: / il mio numero l’ho lasciato a Elvio, / so che è fuori, ma vedrete che torna” (pp. 102-103). Immagino che Elvio sia lo stesso Stelvio. Questo congedo sembra chiedere al lettore di non essere dimenticato: certo tutto il libro è una intensa richiesta di senso e di amore, un andare in cerca di tracce che vengono dall’alto; un ricomporre con estrema onestà ed empatia il puzzle di una esistenza, dei suoi momenti più critici e delle sue sorprendenti bellezze in cui si fa spazio, sia pur fra le inevitabili tenebre in cui ad ognuno è “affidata” una croce, la grazia che fa della croce una scala e un abbraccio, aprendoci gli occhi e le orecchie ai bisogni di coloro che spesso è più comodo lasciare con loro ferite al bordo della strada.

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