Stelvio Di Spigno, Fermata del tempo, Maros y Marcos 2015
recensione di Alessandro Ramberti
Questa notevole
raccolta poetica ci offre una visione del mondo e di ciò che sta oltre la
visione sensibile in componimenti caratterizzati da versi per lo più lunghi che
hanno il ritmo della risacca: c’è un mormorio di fondo (meglio, la suggestione
di una sinfonia mahleriana) che pare cullare anche i versi più doloranti, i
momenti più critici, le questioni più angoscianti o sospese (non a caso
l’esergo è pascaliano ed inizia con le parole “Se non ci fosse alcuna oscurità,
l’uomo non sentirebbe la sua corruzione”). Il poeta si espone, ci parla di sé,
delle persone che ama, di quelle che hanno comunque lasciato in lui una traccia
importante (“Mio nonno, il comandante, dilaniava i giardini. / dava fuoco
all’aurora…” p. 35), di luoghi, di viaggi… condivide pensieri, meditazioni,
preghiere sobriamente e laicamente inserite in varie poesie. Ci offre immagini
vivide, pastose e dagli accostamenti audaci: “Tracce di ferro e cemento steso
male / fanno da confine all’aria angolata. Poi c’è l’orto che da sempre /
s’incanta col pineto, e un mucchietto di utilitarie / che stanno in silenzio,
(…)” (Faville, p. 33).
Fermata del tempo è un titolo che esercita su di me (di
formazione scout) un certo fascino: mi ricorda il “fare il punto” cioè
determinare la propria posizione in una mappa topografica, con tutte le
interpretazioni metaforiche e allegoriche che la cosa comporta. La prima
sezione si intitola “La stessa faccia” ed è composta di 7 brevi (sei o sette
versi) movimenti con un titolo fra parentesi (sottrazione) che si direbbe tautologicamente rivelatore di un
mancanza, di un vuoto. Nel secondo movimento è scritto: “il volto è sempre
quello mentre / il corpo se n’è andato” (p. 17). Forse questo distico può essere
una chiave della raccolta?
La seconda sezione,
“Le radici sepolte” (di sapore ungarettiano?), ha in esergo versi di Drummond
de Andrade (“La festa è finita, / la luce si è spenta…”) che esprimono molto
bene la saudade, e si apre una poesia
che esprime il desiderio del paradiso ove possano essere ricomposti gli affetti
“insieme nel puro silenzio” e “senza dovere niente alla fatica e al lutto / al
mancare interno e al rischio dell’eterno” (p. 23). Mi ha qui colpito non tanto
il desiderio di essere “per sempre nello stesso giorno / magari d’infanzia o
adolescenza” (di questo parla ad esempio anche Fabrice Hadjadj ne Il paradiso può attendere, Lindau 2013),
ma l’immaginare il paradiso come “puro silenzio” mentre, specie da un poeta, ci
si attenderebbe più la consueta immagine di un iperspazio fuori tempo (siamo
comunque al di là dello spazio-tempo) ripieno di musica sublime. Forse Di
Spigno privilegia un fermo-immagine, un silenzio assoluto che accolga (come il
bianco i colori) tutte le musiche e tutti i movimenti?
Nella poesia
successiva, Parole da libro dell’infamia
(p. 24) ho sottolineato questi versi che credo rivelino un po’ i segreti della sua
officina poetica: “Le parole si svelano con gli anni. Prima / sono vento che
tace. Quanta luce è possibile che passi / da corpo a un altro, da una mente a
un’anima, perché diventi sé stessa e non un’altra”. Li trovo di una sfolgorante
bellezza e ancora una volta abbiamo una metafora (o meglio una kenning, come ci ha rivelato Borges) del
silenzio: “Vento che tace” potrebbe suggestivamente essere il nome “indiano” di
Stelvio.
In Prosa della madre incantata (p. 30) troviamo
i versi: “Era una donna e insieme una finestra, mai cresciuta. / (…) / Una
volta l’ho raggiunta nel ’70: / non sono ancora nato ma parliamo, / sento la
sua pietà come il suo sonno”. La poesia emana nel complesso bagliori tragici,
anche se il registro scelto e molto anglosassone.
In Faville (p. 34) il poeta canta: “Qui
voglio morire, perché l’anima piagata / non trova né una donna né un luogo
migliore / per dare tutta sé stessa
al silenzio finale dei vecchi. / La compagnia dei fiori di campo mi farà
/ da corteo funebre e l’Irpinia, lontana e senza foschia, / intonerà un
concerto come solo il vento, / incastonato tra i rami dei pini e i trifogli
argentati, / sa fischiare tra i corridoi immensi delle case, / anche se
preferirei il fuoco delle stoppie / per capire se Dio mi è stato amico negli
anni di vigilia.” Mi sembrano versi dai molteplici echi biblici: il “vento” mi
ricorda lo spirito di Dio e la sua energia vitale e creatrice, “l’anima
piagata” il Salmo 41/42 (Come una cerva
anela…); “il fuoco delle stoppie” il roveto ardente di Esodo 3… Sono poi
menzionati luoghi cruciali probabilmente da annoverare fra le “radici sepolte”.
Nella sezione
“Napoli rivisitata” la poesia Senza
vergogna ci offre un esempio particolarmente intrigante della poetica del
Nostro, giocata su un umorismo venato di drammaticità, su un’autoironia che
denuncia al tempo stesso con giornalistica precisione le cose che non vanno in
te e nel mondo “fuori” (un mondo che non rado è davvero “fuori di sé”), le
questioni che ci smuovono e pungolano e al tempo stesso ci bloccano sulla
soglia delle scelte: “… Vorrei vivere poco, / ma dopo mi resterebbe, seppure in
paradiso, / troppa curiosità. Sono tutto e il suo contrario, / l’arte di
tenermi insieme è più difficoltosa / dei primi gorgheggi quando studi canto”
(p. 43). E alla fine si parla delle lacrime che scaturiscono dal vedere al proprio
posto nel coro i nuovi adolescenti: il ricordo del poeta adolescente gli fa
piangere lacrime più amare di quelle “del primo vagito”: entrare nella vita è
(solo) amaro pianto?
Ed eccoci
cursoriamente arrivati alla sezione “I testimoni”. Da Preghiera del mezzogiorno (p. 53) estraiamo questi versi: “Sarebbe
magnifico evaporare, / essere fiore, strada, frontiera, / ascoltare quello che
dicono i risorti / con la loro voce di gloria, col permesso / del paradiso in
persona, sarebbe intramontabile, / la gioia di lasciare il corpo, assestare la
mente, / annientarla nella luce oltremontana, dire credo / che qualcosa
cambierà…”. La morte è il frutto di tutta una vita, come diceva un poeta
tedesco…
In Trastevere ore quindici (p. 63) è
scritto: “ci assomigliamo ma qualcosa ci divide, / e questa cosa è la parola
che invece condivide”. C’è dunque una parola “diabolica”, mentre la vera parola
(magari con la P maiuscola) abbraccia?
Nella sezione
“Generazione mortale” che si apre con una citazione di Isaia 22,13 di sapore
qoheletiano (v. in particolare il cap. 3: “Ogni cosa ha il suo momento, ogni
evento ha il suo tempo sotto il cielo: Tempo di nascere e tempo di morire, /
tempo di piantare e tempo di sradicare, / tempo di uccidere e temo di curare /
tempo di demolire e tempo di costruire, / tempo di piangere e tempo di ridere /
(…)”, versione Edizioni San Paolo 2014), a p. 68 si invoca il perdono di Dio. A
p. 71 si constata che “La vita è tutta un debito. Attorno è terra bruciata. /
L’uomo deve vivere, invece sopravvive”. A p. 73 (Trentasette primavere, interessante la coincidenza dell’inversione
delle cifre) il poeta fa il punto del suo cammino e confessa che “A trent’anni
la vita si spezza e non si rialza. Lo vedo da me, / coricato in questa clinica
per dementi di cuore, per afflitti / da vene in coma e otturazioni di arterie.
Dicono: realizzati”. A p. 78, pensando ai suoi cari defunti, Stelvio scrive che
“la parete della morte / non si fa attraversare. Loro sono oltre, io dall’altra
/ parte, non se se partire, restare, pregare / per una vita breve”. A p. 81, in Ballata del giorno normale (scritta in corsivo forse perché
musicale?) attesta che “Siamo una specie senza predizione. / E col presente non
va meglio: / cos’è questo tutto che mi circonda, / quanto e larga la parola
destino, / quando incontrerò qualcuno / che mi somiglia. // Anima, sole,
castrazione / di ogni volontà”. Ecco ci pare significativamente sotteso un
significativo rapporto con la fede: una scommessa pascaliana e/o
nell’incarnazione troviamo davvero amico e prossimo nel prossimo Colui in cui
vale la pena di “ricapitolarci”?
Nella penultima
sezione, “La buona maniera“, nella poesia Nautica
popolare, si rievoca il mito di Ulisse: “… a niente, se ci pensi, servono
gli uomini, / se non hanno nel cuore un luogo eletto, / una patria o nazione
immaginaria, dove fuggire”. Forse la poesia stessa è per Di Spigno questo luogo
eletto.
L’ultima sezione,
“Lettera di una badante”, consta di un solo componimento intitolato (lento con grazia), attribuito a una
badante ucraina la quale, dolo la morte della vostra zia che la chiamava
figlia, vi chiede: “ricordatemi tra una preghiera / e l’altra, se non vi è di
disturbo, / chiamatemi quando viene sera: / il mio numero l’ho lasciato a
Elvio, / so che è fuori, ma vedrete che torna” (pp. 102-103). Immagino che
Elvio sia lo stesso Stelvio. Questo congedo sembra chiedere al lettore di non
essere dimenticato: certo tutto il libro è una intensa richiesta di senso e di
amore, un andare in cerca di tracce che vengono dall’alto; un ricomporre con
estrema onestà ed empatia il puzzle di una esistenza, dei suoi momenti più
critici e delle sue sorprendenti bellezze in cui si fa spazio, sia pur fra le
inevitabili tenebre in cui ad ognuno è “affidata” una croce, la grazia che fa
della croce una scala e un abbraccio, aprendoci gli occhi e le orecchie ai
bisogni di coloro che spesso è più comodo lasciare con loro ferite al bordo
della strada.
Nessun commento:
Posta un commento