Nino Aragno Editore 2014
pp. 74, € 8,00
Questa raccolta divisa in tre parti è un album sui generis. I ricordi di infanzia, gli affetti, le persone care, le idee, le azioni, gli accadimenti, le feste, le cerimonie, le malattie, i viaggi, i lutti, i racconti, gli oggetti “reagiscono” all'emulsione (epica, filosofica, religiosa, letteraria…) del poeta offrendo al lettore una scrittura che ha stile, una poesia che non disdegna endecasillabi e settenari e sa creare immagini potenti:
“facciamo della polvere la nostra / carta e delle lacrime l'inchiostro / con cui scrivere dolore sul seno // della terra. Nominiamo i notari / (…) / E non possiamo dire nulla nostro / se non la morte e questo / calco d'infeconda terra che serve // da collante e da guaina alle nostre ossa.” (Presso il castello di Barkloughly, p. 9, questi versi sono una traduzione/riscrittura di una parte del Riccardo II di Shakespeare)
“I sassi mi mancheranno – l'ottusa // resistenza della selce sul letto / dello Scamandro – e gli arrosti frugali / che precedono vittorie o disfatte.” (Aiace è morto, p. 10)
“Sono i giorni dei plurimi caffè / dei portamantelli occupati / del campanello in allarme costante // della morfina, del decubito, / delle traverse, dell'attesa, / dei guanti di latex, di pianti e cannucce. // È il tempo in cui la carne declina / in terra (…)” (Si parlava di tombe, d'epitaffi III, p. 17)
“Nel nostro sangue schiarito dal mare / nelle nostre ginocchia sefardite / nel destino boreale del piede / (…) / nell'intuito dei fratelli, negli occhi / delle mi figlie ti rivedo padre / (…) / quando a inquieti adolescenti sbucciavi // il codice futuro: / siate esatti nell'anima, imperfetti / nell'aderire, audaci nell'attesa.” (Tra arance e filosofi, p, 19)
“Dopo la tua morte mi raccontarono / che il giorno in cui sarei dovuto nascere / scendesti in jeep verso la capitale / Lusaka, per un paio di minuti” (Zambia II Lusaka, p. 21)
“Ora che non ci sei, penso alle carte / topografiche, alle planimetrie /aperte sul cofano del tuo pick-up, // al compasso, i tuoi occhiali da sole, / ai libri notturni, alle irritazioni / del tuo stomaco da geometra anarchico.” (ivi, III Polaroid, p, 22)
“Da piccolo avevo una passione spropositata per questo pacco di muscoli meccanici.” (Trattore, prosa, p. 27)
Nella parte II, di taglio “scientifico”, troviamo la prosa Entrecȏte in cui l'Autore parla del suo “debole per la carne”: “L'entrecȏte è carne in sé e per sé, senza altra funzione che mantenersi, tenersi. (…) Qui si nasconde forse uno dei motivi per cui il Redattore del Genesi abbia scelto di tagliare Adamo precisamente lì, tra le costole, entre-cȏte, per prelevargli l'osso riproduttore. In quel settore del vivente la carne è a tal punto sé stessa da divenire quasi un'idea: è carne allo stato puro, è tessuto organico privo di altra funzione se non il mantenersi e crescere, è ciò che (…) ci preserva dall'esplodere, dal confonderci in un macro-organismo amorfo, ciò che allo stesso tempo ci rende uguali e distinti” (pp. 36-37).
A questa segue una prosa poetica dedicata alla Nube:
“Un'idrometeora (…). Accessorio prediletto dell'indicibile celeste, la nube è velo che protegge e corregge (…). La nube è più seria della nuvola: la sua perfezione è sillabica apre e chiude volte d'esistenza, (…) è la ‘u’ del sussulto e del dubbio, la ‘e’ dell'esserci e della fine. (…) la nube è biblica, presocratica e guerriera, le nuvole sono punteggiatura meteorologica (…)” (pp. 38-39).
La III parte sembra più leggera, amorosa, giocosa, per quanto venata sempre di malinconia. Ad esempio, “un quadretto ingiallito” e forse anonimo riesce a scavalcare i dubbi della ragione con “un sole fosco nelle nebbie, sopra / una moltitudine di conifere / come chirotteri appese alla luce incrinata della fine” (Non la saggezza del legno tornito, p. 52).
Come si può evincere dai lacerti qui sopra strappati a L'impronta, Federico Italiano è perfettamente calato nel nostro tempo e sa al contempo dar vita ad immagini-emozioni di grande presa, appoggiandosi sul ritmo esatto di una metrica classica oppure sull'onda più lunga di una narrazione di ascendenza biblica asciutta e brulicante di echi che attraversano i generi letterari: “L'oratore, uno svedese dal pizzo / cartesiano, esordì con un aneddoto: / (…) un etologo // avvistò la chilometrica impronta / del piede destro dell'Onnipotente. // (…) Stimando l'estensione della traccia / podalica, per grande parte sommersa // calcolò l'altezza / dell'Essere pari a sessantatré // chilometri. Un nonnulla, / concluse, paragonato alla taglia // fornitaci dal profeta che scrisse: / «uno sgabello ai suoi piedi è la terra // e il cielo la sua poltrona gloriosa». / «Ma questa», concesse, «è solo poesia»:” (Symposium V Alaska, pp. 59-60).
Ci piace concludere questa nota con questi versi: “Non sono due crimini – // poesia ed errore – ma le facce / di un'unica medaglia: / (…) / e non c'è poesia alcuna // senza fraintendimento.” (ivi, VII Carmen et error, p. 62).
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