Prefazione di Ennio Grassi
Fara Editore
www.faraeditore.it
Poesia dialettale con traduzione in italiano a fronte
Collana Nefesh
Pagg. 86
ISBN 978 88
97441 49 6
Prezzo € 11,00
recensione di Renzo Montagnoli pubblicata in Arteinsieme.net
Il dialetto è un idioma tipicamente locale e fino a
non molto tempo fa era utilizzato più frequentemente della lingua italiana. Al
riguardo, da un’inchiesta ministeriale del 1910 risultò che oltre la metà degli
insegnanti delle elementari ricorreva al dialetto per le lezioni quotidiane. Il
fatto fece scalpore, furono presi immediati provvedimenti e in pochi anni il
vernacolo venne bandito dagli istituti scolastici. In un paese come il nostro in cui lo spirito
unitario è sempre stato carente è comprensibile quindi che sia fatta leva, onde
creare una popolazione omogenea, sull’uso di una sola lingua, appunto
l’italiano. Poco a poco il dialetto venne confinato a entità ristrette,
assumendo a volte le caratteristiche di un linguaggio arcaico che pochi
appassionati si ostinavano a mantenere. Come in vernacolo c’erano le prose, si
avevano anche le poesie, anzi entrambe le forme espressive esistono ancora oggi
(ricordo che fino a pochi anni fa a Mantova c’era un vero e proprio Festival
delle commedie dialettali). E se spesso
associamo al vernacolo una narrativa o una poesia di limitato spessore, sovente
tesa, anche con toni un po’ volgari, a sollecitare la facile risata, non vi è
però da dimenticare che ci sono stati poeti dialettali di rilevante valore
(Trilussa e Totò, per citarne i più noti). Quindi anche la poesia in vernacolo,
purché si tratti di componimenti non banali, ma votati a messaggi non di rado
profondi, ha una sua dignità, pur restando un problema di base che è la sua non
facile comprensibilità in tutte le zone d’Italia, con l’eccezione dei versi in
napoletano e in romanesco, dialetti discretamente conosciuti anche al di fuori
delle località d’origine. Affinché tutti potessero comprendere è intervenuto
opportunamente l’uso di accompagnare al testo in vernacolo la traduzione in
italiano, che però risulta meno efficace di certi linguaggi locali
nell’esprimere concetti e situazioni.
A questo punto ci si chiederà il perché di questo
lungo preambolo e al riguardo si potrà comprendere dal mio commento critico che
segue subito.
È cino – la gran bòta – la s-ciuptèda è una raccolta di poesie in dialetto romagnolo che
Gianfranco Miro Gori, l’autore, ha pubblicato con
l’editore Fara di Rimini, quindi perfettamente nella
zona del vernacolo utilizzato. Quanto sia importante la traduzione a latere è
testimoniato dal fatto che il titolo mi aveva indotto a pensare a un certo
Gino, che prende una gran botta e poi una schioppettata. Niente di più sbagliato
perché cino sta per Il cinema, la gran bòta per Il gran botto e solo la s-ciuptèda
ha un significato comprensibile, cioè la schioppettata.
Questa raccolta è articolata in tre tematiche, di cui
quella preponderante è il cinema, e non poteva essere altrimenti visto che Gori ha ideato e diretto la Cineteca di Rimini. In effetti,
cino è un omaggio al cinematografo, non a quello
di oggi che ne vede forse gli ultimi bagliori, ma a quello di ieri, in una
sorta di Nuovo Cinema Paradiso e di Amarcord. E’ una
rievocazione commossa delle sale di un tempo, fumose, anche chiassose, per
quello che all’epoca non era uno spettacolo, ma Lo Spettacolo. E così come i
fotogrammi di una pellicola i versi ci raccontano la storia del cinema fino
all’amara conclusione che sembra segnare la fine di un mondo (Il cinema è morto, / Il dialetto è morto./ O
/ ruzzolano entrambi / più o meno / nel vociare della televisione / nel
chiacchiericcio di Internet). Insomma è finita un’epoca pionieristica, in
cui si ragionava anche con il cuore, ed è trionfante il periodo tecnologico,
che, inaridita l’anima, sta anche congestionando la mente. Sì, è una fine, ma
questa terra, questo mondo in cui viviamo, com’è nato? Grazie al gran botto, al
big bang ha cominciato a formarsi la Terra, si è sviluppata, e anche se non
possiamo avere la misura del tempo che è stato necessario, alla fine è quello
che ci ritroviamo, noi compresi. Sono originali le poesie che parlano in
pratica della creazione e rivelano che l’autore qui ha un chiaro intento
didascalico, perché sapere da dove veniamo serve per conoscere dove andremo.
Scopi legati alla sua terra e in particolare al suo
paese natio San Mauro Pascoli sono all’origine delle ultime due poesie (Il morto ammazzato e L’assassino) e parlano di un fatto vero,
dell’omicidio di Ruggero Pascoli, padre del grande poeta Giovanni. Hanno la
voce del cantastorie, il sapore di un tempo passato che, ahimé,
mai più ritornerà.
Nel complesso il libro mi è piaciuto, per quanto sia
impossibilitato a esprimere un giudizio compiuto sullo stile, stante la mia
modesta conoscenza del dialetto romagnolo che influenza tuttavia solo in minima
parte la gradevolezza, poiché ho preferito abbandonarmi alle caratteristiche e
simpatiche inflessioni; il contenuto, peraltro, non è da poco, affronta temi,
quali la memoria e il mistero della creazione, senza scivolare nel banale o in
cose più che risapute, ma con una sua personale visione in cui in più di
un’occasione mi sono ritrovato.
Quindi, l’invito è a leggerlo, perché ne vale la
pena.
Gianfranco Miro Gori, nato a San Mauro Pascoli
(11.8.1951), ha ideato e diretto la Cineteca del Comune di Rimini ed è stato
sindaco di San Mauro Pascoli. Organizzatore di festival e manifestazioni
culturali in patria e all’estero, ha pubblicato molti saggi (dedicati
soprattutto al cinema ma anche a Giovanni Pascoli e Secondo Casadei), tre
raccolte di versi in dialetto (Strafócc, Chiamami Città, Rimini 1995; Gnént, Pazzini,Verucchio 1998;Cantèdi, Mobydick, Faenza 2008) e un romanzo (Senza movente, Mobydick, Faenza 2000). Attualmente è presidente di Sammauroindustria, associazione
culturale da lui progettata.
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