Moretti & Vitali,
Milano, 2013
recensione di Maria Luisa Eguez
Diario di un amore, storia in versi liberi, caleidoscopio di
una realtà che si compone e scompone di continuo attraverso i propri frammenti,
flash di momenti che affiorano per immagini, che si dissolvono in suoni,
rumori, odori, umori. Stelle a Merzò
richiama d’acchito alla mente la lezione poetica de La camera da letto di Attilio Bertolucci come se l’opera della
Desideri fosse nient’altro che un brandello, esposto e sanguinante, di una storia
che vuol restare intenzionalmente indefinita nei suoi contorni.
Ogni vicenda ha comunque luoghi e tempi, che spesso si
rincorrono e accavallano. Le coordinate geografiche di questa sono sottese tra
gli anfratti di una Liguria celata sotto il suo manto boschivo e l’anonimato
della metropoli lombarda, come incognite di un’equazione tra realtà e irrealtà,
insonnia e sogno, tenerezza e furore. Quelle temporali hanno il puntiglio d’un
almanacco che registri il fatale precipitare di un’estate già matura nel primo
brivido d’autunno, nell’esercizio di una memoria che ha lunghi bradisismi,
sepolture forzate ma anche nemesi improvvise, che “è incisa – sulla pelle metaforica e non – con i graffiti delle
delusioni”.
L’inverno dell’amore non prelude, in maniera scontata, a
un’altra primavera, ma lascia che la fossa sia tomba in cui i semi di grano e
loglio (“erba mala”) stanno sepolti
assieme, che sia come “il sonno delle
anime sospese”. La discesa agli inferi (che non è quasi mai consciamente
intrapresa) non garantisce infatti un’automatica risalita, bensì unicamente il
rischio di un perenne annullamento. Eppure, senza questa contesa, la più
estrema, non può esserci neanche quella resurrezione che porta a una
consapevolezza del tutto rinnovata di sé.
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