domenica 9 febbraio 2014

News da Adele Desideri

Gentili lettori, segnalo quanto segue

*Recensione di Adele Desideri a Francesco Belluomini, Sul Crinale dell'utopia, Giuliano Ladolfi Editore 2013, in La Recherche.it, 13 dicembre 2013. 



Sul crinale dell’utopia

Romanzo

Francesco Belluomini 
Giuliano Ladolfi Editore


Recensione proposta da LaRecherche.it



Pubblicato il 13/12/2013 12.00.00

[ Recensione di Adele Desideri ]

Francesco Belluomini - poeta e narratore tanto prolifico quanto significativo - ha fondato nel 1981 il Premio Letterario Camaiore per la poesia, del quale è tutt’oggi presidente.
Il suo ultimo romanzo Sul crinale dell'utopia racconta le vicende di due personaggi in apparenza molto differenti tra loro, per nazionalità ed esperienze culturali.
L’uno, nato nel 1887, è Eugenio Del Sarto, viareggino sovversivo e filo-anarchico sin dai tempi dell’Università, forte idealista e ben presto di pura, ferma, identità comunista - vissuto realmente col nome di Eugenio Del Magro.
Dopo avere istituito la sezione del Partito Comunista Italiano di Viareggio, ed essersi adoperato, con accanito piglio critico, per difendere i diritti dei lavoratori e dei cittadini, Eugenio viene perseguitato dal fascismo.
Fugge, con la moglie e i figli piccoli, in diversi paesi d’Europa. Rimpatriata la famiglia - ripara, infine, in Unione Sovietica, in qualità di giornalista. Ma anche qui, entra in collisione con le istanze censorie delpotere politico, perché, fedele ai suoi principi, continua a evidenziarne le gravi incongruenze. Condannato per attività controrivoluzionaria, è internato nel gulag di Severo Vostocnyj, in Crimea, dove, nel 1939, muore.
L’altro (figura del tutto immaginaria) è il transcaucasico Fiodor Levskilyj, nato nel 1890 a Kirovabad, città vicina al porto di Baku, sul Mar Caspio: “con il suo metro e ottanta di altezza distribuito in un corpo asciutto e scattante (…) egli possedeva un bel viso dai lineamenti forti, occhi chiari e capelli biondo fieno portati corti con taglio a raso”.
Attraverso precoci, rocambolesche e disgraziate avventure, Fiodor arriva a distruggere, letteralmente, quel minimo di vita che un destino, già dalla prima infanzia infausto, gli ha riservato. Si arruola - senza convinzione, spinto dall’infido amico Dimitri Senkjevili - “nelle fila dei sempre più numerosi rivoluzionari di Lenin e di Trotzkij”. Col tempo, però, capisce che esse sono, in realtà, criminali “bande armate”, capaci di compiere “stupri, razzie”, espropriazioni arbitrarie e ogni genere di nefandezze. Intraprende, allora, un lunghissimo, periglioso viaggio a piedi, durante una breve licenza, nel tentativo di ricongiungersi alla famiglia.
Ma la licenza termina; e Fiodor - mentre è ancora alla ricerca dei suoi parenti - subisce gli arresti, in quanto disertore.
I capitoli di questo libro si alternano nel raccontare le vicissitudini dei due protagonisti. E il lettore le segue, immedesimandosi nelle traversie politiche e affettive del primo, nelle avversità militari e coniugali del secondo.
Quasi diviso, il lettore, nel concedere le sue simpatie, anzi le sue empatie, all’uno o all’altro - chiedendosi cosa possa accomunare Eugenio e Fiodor, se e quando essi avranno modo di confrontare, viso a viso, i loro animi, gli amori, le sconfitte.
Ed ecco che, sul finire della narrazione, “per la prima volta nella loro separata esistenza, l’eretico (…) Eugenio Del Sarto” e il nostalgico, rassegnato Fiodor Levskilyj - sopraffatti da un’uguale “maledizione” - trascorrono insieme “la stessa notte sotto il cielo sovrastante il gulag di Severo Vostocnyj”: “entrambi, debitori della sorte, derubati in gioventù da demoni non troppo diversi tra loro”.
Derubati, in fondo, della vita e dei sentimenti più cari, semplicemente per avere creduto che la libertà scaturisse, come diretta conseguenza, dagli agiti rivoluzionari, e che la rivoluzione potesse garantire un’esistenza dignitosa per tutti gli uomini.
Un romanzo storico, Sul crinale dell'utopia, che si arricchisce, pagina dopo pagina, di eleganti affreschi d’epoca - precisi nella dettagliata descrizione del tessuto socio-economico italiano e russo. Un romanzo che approfondisce sia gli aspetti del cuore, sia i tratti prettamente psicologici di Eugenio e di Fiodor, sempre con una tonalità pacata, eppure decisa - quietamente serena.
Non mancano, poi, ampie, cinematografiche, “visioni” naturalistiche, tese a mettere in risalto i forti contrasti che caratterizzano il paesaggio toscano e quello caucasico.
V’è, inoltre, più d’un accenno - spontaneo e rispettoso - alle tradizioni culinarie toscane. Così l’autore si esprime a proposito delle barbabietole bollite, rapprese in “pallette pressate”: “un prodotto che, consumato in insalata o soffritto con uno spicchio d’aglio, magari accompagnato da salsicce di maiale, rappresentava un piatto davvero ricco per quei tempi”.
Belluomini è fedele alla realtà dei fatti, che capillarmente documenta, ma è pure abilenel “reinventarli” in chiave narrativa. È puntuale e onesto, per esempio, quando contestualizza gli esordi del fascismo e la relativa dittatura; la rivoluzione bolscevicae i feroci esiti del regime stalinista.
Belluomini ha in mente, soprattutto, di consegnare un omaggio sincero e duraturo “A Eugenio Del Magro, a sua figlia Teresa/ e a tutti quegli Italiani/ che avevano inseguito/ l’utopico sogno di un mondo migliore,/ le cui tracce di sono perdute/ nell’orrore dei gulag staliniani/ alla fine degli Anni Trenta del secolo scorso.//”.
Ha in mente di fermarsi sugli eventi del passato, per non cancellare quel sottile crinaleche dall’ideale ferito può ricreare comunque la speranza, dal crollo di ogni autentica e umanamente valida utopia può indurre a fare i conti con la Storia, dalle delusioni può trarresemi di saggezza: ciò che è accaduto, allora, resta, con le angherie, le ingiustizie e le azioni malefiche dei poteri assoluti.
Però le utopie, almeno quelle, non periscono nei meandri delle false dottrine politiche. E quanti in nome delle utopie sono morti, non sono morti invano.
Anche se, purtroppo, le rovine esistenziali dell’“esile”, colto, ostinato Eugenio e del robusto, ingenuo,avvilito Fiodor si allungano, come spettri, sulle macerie individuali e collettive di quegli anni ingrati - e dei nostri giorni, per molti uomini, ugualmente difficili, “poiché la mistificazione delle comunicazioni appartiene da sempre al potere costituito e, soprattutto, a coloro che il potere aspirano a conquistarlo”.



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pubblicato in http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=769&Tabella=Recensioni il 13/12/2013
 
*Recensione di Adele Desideri a Giorgio Linguaglossa, Blumenbilder (Natura morta con fiori), Passigli Poesia 2013, pubblicata ne Il Quotidiano della Calabria, 13 dicembre 2013.  

*Recensione di Bruno Nacci a Adele Desideri, Stelle a Merzò, Moretti&Vitali 2013, in http://samgharivista.com/2014/01/03/stelle-a-marzo-amore-si-fa-parola/
, 3 gennaio 2014. 

Samgha è una rivista culturale, attiva in Italia e in Nord America. Siamo una comunità di lettori, nata nel 2009 e mossa dal desiderio di parlare di libri, e di tutto quello che si muove intorno ai libri, in modo non superficiale. La nostra ambizione è di approfondire la passione della lettura e della scrittura difendendola da degenerazioni dilaganti, dalla burocrazia esegetica che in alcune aree affligge il mondo della ricerca e da ogni oscurantismo esibizionista.

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“Stelle a Merzò”. Amore si fa Parola.
Pubblicato su 3 gennaio 2014 da SAMGHA
di Bruno Nacci
Adele Desideri, pseudonimo che  esprime bene una vitalità teatrale, pubblica ora la sua quarta silloge poetica, Stelle a Merzò (Moretti&Vitali 2013), giocando d’anticipo con il lettore, fuorviandolo con la più antica delle seduzioni letterarie: narrerà una storia d’amore “che mi è stata raccontata – non senza lacrime e sospiri  – dalla viva voce della protagonista” (ma una delle due dediche a A.D., è forse una spia lasciata cadere con impertinenza). Non contenta, in esergo inventa un criptico “tu” che sembra essere più uno specchio che un interlocutore, e che dovrebbe mettere sull’avviso il lettore a non lasciarsi troppo abbindolare dalla forma del poemetto o canzoniere d’amore, e neppure dal solerte bugiardino iniziale. La sua poesia, fin dall’inizio, procede per strappi, da Salomè (2003), in cui la sintassi era lacerata e rastremata fino all’osceno e al blasfemo che ricorda certe ulcerazioni testoriane, in una impudica contraffazione (ma anche inveramento) della parola biblica, aNon tocco gli ippogrifi (2006), calepino stralunato di sensi arroventati, proseguendo per Il pudore dei gelsomini (2010), rappresentazione sgomenta e regressiva di affetti ancestrali. Il nuovo tempo della poesia di Adele è apparentemente più  colloquiale, e illude di una narrazione distesa e domestica, ma è un altro inganno. Il paesaggio, sempre raro sotto la sua penna, sembra concedere qualche intermittenza di serenità: «Vicino alla casa diroccata, / tra le balze del colle ridondante / di luna, sta il fienile», ma il brusco accostamento «luna / fienile», toglie subito ogni illusione di cedimenti romantici, e poi ci sono questi versi che chiariscono più le intenzioni di una poetica aspra che quelle di un dialogo tra amanti: «Le stelle di Merzò – hai ragione tu – / sono incollate al cielo». Perché tutto l’equivoco poi di questo amore (che sa di operetta, sulla carta, s’intende: «Metterò sul tuo capo il cimiero del gendarme, / ti ruberò il pugnale, nel sale ti conserverò») si consuma altrove, e come negli altri libri è proprio l’esasperata frequenza di segni corporei, la loro frenesia tanto spesso evocata,  che non persuade di tanta carnalità. Eros, il prendersi e lasciarsi,  il paesaggio cancellato (niente paesaggi nella Bibbia), qualche strazio pucciniano tentato con un tremolo patetico, tutto questo non è che la materia, disposta con perizia e crudeltà, sotto cui brucia un altro fuoco, in profondità, ribollente, magma sempre sul punto di traboccare. Adele ha la tempra delle antiche profetesse, delle Pizie, delle vergini guerriere, delle Camille, e la poesia in lei prima di tutto è servizio intransigente reso alla Parola, sempre e comunque. Contate la frequenza dei termini e delle espressioni e dei ricordi biblici, che sgorgano spontanei e, in questi testi, quasi di soppiatto, all’interno di sentimenti, situazioni, disposizioni interiori che reclamerebbero altri abbandoni, o forse languori e svenimenti sentimentali. Sono innumerevoli, e un elenco anche solo esemplare rischierebbe l’accumulo, insensato davanti all’evidenza. C’è all’inizio quel cenno a un “valzer sconsiderato”, che verrebbe voglia di tradurre in danza rituale, come rituali sono gli angeli immanenti, anche loro comparse di teatro (lo zoppo, il sordo, il biondo), e su tutto aleggia una temperie da rappresentazione medioevale, con irriverenze, stordimenti, e un sacro terrore, così ben scorciato in questo (auto)ritratto trasposto: «Ti vestirai di seta / ̶  rimmel, rossetto e fard   ̶ / per mascherare il vuoto, / per disegnare sullo specchio /tutta la disperazione, / la tua finta allegria». C’è oggi in Italia un poeta religioso più coerente, più tentato dalla forza barbarica dei testi sacri di cui usa le parole e l’intenzione, al punto da sacrificare loro, apparentemente, la sua sincera e commossa bravura?




*Recensione di Giuseppe Marchetti a Adele Desideri,
Stelle a Merzò, Moretti&Vitali 2013, nella Gazzetta di Parma, 15 gennaio 2014. 




*Recensione di Adele Desideri a Gianni Vacchelli, Arcobaleni, Marietti, 2012, pubblicata in http://lapresenzadierato.wordpress.com, 20 gennaio 2014.





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Gianni Vacchelli, “Arcobaleni” letto da Adele Desideri

Gianni Vacchelli, Arcobaleni, Marietti, 2012, pag. 103, euro 15
Gianni Vacchelli è docente, scrittore, fine saggista, esperto interprete de La Bibbia e del pensiero di Raimon Panikkar. Arcobaleni è il suo primo romanzo: apocalittico, temprato da un’impetuosa energia visionaria, è un libro che s’illumina in un fiume di originali fiamme oniriche e si distingue per l’intensità dialettica delle riflessioni dello stesso autore, che si intrecciano, lungo la trama, a numerose citazioni – anche implicite – tratte in primis daLa Sacra Scrittura e da Panikkar. E ancora, da Plutarco, Diodoro Siculo, Annick de Souzenelle, René Girard – con la sua illuminante teoria del “capro espiatorio” – Ivan Illich: “L’escalation del potere di autodistruggersi è divenuta il rito sacrificale delle società altamente industrializzate”.
La prosa di Vacchelli è segnata, inoltre, da un forte accento profetico, in armonia con la migliore tradizione biblica. Ricorda, soprattutto, lo stile – veemente, ridondante, e poi spezzato e singhiozzante – del Deutero Isaia: non ha pace, tira la pagina rigo dopo rigo, la stringe, la strappa quasi, e infine la distende in forme voluttuose e tragiche, tenebrose e meditate, laceranti e lacerate.
Vacchelli impreziosisce, poi, il testo con un continuo, dotto, rimando al significato etimologico dei termini, in specie di quelli attinti dalla profondità semantica dell’antico alfabeto greco.
E crea, in Arcobaleni, le tracce sicure, e al tempo stesso dinamiche, di una metafisica anti-ideologica, e perciò anti-assolutistica – di influenza cristiana, non tomistica, in qualche misura blondeliana – che, mentre cerca i sentieri del bene ed evidenzia le furberie del male, si rarefa intorno alle vette di una tonalità corposamente lirica. Una metafisica che utilizza non solo le certezze del logos, ma anche, e per lo più, le feconde ambivalenze dell’intuizione, del sentimento, della sensibilità.
Filosofia e solarità immaginativa, severa, corretta laicità e considerazioni teologiche, denuncia sociopolitica e possibili esiti di speranza sono le polarità attraverso cui Vacchelli getta semi di sapienza in una storia di strisciante dolore e saltuaria – infantile e quindi vera e autentica – gioia.
Il protagonista del romanzo, infatti, è Elia – i capelli “ramati, incendiati dal sole” – un ragazzino che possiede una vista particolare, una “seconda vista”, in virtù della quale discende e scorge luoghi misteriosi, noti a lui solo, ove incontra personaggi altrettanto arcani, che dialogano con lui – e lui solo: “un vecchio lama tibetano, piccolo e grasso”, e, tra immensi boschi irradiati da luci scintillanti, due ombre, che gli intimano: “Devi liberare l’aurora”.
E corvi, “Grandi uccelli dagli occhi gialli enormi e inespressivi, come sentinelle, ottuse e feroci”.
E, pure, una “rilucente pietra” – l’“oriental zaffiro” – che danza, seducente, “affusolata numinosa”, mentre il corpo del lama si mellifica, diviene “miele, ambrosia”.
E, ancora, un bambino, che vive, e parla, dentro Elia e si chiama Tommaso…
Ma coprotagonista, insieme a Elia, è l’estate – stagione di scorribande, di gioco, di leggerezza, di libertà:

“Per Elia l’estate fu donna, non solo mamma, e nei suoi ardori flagranti per la prima volta gli adombrò qualcosa dei misteri muliebri. Un bacio turbinoso, folgorante, arcano, periglioso persino”.

Anche il filo del racconto, allora, si snoda lungo il sentiero dei dualismi: la gioia e il dolore, certo, e l’estate e l’inverno, il mondo dei bambini e il mondo dei vecchi (la nonna di Elia, affaticata e burbera), il fiume e la montagna, la vita e la morte (l’amico di Elia cade da un tronco: dopo un terribile periodo di coma, si riprende, ed è quasi un miracolo. E la nonna ritrova attimi di dolcezza nei meandri delle sue sofferenze remote – poi muore), la realtà e l’inconscio (l’onnipresente, algebrico bosco della Valle d’Aosta), la natura e la città, “dove le stelle son nascoste, (…) il bianco s’imbratta subito anche se fa capolino, (…) persino l’estate imbruttisce e sembra fuori posto”.
Dualismi che caratterizzano l’animo di Elia, e quello di suo padre, uomo taciturno, studioso, di sintetica saggezza, che comprende il figlio e non lo opprime, ne custodisce i segreti – e non li altera con il freddo riduzionismo dell’età matura.
Pregnante, infine, l’accorato, essenziale richiamo – addensato soprattutto nella seconda parte del volume – nei confronti della società contemporanea, perché si risvegli dal torpore malato indotto dai dettami omnipervasivi della ragione tecno-economica:

“Allora la pace non c’è e se c’è è falsa. La Guerra continua. È sempre lei, è sempre qui. Truccata, rifatta, tremendamente volgare, e per molti (quasi tutti) ancora terribilmente seducente, la vecchia troia”. “E poi? evolvere, progredire, sì, ammodernare, industrializzare, tecnologizzare, informatizzare l’olocausto… (…) Basta un portatile. E lavoratori devoti alla causa”. “L’esito di distruzione che scorre davanti ai nostri occhi, alle nostre menti e ai nostri cuori, spesso troppo inerti, ci sottopone improrogabile la questione della vera natura dell’uomo e della civiltà.
Chi sono Io?”.

Intanto, Elia cresce, e il padre si allontana dagli anni della gioventù, mentre la madre, nel libro, è quasi assente. La sua assenza è compensata, però, dall’apparizione, in ultimo, di una donna che si manifesta con maestosità escatologica:

“i denti bianchi e abbacinanti, il corpo di giovane palma, danzante, vestita di primavera, intrecciata di spighe, redimita di sole”. Il suo nobile canto induce Elia a indirizzare lo sguardo verso l’alto, dove “s’intravede una figura, un diaspro, traslucido, come brace su cui crepita la vampa, che sale, dal turbine, circondato da uno splendore, simile a smeraldo”.

La donna col respiro tutto avvolge il bimbo Elia-Tommaso, il bimbo-profeta. Il bimbo che in sé racchiude l’intima esperienza dell’eterno, la sua umile consegna – sublime kènosi, infinito amore, salvezza per l’umano genere.

In http://lapresenzadierato.wordpress.com/2014/01/20/gianni-vacchelli-arcobaleni-letto-da-adele-desideri/







*Vi invito a visitare la Rivista di Letteratura Contemporanea on line in www.pelagosletteratura.it

Direttore responsabile
Umberto Piersanti
Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941. Qui vive e lavora insegnando Sociologia della Letteratura all’Università. Le sue raccolte poetiche sono “La breve stagione” (Quaderni di Ad Libitum, 1967), “Il tempo differente” (Sciascia, 1974), “L’urlo della mente” (Vallecchi, 1977), “Nascere nel ’40″ (Shakespeare & Company, 1981), “Passaggio di sequenza” (Cappelli, 1986), “I luoghi persi” (Einaudi, 1994), “Nel tempo che precede” (Einaudi, 2002), “L’albero delle nebbie” (Einaudi, 2008). Nel 1999 per I Quaderni del Battello Ebbro è uscita l’antologia “Per tempi e luoghi” curata da Manuel Cohen, e nel 2009 l’antologia “Tra alberi e vicende” edita da Archinto, a cura di Alessandro Moscè. E’ autore di tre romanzi: “L’uomo delle cesane” (Camunia, 1994), “L’estate dell’altro millennio” (Marsilio, 2001), e Olimpo (Avagliano, 2006).


Vice direttore
Alessandro Moscè

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano, dove si occupa di giornalismo culturale. Ha pubblicato l’antologia di poeti italiani contemporanei “Lirici e visionari” (Il lavoro editoriale, 2003), libri di saggi critici “Luoghi del Novecento” (Marsilio, 2004) e “Tra due secoli” (Neftasia, 2007). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani tradotta negli Stati Uniti “The new italian poetry” (Gradiva, 2006). Come poeta ha pubblicato “L’odore dei vicoli” (I Quaderni del Battello Ebbro, 2004) e “Stanze all’aperto” (Moretti & Vitali, 2008). Con Cattedrale nel 2009 ha pubblicato il romanzo-saggio “Il viaggiatore residente”.



Redazione

Elisabetta Pigliapoco

Elisabetta Pigliapoco è nata a Jesi nel 1972 e vive a Monsano. Insegna nelle scuole di secondo grado. Ha curato insieme a Maria Cristina Casoni il volume “La terra e le stagioni” (Fernandel, 2003). Nel 2005 è uscito “Fuori dal coro. L’opera di Massimo Ferretti”, per i tipi di peQuod. Nel 2006 ha curato per Il lavoro editoriale il capitolo Novecento del volume “Introduzione alla letteratura delle Marche”. Nel 2010 ha curato il libro di saggi critici “Patrie poetiche” con peQuod.


Rossella Frollà

Rossella Frollà è nata a San Benedetto del Tronto, dove lavora. E’ laureata in Sociologia, collabora con le riviste Mangialibri e Teatroteatro. Alcune delle sue poesie sono apparse su clanDestino.



Gian Paolo Grattarola

Gian Paolo Grattarola è nato a Genova nel 1963, all’età di 10 anni si trasferisce a Falconara Marittima (Ancona), dove risiede tutt’ora. E’ socio di alcune fondazioni culturali e collabora con alcune riviste specializzate in letteratura, arte, teatro e opera lirica tra cui Mangialibri, TeatroTeatro, Exibart e Il Falco Letterario. Nel 2004 Vince il primo premio al Concorso Internazionale di poesia indetto da Artenuova e nel 2005 pubblica la raccolta di poesie “Frammenti di vita” (ed il Foglio Letterario) e nel 2009 “Ingiustizia è fatta” (Ed. Creativa), un romanzo liberamente ispirato a una storia realmente accaduta, con cui consegue un ottimo riscontro da parte della critica e dei lettori.



Valeria Bellagamba

Valeria Bellagamba, nata a Senigallia, è web master e redattrice di Pelagos Letteratura. Animatrice e organizzatrice culturale, ha partecipato nel 2007/2008 al laboratorio di poesia “Giovani Poeti Leggono… Carlo Antognini”, diretto da Fabio Maria Serpilli e organizzato dal Comune di Chiaravalle (AN) con il patrocinio della Provincia di Ancona.



Collaboratori

Giulia Massini

Giulia Massini è nata a Fabriano nel 1980, vive a Bologna. È Dottore di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato il romanzo “Le voci sotto” (Pendragon, 2004).

E così quello che veduto nella realtà delle cose accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (…) apre il cuore e ravviva
(Giacomo Leopardi, Zibaldone, 260-61)

Adele Desideri



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