lunedì 12 marzo 2012

Su Le parole agre di Narda Fattori

L’arcolaio, Forlì,  2011, € 12,00

Riflessioni di lettura di Bruno Bartoletti

Con questo ultimo libro, Le parole agre, pubblicato da L’arcolaio, Narda Fattori compie il suo percorso di ricerca, una ricerca che fa della parola la sua essenza, il suo pensiero dominante. Un percorso che parte da lontano, già dalle sue prime pubblicazioni, direi da sempre, se compito del poeta è quello di “dare il nome alle cose”, secondo un antico principio di Mario Luzi. In uno dei suoi primi libri, L’una e i falò, pubblicato da Il Vicolo nel 1998, già Narda Fattori sentiva urgere questo rapporto come essenziale del fare poesia (“chiamare le cose per nome / è dirti presente in un luogo”) in un procedimento che tende a scardinare, a prosciugare per mostrare il pensiero nella sua nudità; così in Cronache disadorne la parola si faceva essenziale, asciutta, scarna, rigorosa. Con il Il verso del moto Narda Fattori segnava una ulteriore tappa “nella più assoluta coerenza” in un arco di tempo che era “scandito da fedele puntualità alla scrittura poetica”, come scriveva Anna Maria Tamburini nella Prefazione. Ma questa presenza, questa ricerca vissuta fino alle sue estreme conseguenze, questo dissidio tra la parola e la cosa, tra la poesia e il suo oggetto, se trovava o cercava ancora di dare una risposta al senso del suo fare poesia (“Vorrei dare un nome al più caro / vorrei finire il verso / … Sono pronta finalmente / non mi tiene neppure / quest’ultimo canto” recitava nell’ultima poesia di Il verso del moto, in Le parole agre c’è la certezza di essere giunti al punto del non ritorno. Già il titolo non ammette dubbi, è perentorio, deciso, fermo. Le parole sono agre, aspre, incidono in profondità, se è vero che “dare il nome alle cose vuol dire anche appropriarsi veramente delle cose e degli eventi, degli avvenimenti”, come scrive Mario Luzi. Ed è il concetto che per tanti versi ha percorso tutta la letteratura del novecento, nel senso che il linguaggio altro non è che rispecchiamento di fattori sociali, di eventi contraddittori, per cui il poeta si poneva nella sua funzione di “operaio di parole”, secondo una vecchia definizione di Bonnefoy, o di “manovale di parole”, come ebbe definirsi recentemente Beatrice Niccolai. Narda Fattori porta alle sue estreme conseguenze questo principio. La parola salva, è ricerca e via di uscita, la parola, ossia la poesia, è “catarsi del dolore”, come ebbe ad affermare Antonia Pozzi, è quindi e dunque ancora salvezza. È questo il procedimento classico che ha antiche origini e che percorre tutto il novecento, pur nel vuoto della perdita, nel canto montaliano del non sapere. Questo è il filo conduttore che unisce, in un procedimento non ripetitivo,  tutta l’opera di Narda Fattori.

La lirica che dà l’incipit a quest’ultima raccolta pone subito il tema: “Io gioco con le parole e con le parole / canto e rido e faccio convito”, ma le parole sono anche, o soprattutto, tentativo di decifrare e di esprimere ciò che per sua natura è labile, sfuggente. Nei versi che seguono – “Io mi riempio la bocca di parole sensate” – c’è certamente dell’ironia, uno sguardo distaccato ma consapevole su questo rapporto tra la parola e il suo oggetto, come se il vero senso del fare poesia fosse quello di dare significato a ciò che per sua natura è provvisorio e incerto – “povero pensiero e povere parole”-.
“In ogni parola c’è tutta la mia vita”, così Patrizia Cavalli, pur sapendo che le sue poesie non salveranno il mondo, in Narda Fattori questa consapevolezza è diventata espressione nuda e aspra di un sentire che travalica il quotidiano per porsi sui grandi temi della vita e della morte. La parola è sì importante, non bisogna sciuparla, come suggeriva Edoardo Sanguineti, proprio per questo essa diventa espressione di poetica e di contenuti, diventa domanda, perché la poesia, la vera poesia deve porre domande, a cui il lettore cercherà di dare risposte: “Le parole scendono in gola trafiggono / faringe e laringe s’aggrumano / nell’inespresso dire / nella sola parola che non viene a me a dire” reciterà nella seconda lirica e riprenderà in una delle ultime come in circolo, in un filo conduttore che non ammette ripensamenti. E la morte o il pensiero della morte, tema così ricorrente in Emily Dickinson, viene richiamato da Narda Fattori con il distacco e la serenità di chi ormai si volge alla fine (“e dentro un fuoco che mi brucia / una voglia intatta di andare verso sera”). Allora può anche cantare l’altrove, immaginarsi arrivata al punto del ritorno, nella metafora di un paese immerso in una “radura di silenzio”, là dove “ogni traccia del viaggio è scomparsa”, lecito chiedersi “dove sono? Quale silenzio è questo?”, domande e ancora domande dove sta il senso della vita, domande a cui nessuno risponde e a cui solo la poesia offre un suo pegno di senso e d’amore – “Me ne andrò dunque sola all’oscuro / ma non avrò paura non mi stupirò / se nessun luogo è in attesa” che ricorda lontanamente i versi di un’altra grande, a cui per tanti versi Narda Fattori si accomuna, Margherita Guidacci. – “Siamo soli su questo versante della morte, / E sull’altro, forse, saremo ancora più soli”.
Ma Narda Fattori è una donna forte, una donna che non si arrende. Il crepuscolo e la notte vengono dopo il giorno, sa che “la forza di una sola goccia / scava abissi crea stalagmiti”, sa che non “si può imparare la vita / senza farsi del male senza scivolare”, e per questo sa che la poesia, quella vera, non può che raccontare la vita e sa che “l’abbraccio del crepuscolo / m’aspetta appena svoltato l’angolo”, che “pacificata attendo il giusto riposo”. Una poesia che scava dentro, quasi testamento di una vita, documento finale in cui tutto è detto per aprire una porta verso l’inconoscibile, descrizione e documento di sé questo libro - “Mi spoglio delle piume ad una ad una / non servono per un volo definitivo / mi aspetta la catapulta per l’addio / che mi spinge oltre la sosta”.
Con quanta naturalezza Narda Fattori canta questo distacco che anzi recupera con la certezza che dietro l’angolo ci sarà un fine solo se si recuperano quei valori che furono dei nonni e dei propri cari, perché “se non hai passioni e sogni grandi / resti all’anagrafe solo un rigo nero”. Sono i valori di una società contadina, di questa gente  e di questo mare, dove i bambini si divertono a costruire “piccoli soli / dai lunghi raggi”, che è speranza ancora verso il futuro, perché “il solo miracolo che tiene il senso  / delle mie parole è un fiore da marciapiede”, verso che lontanamente ricorda un tema tanto caro ad Agostino Venanzio Reali per il quale la salvezza sta proprio in questo, nelle piccole cose, nella riscoperta della loro nuda povertà: “non resta quale via di scampo, / che tornare al fiore del radicchio / alla bambola scordata sull’aia: / poi transumanare o incenerire!”
Con questa certezza è vietato guardarsi indietro, è vietato raccogliersi in nostalgici ricordi, se non in quello della memoria dei propri cari (“Trovano pace i miei morti /  in catacombe di memorie”), ma si può e si deve ancora guardare avanti con la certezza che la vita, tutta la vita, anche nel dolore, è “immeritata meraviglia”, dono gratuito e incalcolabile: “Partirò – mantengo le promesse -  partirò / con la rondine che ha perso la rotta / il compagno il nido e la grondaia / e non ha ai rimpianti né volge lo sguardo / sulla terra che fu dono sempre / immeritata meraviglia”.
È questa forza che fa di Narda Fattori una testimone unica di questi tempi terribili, una testimonianza eroica che cerca di opporsi alle forze avverse (“non temo le tempeste / che rubano il fiato … inciampo sull’erba e frano / nessuno che senta come urla il silenzio”). Il suo è perciò un sorriso ironico, compiacente e beffardo, drammatico e tragico di colei che sa che nulla può cambiarsi se non nella certezza del dubbio che è fonte di ricerca e di lenta faticosa conquista. Lo dice con la stessa tranquilla consapevolezza di chi ormai sa di non essere sopravvissuta agli eventi, ma di averli accettati, e per questo di averli dominati: “il dubbio mi ha indurito le arterie/ e tuttavia morirò con un sorriso / sull’iride scura per la benevolenza del fato / che mi volle finalmente quietata / non sopravvissuta”. La risposta è ancora là, in quei bellissimi versi il cui incipit ricorda tanto il “Dolce e chiare è la notte e senza vento” di leopardiana memoria, ma quanto diverso è il suo linguaggio, quanto moderno in questa bella metafora: “La notte si era appisolata / nel grembo dell’aria quieta”. Ed è sempre in questi versi ancora la domanda, sempre la stessa domanda che attende una risposta: “Andavo per andare / con i piedi sporchi nella vita / che chissà dove incontra la sua fine”.
Potremmo fermarci qui perché ciascuno possa dare la sua risposta. Narda Fattori lo fa, e lo fa come fanno tutti i veri poeti, una risposta non di contenuti, una risposta di ricerca, ancora e sempre nella parola, come scrive Iosef Brodskij in Il suono della marea: “Le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli, quasi identiche – i dati veri vanno ricercati nei suoni che emettono”. Ed è qui che Narda Fattori trova le ragioni del suo fare poesia:

 “Sarai mia cura e medicina
parola sporca – mio lemma amaro

mia passione

infine salvezza mia”.

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