recensione di Renzo Favaron
Leggendo Piano, mi è caduto in mente mio padre, il quale passava molto tempo all'aperto, intorno e sopra un banco/tavolo da lavoro. Perché? Il banco/tavolo da lavoro è l'immateriale che si fa oggetto di attività: costruire decostruendo, e viceversa (decostruire costruendo). Il senso del lavoro poetico, come nel caso di mio padre, non è dato dal prodotto finale, ma dall'operare.
Il senso, dunque, si costituisce attraverso l'esercizio congiunto di arti, sensi, immaginazione, esperienza, cioè di tutto ciò che si esprime attraverso il gesto. E, come dice G. Benn nella sua autobiografia: “Chi non si esprime, non esiste.”
Piano ci suggerisce anche l'idea di come si forma la nostra cognizione del mondo (o di come dovrebbe formarsi): dapprima come percezione esteriore, poi nell'atto di vedere dentro (le due cose non sono mai separate). Ecco, allora, il Piano dove Può arrivare / tocco orrizontale / alla distesa ampia. E sempre, dal Piano, ecco che Dall'arto allagante/ muove braccio di mare.
Già, non è una poesia immediata quella di Alberto Mori, eppure ci sono versi davvero belli.
Mi permetto, inoltre, solo un appunto, allorché leggo nella prefazione che le cose “parlano al poeta una lingua antropomorfa”. Non so perché, ma ciò mi ricorda troppo il fumetto (già introdotto a forza da Andrea Zanzotto). Penso, invece, che Alberto Mori ne faccia semplicemente oggetto di osservazione, alla stregua di Rembrandt e Monet. Poi, attraverso questo filtro, ce ne offre dei quadri. E come in una galleria, ne indico – per concludere – uno tra quelli che a me sembra esemplare: Tempo organico effato / dalle ombre chete delle posate.
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