mercoledì 10 novembre 2010

Su ANIMALI PRIMA DEL DILUVIO di Chiara De Luca (Edizioni Kolibris, 2010) - Recensione di Federica Volpe



PARTE I

I GRANI DEL BUIO (2006/2007)



La prima parte, tratta da I grani del buio, è composta di ventisette poesie che sembrano realizzare uno sviluppo ascendente. In questa la poesia di Chiara De Luca è associabile ad un bruco oscuro che si rinchiude in una crisalide di pensiero per evadervi, negli ultimi componimenti, come farfalla che non è dotata di luce, o meglio la cui luce si sposa all’oscurità iniziale ed intrinseca dei versi, in una sintesi perfetta di chiaroscuri.

Infatti la scalata della poetessa verso qualcosa di positivo (ma che non manca del suo opposto) parte nella tenebra quasi totale.

Il primo verso, emblematico, dice: “E’ un campo ferito la storia di ciascuno”. Ed è proprio da quel campo ferito che la De Luca sembra alzarsi a fatica, muoversi strisciando, zoppicando, senza poter evitare di incurvarsi su se stessa e su quella stessa storia che le provoca dolore ma che, al contempo, la rende pienamente se stessa.

Il dolore provato dalla poetessa in questo percorso di redenzione che lei stessa sa di non potere che essere parziale si manifesta in modo fisico nei versi di questa raccolta, non solo nella fisicità della poesia stessa (cesure, enjambement, frasi sapientemente rese sconnesse o complesse) ma anche nelle scelte semantiche, che vanno a designare le immagini corporee come le predilette.

“La mano me la strappi di mano”, “I grani del buio sono mille / occhi chiusi…”, “Snocciolo / come un rosario le nocche”, “riapriamo nella carne cicatrici per leccare” sono tutti esempi di questo vivere il dolore e la poesia sulla pelle, nella carne, una carne che diventa, in una lirica, carta disegnata dal sole (Ho pelle di carta lo vedi / anche il sole malato / ci ha fatto disegni / concentrici anelli spezzati).

Ed è proprio il sole, la luce, che appaiono dapprima timidi e sporadici, fino a diventare trionfali e preponderanti negli ultimi componimenti.

“In alto si schianta il corpo di un lampione / profilo nel nada la testa luminosa”, si legge in una lirica iniziale, in contrapposizione ad un’apertura maggiore in una poesia che potremmo dire di posizione di coda “Ho spiato scendere la luce / tra le fitte tegole nascondere / la vergogna, …”.

C’è, in questa seconda fase, un freno che blocca l’aprirsi di Chiara De Luca alla vita, che rimane dunque un’apertura incompleta, parziale, ma pur sempre un’apertura.

“Adesso sono io a chiedere /d’essere salvata”, afferma una coppia di versi che fanno da chiusa ad un componimento appartenente a questa parte.

Non a caso, infatti, l’ultima poesia parla di una Bologna piena di bellezza, e il primo verso si riferisce proprio alla luce: “Vedi com’è chiara questa luce di settembre”.

Lo stesso scalare lo si vede nel comparire dell’inverno che all’inizio inghiotte i componimenti e che li libera man mano del suo ghiaccio nell’andare.

La figura che la poetessa usa spesso è quella del fiore, del germogliare, per raccontare la sua voglia di evadere da se stessa (“nell’immaginazione del bambini, / quando si spuntava come fiori”; “Sterili canne sono adesso le parole, / si sporgono dal fango ritentando / di risalire in gola a germogliare”) non nascondendo in questo qualche paura (“Un fiore stringe, incapace a risalire”).

Nonostante i tira e molla che la De Luca si ritrova a fare tra apertura e chiusura nelle maglie del suo pensiero, conclude questa raccolta dal titolo greve e tetro con questo verso: “Sembra quasi possibile ogni cosa al suo finire”.

Quale risposta migliore della non risposta? Quale emblema più significativo? Tra il buio iniziale e la luce che scava un varco che si apre sul finale, la De Luca non prende decisioni: accetta su di sé, sulla sua pelle abitata dal dolore, sia l’uno che l’altra, regalandoci con questo verso semiaperto (anche il verso è lasciato aperto dall’assenza del punto) l’essenza stessa della vita, sconosciuta a lei quanto a noi, ma da lei sfiorata.

Uscita dalla crisalide, la poetessa sa di essere farfalla ugualmente chiara e scura, legata alla sua storia che la fascia di ferite, destinata a non durare che qualche breve tempo ancora.

Ma la sua poesia ne copia, figlia vigile, le movenze silenziose, regalandola all’eternità della carta (“Stiro le membra strappando / pagine, e trucioli scrivono / dal principio in silenzio la storia”). 



PARTE II

CONFINANDO L’INVERNO (2007/2008)



Questa seconda sezione della raccolta Animali prima del diluvio, intitolata Confinando l’inverno, rappresenta, apparentemente, un periodo di apertura.

Mentre la sezione precedente vedeva un movimento ascendente (dal negativo al positivo), questa seconda parte è caratterizzata, invece, da un movimento circolare e concentrico.

Vi è, infatti, un vero e proprio continuo alternarsi di chiusure nel buio e di aperture alla luce, ma anche l’apertura è motivo di dolore, dunque una specie di apertura che finisce inesorabilmente con lo spaccarsi e ricadere nel buio.

Questo tendere della poetessa verso l’altro, verso ciò che sta fuori di lei, è indicato dalle non poche dediche che sono disseminate all’inizio delle liriche. In ogni caso, ogni volto raccontato parzialmente da quei nomi, rappresenta uno squarcio, una ferita aperta, un quadro dolorante.

“Ma ben oltre me ti sei spinta / sul solitario sentiero intrapreso / dove a un punto mi sono destata / e scalza ho gridato nel buio / non tagliare la linea finale”, si legge a conclusione della poesia dedicata Ad Ale. O ancora, la chiusa della poesia dedicata Ad Ale e Moni: “E’ solo chi il buio l’ha sceso / a vedere dove viene l’amore / come un fuoco dentro distante / in sentieri che non hanno riparo”.

Vi è poi una figura nascosta nell’ombra, un viso che ha la forma dell’amore, ma a cui Chiara De Luca non dà un volto, ma a cui lascia la possibilità di aleggiare tra i suoi versi come un fantasma che forse vorrebbe sconfiggere, ma che ancora la fa soffrire e le incatena le viscere alla croce nera del passato.

“Secoli alla sbarra ci scagioneranno / mostrando che l’amore lo uccidemmo / per legittima difesa, di parole.”, dice uno splendido trio di versi, raccontando quanto l’amore non sia che una condanna da scontare, da estinguere, da uccidere.

“Un fiume ha evaporato forte nell’incendio / tutto il sangue ardente dell’amore”, dicono altri due versi che concludono la lirica e che vogliono creare distacco tra la poetessa e l’uomo amato, che in ogni caso rimane presente, a testimoniare un vissuto sanguigno.

In ogni caso, a conferma del movimento circolare, non mancano i momenti in cui la poesia della De Luca torna a richiudersi su se stessa, sulla riflessione che potremmo definire totalmente personale, i momenti in cui, stanca delle ferite inflitte nella sua carne dagli altri (“Si finge di credere per solitudine / a quelli che per brevità di ogni giorno / vestono il nome svenduto di amici”), Chiara va a rifugiarsi oltre gli altri, oltre la carne, nel suo cuore più profondo che è fatto di carta, penna e parole.

Troviamo così momenti di profondissima riflessione, cha danno origine a versi pregni di significato e al contempo (come è solito nello scrivere di Chiara De Luca) complessi e ripiegati su se stessi a protezione di quel senso pieno che contengono “Ogni giorno è fiume a non sfociare nella notte / ogni notte lago a incresparsi al disincanto”, “Nessuno immaginava che la fine / stesse inscritta nel fallito inizio, / che la somma della negazione / basti a disamorare l’amore.”, “Le parole ci cullano ciechi perché / strappo è il moto di ogni pensiero / che schiude sugli occhi la sera”, sono tutti esempi preziosissimi (per quanto concerne sia il contenuto sia la forma) di questo reimmergersi in sé, nella propria piccola vita sfuggendo alla grossa vita del mondo che, immensa balena, nuota alle spalle in cerca, cacciando.

Il tema della luce, come quello del buio, come già accennato, pervadono anche questa sezione (come più genericamente la poesia di Chiara De Luca).

Si ritrovano così aperture e chiusure di questo tipo, strettamente legate al concetto di luce e buio:

“La sera desolata si sloga / l’ampia ossatura di raggi / riavvolti in fasce pesanti / srotolate dall’ombra”. Quest’ultimo è anche un esempio in cui luce ed ombra si incontrano e fondono nella poesia della poetessa, a testimonianza del fatto che non sono concetti che vengono concepiti come separati nella mente chiaroscurale della De Luca.

Altro campo semantico che si ripete (qui come in genere) e quello vegetale. Non è raro che la donna si paragoni ad una foglia, ad un fiore, parli di radici, di rami per descrivere stati d’animo o concetti (“Bocche enormi schiuse volteggiano / soffiano tra petali morbidi di buio / il polline del sogno tra le pieghe del silenzio”; “Non ha tracciato sole il profilo ai crisantemi”).

Due temi attigui quanto nuovi arrivano a pervadere i versi di Confinando l’inverno: il fuoco e il fumo. Il fuoco simboleggia crescita, quanto distruzione. Il fumo, che in genere accompagna il fuoco, impedisce la vista, immobilizza, priva di respiro, di vita.

Essi, dunque, sono indice di quello stesso moto circolare che sembra non dare tregua, imprigionare, fermare, annichilire, Confinando l’inverno.



PARTE III

LA COROLLA DEL RICORDO (2008/2009)


Questa sezione ripropone nove componimenti dalla bellissima raccolta edita precedentemente da Chiara De Luca.

Per rispetto alla raccolta e per solleticare il lettore e spingerlo verso la lettura di questo testo, ripropongo la mia recensione fatta alla raccolta per intero qualche mese fa.



La corolla del ricordo è un testo imperdibile.

Contiene in sé un’umanità senza fondo, un’umanità che fora e sfiora il disumano (o meglio il sovrumano) poiché rintanata tra le pieghe raffinate d’una poesia pura, ricca, che mai scende a compromessi con la banalità e la pochezza di cui il mondo vive e s’intossica così facilmente.

E questa umanità immensa, questa poesia titanica, hanno un volto, e un nome: Chiara De Luca.

L’opera, divisa in due sezioni, si apre con tre versi che hanno tutto il sapore dell’eterno, tutta la consistenza eterea d’una poesia profonda e ben studiata:



Ancora vengo ad annusare l’abisso,

riaprirmi le vene per immergere

la penna e sanguinare versi sul silenzio



Si potrebbe dire, osando un po’, che in questi tre versi sta racchiusa una parte della poetica della poetessa, composta di tre elementi.

Uno è l’abisso, il vortice assurdo dell’ignoto, dello sconosciuto, dell’oscuro, che viene annusato, con una confidenza quasi amicale, ed è la fonte primaria e primigenia della poesia stessa.

La seconda componente, che è rappresentata dal secondo e da parte del terzo verso, è, invece, il dolore. Esso è appunto inchiostro necessario senza il quale non sarebbe possibile compiere il parto di quell’abisso annusato, ed è un dolore sentito così profondamente necessario da divenire quasi volontario (“riaprirmi le vene”, la cruenta azione è svolta dall’io narrante, che fa uscire da sé quell’abisso, quel dolore, visto dalla poetessa come il suo stesso sangue, una parte di lei, che le appartiene e che viene donato al foglio).

Il terzo elemento, infine, è rappresentato dal silenzio. Esso è altra componente fondante e fondamentale della poesia della De Luca, senza il quale la poetessa non potrebbe scrivere: lo descrive come foglio sul quale la poesia va a giacere. Il silenzio le consente la rielaborazione, la solitudine necessaria al conoscersi e al conoscere, la ricerca del coraggio che serve raccogliere per il parto.



I temi dell’opera poetica vera e propria sono vari ma ripetuti, cadenzati in modo ciclico come danza imposta all’animo della poetessa scolpito dal tempo e dalle ferite che esso le ha inferto.

Vi è un continuo ritorno di un passato che la ossessiona, che non vuole staccarsi dalla pelle, che non vuole smettere di essere suo, di torturarla, di tirarle le braccia per farla voltare indietro (“gli sguardi piantati / a sangue su ciò che sei stata”); (“Si riapre la corolla del ricordo”).

Vi è un continuo pensare alle parole, e alla loro inutilità, alla loro pochezza, ai rapporti falsi che si vanno creando tra persone non disposte al donarsi, al condividersi, troppo impaurite e incapaci, che si schermano dietro i falsi sorrisi (“Nessuno nell’aria del mattino – nell’uscire / presto lo spavento della notte – placa il sorriso/ bugiardo”) e dietro alle tastiere dei PC (“…e il vuoto / dei ti voglio bene da tastiera / e immensa stima…”).

Vi è un continuo rimando alla natura, una natura spesso empatica, una natura che strozza, crolla addosso, costringe, (“guarda come impercettibile / precipita l’intonaco del cielo”); (“Vento porta disperato il canto / di un bimbo che si culla nella pelle”).

Vi è un continuo rimando alla città, Bologna, alle sue stazioni (“Nostalgia di treni e di stazioni /di chi si siede e senza domandare / inizia a raccontarti la sua storia”), al rapporto complicato che vige tra la poetessa e la città stessa (“bugiarda sempre Bologna si risveglia”), alle persone che la calpestano e l’attraversano (“Vedi quante palpebre ha sull’autobus la vita”).

Vi è un continuo buio, un’atmosfera tetra, ferita, disperata, sublimata e illuminata, però, dalla poesia, che diventa così una poesia fatta di luci ed ombre, fortissima, grandissima, profondissima.

Ho spesso definito la poesia di Chiara De Luca “luce lugubre”, poiché rende bene questo suo essere buio che esplode di luce, e questo suo far spiccare il fiore luminoso dell’arte solo dopo più letture, solo dopo aver ricomposto i lembi d’una poesia sofferente, ansimante, spezzata, solo dopo aver colto il momento fulmineo in cui il boccio s’apre e sparge in tutto l’essere del lettore il suo agrodolce profumo.

Chiara De Luca implora ed impone pazienza, passione, silenzio.

Solo allora la poetessa sa donarsi, aprirsi, far riaprire La corolla del ricordo.



PARTE IV

DEL VENTO LA PREGHIERA (2009/2010)



Chiara De Luca, in genere, non dà titoli alle sue poesie, non lascia legami (se non quelli emozionali, sublimati e raffinati fino all’inverosimile).

In questa raccolta, intitolata Del vento la preghiera, invece, non solo troviamo due componimenti che portano un titolo, ma anche due poesie che portano, sdraiata ai loro piedi, la data in cui esse sono state partorite.

Si intuisce, dunque, quanto importante sia stato questo periodo, questa raccolta, per Chiara De Luca autrice e (inevitabilmente come indissolubilmente) per Chiara De Luca donna.

Il chiaroscuro deluchiano non smette di disseminare i suoi semi, che fanno sbocciare riflessioni infiorate di luci ed ombre anche in questa raccolta (come ad esempio “Un anno ha fatto il buio da confine al buio / ha chiuso la sembianza di parole in ombre / occultato oscuri spigoli in vastità di attese / di una luce relegata nell’eterno suo a venire”).

Non mancano nemmeno i continui riferimenti al mondo vegetale che la poetessa ama accostare a sé, al suo sentire, al suo vivere, come se la vegetazione, che vive di silenzio e solitudini, fosse l’unica forma di vita capace di capirla, di trovare il tempo e la sensibilità di osservarla. Lei stessa, accostandosi al mondo delle piante in più punti della sua vasta produzione, si attribuisce segretamente quelle caratteristiche, quel ruolo periferico eppure così delicato, così puro (“Hanno occhi piccoli le foglie aperte”).

Ma, nonostante queste costanti, la poesia della De Luca è, in questo lavoro, visibilmente e irremovibilmente mutato.

In primo luogo, nella forma. La poetessa continua ad essere riavvolta su se stessa, continua a proteggere il senso dei suoi versi dietro ad una complessa concatenazione di parole e versi.

Eppure quel gioco difensivo sembra essere parzialmente crollato, sembra avere parzialmente ceduto alle pressioni esterne come a quelle interne che le impongono continue aperture e chiusure, facendole suonare, nelle raccolte precedenti, il suo poetare come una fisarmonica.

In Del vento la preghiera lo stile si lascia rendere più blando, meno serrato e chiuso, più disponibile all’apertura, all’altro.

E’ un’apertura non solo nella carta, ma anche nella carne: essa non è frutto di una pace stipulata con il resto del mondo che le consente di essere più disponibile, ma piuttosto un varco immenso che Chiara si è procurata nella guerra della vita (e alla vita), e che sente di dover ripulire, di dover far spurgare più per se stessa che per gli altri (anche se poi questo aprirsi diviene dono immenso per il lettore, che non può che provare riconoscenza per un tale testo).

La maggiore semplicità (che non elimina, in ogni caso, la profonda richiesta di attenzione fatta dalla poetessa al lettore) è, dunque, un’esigenza tutta personale, di capirsi, di capire e, solo di conseguenza, di farsi capire.

Altro cambiamento sta nella lunghezza dei componimenti. Molti di essi, infatti, vengono percepiti come smagriti agli occhi di un lettore non ignaro della poesia precedentemente prodotta da Chiara De Luca, ridotti fino a quattro o cinque versi.

Il numero risicato di parole indica il profondo bisogno dell’autrice di concentrarsi sull’essenziale, che non è null’altro che l’essenza. La riflessione della De Luca, sempre profondissima, riesce così a toccare il suo apice, a raggiungere e afferrare il filo rosso che connette il tessuto di tutte le cose e di regalare al lettore una poesia elegante, agile eppure complessa, diligentemente pensata, plasmata, studiata in ogni dettaglio.

Le poesie di cui prima ho trattato (quelle titolate), considerate tappe fondamentali di poesia e di vita dalla stessa poetessa, rivelano il tema sotterraneo della raccolta, che striscia come serpe che la tenta –Eva in un Eden di inesplorata poesia- a guardare il pomo che pende da un albero che c’è, piantato nel terreno del suo vissuto, ma che lei finge di non vedere, che lei finge di allontanare, di rifuggire, di non desiderare.

La mela che pende eterea è l’amore, il serpente è quel volto incorporeo di uomo amato che Chiara tenta (forse invano) di superare, di schiacciare sotto il tallone.

In ogni caso quel pomo può essere anche visto come desiderio generico d’amore che trascende da quello vigente tra uomo e donna, semplice bisogno di quell’altro che la poetessa avvicina e al contempo allontana per riavvicinare nuovamente.

Potrebbe dunque essere l’incontro con l’altro, mai vero, mai pago, eppure così segretamente voluto, quasi silenziosamente preteso, la preghiera bisbigliata dal vento di Del vento la preghiera.



PARTE V

ANIMALI PRIMA DEL DILUVIO (2006/2010)



L’opera di Chiara De Luca, Animali prima del diluvio, è composta da quattro sezioni, le quali vanno a raccontare gli ultimi anni della poetessa.

Le varie sezioni sono: I grani del buio, nella quale Chiara sembra emergere piano piano, con un movimento ascendete, dal buio che la attanaglia, non riuscendo, però, a donarsi intera alla luce, ma solo a fare una sintesi di oscurità e luminosità; Confinando l’inverno, in cui traspare ancora una volta il chiaroscuro, che però ha un movimento circolare, di continue aperture e chiusure, un movimento che relega e intrappola; La corolla del ricordo, sezione piuttosto ristretta che sta a rappresentare una raccolta edita precedentemente da Chiara De Luca; Del vento la preghiera, che rappresenta una fase fondamentale della poesia (e della vita) della poetessa, tanto da mostrare una variazione di stile, una maggiore (anche se mai totale) chiarezza che prende vita a causa dell’immenso dolore da rielaborare, digerire, vomitare.

Animali prima del diluvio dà l’impressione di essere un mosaico perfetto: si può decidere di ammirare i colori e le forme di ogni singolo speciale tassello, oppure di guardare questa splendida intonatissima voce poetica per intero, assaporandone la complessità che caratterizza questo complesso.

L’opera è, di per sé, completa, in quanto traccia un disegno dalle linee chiare e precise per quanto riguarda il percorso deluchiano. In essa vi sono tutte le tappe cronologiche e storiche di un vissuto stropicciato e strappato dalle mani prepotenti della vita.

In ogni caso, però, questo percorso è un resoconto di viaggio, un insieme di fotografie selezionate, nel quale non sono, però, presenti tutte le immagini impresse nel rullino.

Il testo, infatti, è un insieme di selezioni di raccolte, e non un insieme di raccolte.

Ciò dice di quanto Chiara De Luca vorrebbe sapersi mostrare intera, e ci tenta con Animali prima del diluvio.

Ma essa è in lembi e piena di ferite, fasciata di dolore, incapace di darsi davvero, o meglio di darsi esattamente come vorrebbe.

L’opera intera, così come le varie sezioni, ci parlano un po’ di noi, con i nostri limiti, con le nostre incapacità, con le nostre aspettative auto deluse.

Ma ci parla anche di luce, di vita, di speranza, ci parla anche di quel periodo atavico e magnifico di quando sapevamo essere Animali prima del diluvio, ormai compromesso, lontano, perso per sempre se non nel ricordo.

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