Luca Ariano e Carmine De Falco, I naufraganti, Industria & Letteratura 2025
recensione di AR
Come scrive Giuseppe Andrea Liberti nell’Avviso ai naufraganti che chiude il questo poema a quattro mani, viviamo “un presente che più si presenta rapido e inafferrabile tanto più appare immobile e sempre identico a a sé stesso (…) è ancora fatto di guerre, stermini, bombardamenti (…). Guerre di ieri e di oggi segnano le poesie del libro (…). In fondo il mare nel quale si sta naufragando tocca tanti Paesi, tutti attraversati dagli stessi drammi; proprio questa condizione, però, lascia aperto lo spiraglio di un approdo. Si tratta di correrre alle scialuppe: ricordando che, per raggiungere la riva, bisogna remare tutti assieme.” (pp. 60 e 63). In effetti l’uso del participio presente, che riecheggia la precedente collaborazione dei Nostri (cfr. I resistenti, Edizioni d’If 2012), rivela una certa speranza: il naufragio è in atto, vi siamo immarsi, ma possiamo raggiungere la riva se recuperiamo umanità, attenzione, solidarietà. Già l’esergo gramsciano alla racclta ci avverte che L’indifferenza è il peso morto della storia, e gli Autori nella Introduzione (p. 6) scrivono: “… l’implosione finale delle ideologie, e l’esplosione dell’intelligenza artificiale, sempre più abile veicolo di di generazione di prodotti culturali, ci proiettano in un nuovo status di naufraganti in una terra di mezzo tempestosa, dove diventa anche difficile condividere opinioni ed idee, intravedere approdi.”
L’opera ci si presenta come una serie di quadri coesa e frammentata al tempo stesso (sia in senso diacronico che sintattico) e il messaggio, pur essendo carico del vissuto e dei punti di vista di Luca e Carmine, assume una forma poematica sobria nello stile ma semanticamente molteplice, dislocata in vari momenti storici (per lo più del secolo breve e di quello che stiamo attraversando) e soggetta a varie angolazioni e rifrazioni. Alcuni esempi:
(…)la bolla che esplode la ruota
che gira non prima, la droga, il sogno,
l’airone, non scordarti mai, il giorno primo,
una volta fa male, la prima marchetta,
costretto in appartamento, il buio
il silenzio, la gente che canta. Vuoto l’immenso
la guerra che prima la vedi, diretta
in tv, il fumo, la droga, il sonno, l’airone.
per alcuni la prima e ultima è volta. (p. 8)
Le sirene non sanno nuotare. Non è a Copenaghen che Julia
festeggia il suo compleanno. Padri fuggiti con riluttanza,
quasi aspettassero ineluttabile
un sovietico ritorno. La gente si accalca e non c’è
epidemia nell’ammasso. Solo muta
è la voce di un bimbo che strilla
sotto corpi stipati. È questo
il millennio immaginato?
A volte non vediamo la luce, oppure è cattiveria che nuoce. (p. 10)
L’ultima neve, qui sulle alpi e non c’era
nessuno a guardarla cadere. L’ultima
non si sa mai se lo sia. Ce n’è traccia
su satelliti che girano in tondo
stratificando di peso
ogni millimetro d’aria, spargendo servizi
utilissimi o segreti, ridicolo
appare quel vecchio, che prega
al biancore che fu. (p. 15)
Il conto delle ore, dei minuti scorre
in una vita, nel profumo di candele,
fiori freschi e cenere da preservare
in un’urna di parole.
Torneranno le lacrime nelle notti
e parranno passi di spettri,
preghiere alle luci dell’alba:
un bimbo da crescere, abbracci
lunghi il tempo breve di baci serali. (p. 23)
(…)
e ci si chiede se soccorrere barconi
o lasciarli sprofondare nel lavoro
malcelato del mare. Quanti corpi
troveranno gli esploratori tra mille
anni lì tra il mare di Sicilia
e il Nord Africa, tra Marocco e Spagna (…) (p. 26)
Fattori che s’uniscono nefasti
screzian giunture, i tremolii reumatici.
Il dazio che immunizza il tuo sistema,
finché le cellule memoria avranno.
È quando ci scordiamo della storia
che siamo condannati ad ogni aggravio. (p. 47)
(…)
riprenderai coscienza solamente
un attimo per allontanarti (e maledire)
ora del tutto da quei mondi
di paure e guerre fredde mentre
il sangue vero vola e viola
liquido sparso consistente e caldo
a rivelare definitivamente la prova
d’essere irrinunciabilmente sé stessi. (p. 53)
Il poema si conclude con i versi qui sotto. Sono immagini che ci scuotono e ci dicono che siamo responsabili nel nostro (personale e partecipato) quotidiano. Ci è chiesto di uscire da una letargia che lascia spazio alla violenza, alla forza, alla indifferenza, alla omologazione. La memoria va coltivata, le grida di dolore vanno accolte, l’empatia va messa in atto. La campana suona anche per noi:
La gusti nella scarsità
delle vivande, nel sapore di una sete viscerale,
che resta sulla lingua per ore.
La tocchi nelle mani lievi e tremanti
che pesano macigni di orrore
(sensazione inumana di non essere
più capaci di misurare le cose)
Seduta sulle terrazze, vecchia vicina di casa
durante l’assedio è la morte. (p. 55)

Nessun commento:
Posta un commento