mercoledì 22 maggio 2024

“Con poco nomino il molto / e porgo l’infinito.”

Franca Alaimo, 100 poesie, peQuod 2024, collana Portosepolto diretta da Luca Pizzolitto e Massimiliano Bardotti, Volume a cura di Luca Pizzolitto

recensione di AR




Alla p. 82, nella sezione centrale di questa raccolta, troviamo la seguente invocazione rivolta agli angeli: “Vi prego: insegnatemi qualcosa / che abbia senso, / qualcosa che non diventi / sempre meno vivo / fino a sparire in questo / vuoto.”
Dalla sezione iniziale, eponima del libro: “E va bene, mio Dio, fa’ quel che ti pare, / conosco da sempre l’abbandono: / è questo vuoto qui, in mezzo al cuore, / è questo sentirsi vivi invano.” (p. 65); “Quella breve distanza / così incolmabili / tra l’indice di Dio / e quello di Adamo.” (p. 43). Franca, come credo tutti noi, sa di dover far i conti con la paura (del dolore, della solitudine, della morte), e cerca di addomesticarla “sapendo / che molto e poco / non sono differenti / sulla grande palma di dio.” (p. 34). Si interroga su: “Una cosa più vasta / del nulla che inghiotte i nostri / sogni e nomi di Dio.” (p. 33). Afferma che: “Il mondo, là fuori, / non ci appartiene / e le cose non sono / quelle che nominiamo.” (p. 27); e che “Le parole vanno sempre / e non sanno che farti cadere.” (p. 25). Si augura nella poesia incipitaria di vedere “fiammeggiare, / prima della devastazione, / il sacro delle cose.” (p. 13),    

Vuoti insondabili ricorrono in queste pagine, ma hanno come sostegno il suono dei versi che, se non li riempiono, tuttavia li fecondano, e quindi, almeno in parte, li definiscono e li vitalizzano. Franca Alaimo fa una radiografia di sé con pennellate di fiato, vibrando con la natura che fiorisce in mille forme, con il cielo titillante di stelle, con l’orizzonte che sta lì a richiedere un senso e forse lui stesso ce lo dà, rimandandoci oltre. Il linguaggio è terso con le sue venature di malinconia, con il sotteso desiderio di sparire, la vita non disdegnando di porci davanti i nostri e altrui limiti, di lasciare lividi, fratture… vuoti, appunto. 
C’è un’ambivalenza fra un certo attaccamento, una sorta di amore/odio, nei confronti del nostro “stare al mondo, / (…) / sapendo che da te, / dalla tua memoria, / dai così tanti amori / e piccoli bagliori quotidiani / dovrai presto separarti” (p. 116, ultima poesia del libro che chiude la sezione non a caso intitolata “Versi dall’occidente”), e il fare esperienza di un corpo sempre più, con lo scorrere degli anni, acciaccato e dolorante. C’è dunque un desiderio (anche questo ambiguo perché si intravvede un sorriso inquieto e incerto) di distacco, ovvero di accedere a una dimensione s-corporata (cfr. la poesia a p. 112): “Questo mio involucro così piccino / (che detesto e che mi detesta) / da qualche tempo non sta nemmeno bene: / ho nausea, dolori, e un gran mal di testa. / Penso che non ci sarà più occasione / di stringere fra noi un patto di alleanza. / Finirà come per tutti, questo è sicuro: / uscirò dal carcere di questa mia sostanza / e finalmente me ne andrò in vacanza.”

Il distico che intitola questa recensione è tratto dalla sezione mediana (“La figliatura”, p. 90) che parla molto della poesia come medicina, una azione sciamanica fecondatrice degli abissi e indagatrice impavida di mondi altri: “Arde nel mistero del suo corpo musico, / parla con gli angeli, il cielo, l’aria azzurra. / Va a capo perché ama il vuoto, / dove cadere e perdere sé stessa.” (p. 86); “La poesia, tutto sommato, / è un rito di ricomposizione: / somiglia all’arte giapponese / del kintsugi che sparge sulle ferite / un po’ di polvere d’oro.” (p. 85)     

100 poesie che contengono, come scrive nella bella Prefazione Alessandro Fo (p. 9): “(…) un profondo apprezzamento del bene costituito dall’esistere, e una sentita, velatamente commossa, riconoscenza per le offerte che la vita (…) può continuare a presentare finché il respiro durerà.”

 

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