lunedì 1 gennaio 2024

“gli invidiosi funamboli del niente”

Massimo Morasso, Frammenti di nobili cose, Passigli 2023

recensione di AR


Mi è faticoso, riemerso da più letture di questi versi, scegliere quali citare: sono infatti molti quelli che ho sottolineato, molte le poesie che si sono fatte spazio in me con risonanze durevoli e profonde. Ma iniziamo questo viaggio partendo, come spesso amo fare nelle mie recensioni, dalle ultime pagine: “il demonio con l’arpione, l’astutissimo – / si specchia in te e cancella l’orma dei tuoi passi: / (…) / non sono qui per salire su un carro di virtù, / ma per essere schiacciate sotto a un carro di fuoco, / e per far scendere quel fuoco nel cenacolo dell’anima, / e celebrare, nell’intimo del vero, eucarestia” (da «Spine», ultima sezione del libro, p. 107). Nella sezione precedente, «Didascalie e disincanti» (p. 101), troviamo: “Bello, sarebbe, dialogare / con Caproni, quell’uomo-orecchio / assoluto e finissimo (a)teologo / per il quale cosa importa / se Dio esiste davvero oppure no. / Cosa, se è amissibile ogni cosa. / Scritto così: con una m sola.” 

Risalendo la medesima sezione, sotto il titolo di Legami incrociati, il poeta genovese confessa (p. 95): “E io, per me, in me non muore mai / la tentazione del poeta / di rinchiudere la lingua / come un disabile in famiglia / (…) / I social. L’a vanvera si parla / e rotola sull’oggi, e gonfia il vuoto dello smisurato / desiderio d’esserci, di dire. / Ma no, ripeti a monito / e pazienta: trascina le parole nel silenzio, e / spezzale come fossero dei pani, / sapidi di umano…”.

Sono Frammenti che odorano di fratellanza e liturgia, ricercano (con timore e tremore “come un cucciolo fedele”, p. 71) i semi del divino, il Suo messaggio espresso nei gesti di attenzione, nascosto e a volte muto (o siamo noi più sordi e ciechi?), sovente misterioso, in quanto non ci sono algoritmi né definizioni che possano formulare una teodicea assoluta (a rischio sempre di algide astrazioni razionaliste) o contenere il soffio della grazia-amore: “Perché s’immischia con noi umani / e ci martoria in un Calvario senza uscite / tragicomico dramma da giocare / che eternamente ci dona stravagando / e intanto si nasconde” (Dio, p. 86); “mi osservo preda del tempo” (Preda del tempo, p. 81); “con entusiasmo mi smarrisco / batta come vuole il cuore / e mi coli nel sangue della realtà” (Vampate di passione, p. 76); “Tragedia non è lo stare al mondo / è nostalgia dell’altrove / lo strappo dentro / di chi vive in esilio / e patisce inutilmente l’infinito / che non siamo e ci manca” (Bagattella del tragediografo, p. 69). Le precedenti citazioni sono tratte dalla sezione «Diarietto metafisico» particolarmente intessuta di domande provocanti e “in lotta” anche con Dio, una lotta angosciante eppure fiduciosa, come si evince da Materia, viaggio (p. 61) che apre il «Diarietto»: “C‘è in questa materia / che geme e stride / un vuoto un’attesa / un dipendere da Dio / c’è in questo viaggio / una certa dose di spirito / che unifica stringe / tutto con tutto / anche l’idea della fine.”

Continuando a risalire questa raccolta, nella sezione «Nel sapere della distanza», Massimo ci dice col cuore in mano: “le cose mi ricordano che esisto, / e io – non vedi? – rimbalzo dentro i nomi / (…) / Avere fede, sperare di sussistere / è scuotersi di dosso l’idea di essere mortali / non dare tregua alla pazzia d’amore.” (p. 55); “Succede / che ci si senta affiatati // io e la morte.” (p. 57).

Eccoci infine arrivati alla sezione iniziale «Geopatia»: “Ho visto nella terra che non c’è / uno spirito, e il suo nome era / Dio. // Ora è scomparso / quell’incredibile vallone immaginato, si / è perso chissà dove è mi fa male.” (p. 48). Versi struggenti a partire dal primo che esibisce una inquietante ambiguità sintattica: [nella terra che non c’è] può infatti costituire un sintagma preposizionale, oppure essere spezzato avendo così dopo il complemento di luogo [nella terra] una relativa oggettiva [che non c’è uno spirito …]. A p. 47 il poeta si denuda: “e provo o spossessarmi / del poco che io sono: / vorrei poter dimenticare, / abbandonare tutto / nel vuoto senza nomi –”. A p. 45, questi intensi endecasillabi: “i diavoli insistano a ripetere / che tutto si fa polvere e non vale, / gli invidiosi funamboli del niente”. A p. 45 un desiderio di ventosità divina: “Se anche di noi non rimanesse / traccia. Niente di di niente / (…) / e si cadesse senza aver impresso un’orma / purchessia, neanche l’orma stessa del cadere, / e ci sentissimo puri, ineffabili, / ventosi come Dio”. A p. 43: “Terribile per te / nel tempo che ci dissipa / il rodio – qui adesso – della morte, / il suo andantino muto, / quotidiano.” / (…) / Pensa l’errore / di tutte le ragioni / senza amore. Sentilo / dentro. Sentilo / di più.”

Una consonanza fra cose-pensieri-parole-pulsioni anima il marmoreo dettato di questi Frammenti, lascito parlante di una vita che conosce il prezzo di questa impermanenza invasa (già e misteriosamente) di eterno. I ricordi sono trasfigurati, l’io si riconosce di sguincio, di riflesso e un po’ a fatica. L’anima-corpo è sempre infatti in trasformazione e l’argilla di cui è plasmato è vaso delicato dei sentimenti, cassa armonica dello spirito a cui dà voce e suono facendone quell’unicum per cui il Verbo si è incarnato. Allora Massimo può affermare: “Tento di dare voce alla scintilla / dell’eterno che mi abita nel tempo.” (p. 21, altri due stupendi endecasillabi); “Ora ho levato il / mondo e / vivo solo negli anfratti / meno esposti al reale: / sono una nostalgia celeste / ardentemente arresa al suo delirio.” (p. 7).

Il libro, come dicevo all’inizio, è ricco di suggestioni e immagini bellissime, un paio di esempi per concludere: “Io tremo come un corpo, sinopia della polvere.” (p. 11); “Se ogni cosa è un marchio dello spirito / risale al nessundove in linee d’aria” (p. 20); “rimbalzo in mezzo ai nomi / come un’eco. (…)”.     

          

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