mercoledì 3 gennaio 2024

“Il dono non ricambiato” scava nei rapporti familiari. Una nuova giovinezza per la poesia.

recensione di Silvia Lorenzini pubblicata su Brescia si legge il 3 gennaio 2024




Il dono non ricambiato, la poesia come percorso terapeutico che scava nei rapporti familiari nella nuova raccolta del giovane poeta bresciano Lorenzo Gafforini

Molti la davano per spacciata. Morta, sepolta, mummificata. La poesia, quella strana cosa da intellettuali, per lo più incomprensibile, fatta di parole astruse. E poi, in fondo, nel mondo di oggi, dove ha dignità di esistere solo ciò che può mostrare e dimostrare la propria più immediata e ovvia utilità, quale il senso, quale il posto dello scrivere versi? Eppure, contro ogni aspettativa, la poesia sta godendo di una nuova giovinezza, sorretta proprio dalle spalle (e dalle penne) delle nuove generazioni che non tralasciano di affollare i social di distici, di attacchinare post-it di aforismi sui muri delle stazioni delle metropolitane, di gareggiare nelle sessioni di poetry slam come poeti provenzali in una tenzone.

A Brescia una delle voci poetiche della Generazione Z è Lorenzo Gafforini, 27enne bresciano che, a dispetto della giovane età, ha alle spalle la pubblicazione di varie raccolte di versi e di racconti.
Il dono non ricambiato (Fara Editore, 2023) è la sua ultima fatica, un libro minuto di cinquantacinque componimenti in versi liberi, racchiusi fra un prologo e un epilogo: al cuore della poesia la sua famiglia, il padre, e il quartiere bresciano del Carmine.

Un giovane poeta che ama sperimentare

Lorenzo Gafforini è un autore poliedrico, uno sperimentatore. Raggiunto dalla redazione di BSL, racconta di libri e di poesia con lo stesso entusiasmo e la stessa golosità con cui un bambino parla dei dolci di un negozio di caramelle. Concluso il Liceo delle Scienze Umane, Gafforini ha proseguito gli studi con la laurea in Giurisprudenza e di quello ora si occupa. Ma scrive da sempre, da quando aveva diciassette anni, precisa lui. Non è certo fra quelli che crede che la poesia sia finita, anzi, è profondamente convinto che non morirà mai: si trasformerà, si contaminerà con altri generi e forme artistiche, ma troverà sempre un suo spazio. Forse per questo Gafforini non è un poeta “puro”, ma uno che ama cimentarsi su più fronti: romanzo (“Queste eterne domeniche”, Le Giraffe di Robin edizioni, 2010), curatele (H. Ball, Il boia di Brescia, Fara Editore, 2023 e Evgenij Evtusenko, “Se tutti i danesi fossero Ebrei”, Lamantica Edizioni 2022) e, ancora, prosa lirica e cortometraggi.
I suoi versi non sono di semplice lettura. Si presentano come testi brevi e senza titolo e questo irretisce nell’idea di una poesia immediata. La lettura svela però da subito un articolato tessuto di immagini, accostate per lo più con ardite analogie che richiedono al lettore impegno interpretativo. “Per me la poesia deve creare connessione – afferma – è composta da strati di significato, una sopra l’altro. Lo scrittore deve affascinare il lettore, stimolarne la curiosità, ma senza sensazionalismi, senza vendere fumo”.
La consapevolezza del dono ricevuto

Rivedo i nonni, ormai entrambi scomparsi, come se fossero anch’essi sbiaditi. Sogno le loro fotografie sradicate dalle lapidi da una forte tempesta e destinate a giacere sparse con mille altre. Rivedo i loro volti graffiati, oltre la patina, con quell’allegria malcelata ai pranzi festivi. Papà non penso abbia mai dimenticato la loro inerzia, la loro inedia. Perdonato sì, con gli anni a rimestare il proprio rancore e vergogna. Non ha voluto compiere lo stesso errore con me. E io che non me ne rendevo conto. (Lorenzo Gafforini, Il dono non ricambiato, p. 14)

Quando si incontra Lorenzo Gafforini si viene colpiti dal contrasto fra la limpidezza con cui racconta di sé e della sua opera e l’ermeticità di molti suoi versi, fra la solarità dell’uomo e la sofferenza del poeta. “Il dono non ricambiato” è frutto di un travaglio interiore, in cui Gafforini scava nei ricordi della propria infanzia, ricucendo le tracce del proprio rapporto con il padre e con la famiglia paterna perché, come sostiene, per lui stesso la poesia ha significato soprattutto “una terapia, un percorso in divenire che mi porta a star bene”.

Il profondo legame con il Carmine

Contrada Pozzo dell’Olmo prende il nome da un affresco, ormai sbiadito, all’angolo con Contrada Santa Chiara. Lì s’erano insediati i miei nonni: lui originario dei Ronchi e lei d’una frazione di Montichiari. […] Papà parla laconicamente della propria infanzia. Ricorda con affetto i pomeriggi all’oratorio con gli amici, le domenicali partite a calcio. Per anni non ho saputo altro. È emerso poi il ritratto di una famiglia assente, incostante. Un quadro desolante, mischiatosi con quello delle altre vite del quartiere. Di una comunità incapace di capire le esigenze di qualsiasi bambino. (Lorenzo Gafforini, Il dono non ricambiato, p. 13)

Tutto inizia in Contrada Pozzo dell’Olmo nel pieno del quartiere del Carmine, lì le origini della sua famiglia e della memoria dell’infanzia.
Da qui la raccolta si sviluppa in frammenti di ricordo e di dialogo, in un canzoniere in cui l’intero è chiave di lettura della parte e viceversa. Dolore, morte, abbandono, solitudine sono i motivi dominanti che sostanziano il volume e si raccolgono in versi oggettuali e intensi, fatti di verbi e di sostantivi, di azioni e di cose. Sono i sentimenti di un padre che soffre, di un bambino divenuto adulto che si appresta, forse, a divenire a sua volta padre e che vuole essere “fardello e testimone del pianto” di quel genitore che gli ha consentito un’infanzia “ignara delle suppliche”, non priva della durezza della vita, ma protetta dall’amore. Ed è questo il dono che il figlio capisce di avere ricevuto dal padre, un dono che non si ricambia, perché un dono non è un regalo e non richiede mai di essere ricambiato.

LI V.
è tutto stelle il cielo/ se colto in un bivacco/ l’universo appare chiaro/nitido, come fosse/ esploso nel grido/sono mie le stelle/donate dal tuo
(Lorenzo Gafforini, Il dono non ricambiato, p. 70)

Gafforini ha un legame profondo con il Carmine: è il luogo della sua infanzia, ma anche il luogo degli studi giovanili, dell’università lì accanto. Adesso che è un adulto, la vita lo ha portato a trasferirsi fuori città, ma il fascino (un po’ claustrofobico, precisa) dell’architettura del quartiere gli infonde un senso di tranquillità che egli continua a cercare nei luoghi in cui nel tempo ha scelto di vivere. “Brescia è una città viva”, sostiene. E la dimensione della vita è quella che, attraverso la catarsi della scrittura, trionfa alla fine anche nei suoi versi. “Non mi piace il dolore per il dolore”, conclude Gafforini alla fine della nostra conversazione,” non voglio essere pessimista nei miei scritti. Vorrei che la mia poesia fosse un messaggio di sospensione, di respiro. Voglio condurre i miei lettori in ambienti claustrofobici, per poi aprire loro una porticina a lato”. Anche questo è un dono: uno spiraglio di bellezza, di vita, di poesia che ciascuno può accogliere, custodire, tramandare.

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