Roberto Maggiani
I poeti: umani, troppo umani?
*
A proposito delle
fregole per la pubblicazione
(ai poeti: gente presuntuosa)
Da troppi anni [ormai] scrivo del mare
davanti al mare {è imbarazzante}
:mi abbandono ad astute nostalgie
per soddisfare la persona
che tengo prigioniera nel mio corpo.
Anche tonni e merluzzi hanno
capito che non ci sono sardine
in questo oceano→ ma il prigioniero no
non molla: è imbarazzante.
Commento.
Un testo poetico
breve e fulminante, precorso da una spiazzante lucidità e da un'intensa (e
agra) intelligenza investigativa che si presenta, in primo luogo, come un testo
di riflessione sulla non rara piccineria delle ambizioni legate alla scrittura
poetica. Dunque: perché si scrive una poesia? Per mostrare sé stessi, con
ostentata civetteria? (e che importa, di te, agli altri? - anzi, spingiamoci
più a fondo: sarebbe il caso di ripetere, insieme con il grande e vertiginoso
filosofo di Röcken: "Che importa di me stesso?"); o forse si
scrive per riferire qualcosa che si è ricevuto in dono, come una sorta di alta e
altra (cioè divina) rivelazione, inappellabile e superiore? (santo Arimane,
che presunzione! E che ridicola auto-sopravvalutazione!). Si scrive forse,
allora, per gioco o per noia o per la lode altrui? Ovvero per un vago e
intellettualistico esercizio rettorico? (che orrore; e che mancanza di amor
proprio! ...).
Qui, tuttavia, noi
non possiamo e non vogliamo fornire una risposta alla questione sollevata
("Perché scriviamo una poesia?"). Ci si concentri, invece, sul fuoco
incandescente di questo inedito di Roberto Maggiani (1968), tra i più notevoli e
sensibili poeti della sua generazione, nonché romanziere ed editore: un testo
forte e acuto che ci invita a riflettere sulla condizione non di rado
involontariamente comica o grottesca (e patetica) di chi vuole a tutti i costi
scrivere (e pubblicare ciò che scrive), commettendo l'errore di parlare di sé
stesso e con sé stesso e per sé stesso; un inutile capriccio che sopravviene per
soddisfare la persona che si tiene prigioniera nel proprio corpo (come
nota argutamente l'autore). In simili casi, il desiderio - o peggio, o
addirittura, la brama - di scrittura del poeta, assalito dalle sue ipocrite o
vanitose astute nostalgie (che superbo ossimoro!), si ingolfa, incautamente,
in un verboso chiacchiericcio di natura egoica, privata, narcisistica,
autoconsolatoria, autoassolutoria, autogratificante, autocurativa... e via di
questo passo. Ma noi ci chiediamo: se l'io è solo un'impostura, perché mai si
ritiene necessario il perseverare nell'illusione di trasformare la scrittura in
un piccolo (e patetico) confessionale laico, psicologico (semmai con
l'intenzione presuntuosa di far passare ciò che è stretto, limitato, piccino -
appunto laico, umano - per un messaggio verticale, metafisico, ultrapersonale,
assoluto)?
Una poesia che
medita, dunque, acutamente, sul senso della stessa poesia (e sulla necessità
etica di scegliere il linguaggio poetico per interrogare i significati di
quella oscura fantasima illusiva che noi chiamiamo vita o realtà); la poesia è
anche e soprattutto questo. È avanzare tra le macerie del visibile
e dell'invisibile dubitando, decostruendo, rinnovando di continuo la propria
forte, infinibile ricerca di verità e di senso.
[In alto, un'opera di Riccardo Dalisi]