Graziella Sidoli, Il male nei tigli, Collezione Letteraria, Puntoacapo 2021, pp. 114.
recensione di Alessandro Pertosa
Fedele alla sua essenza trilingue, Graziella Sidoli torna con Il male nei tigli a veleggiare fra le onde di un mare in tempesta. E lo fa mescolando ritmi, sonorità, temi, in un modo così originale, da rendere la sua voce unica, riconoscibile, ma al tempo stesso complessa. Non è certo questo un prosimetro che si può leggere in tram o magari dal barbiere. No, qui bisogna mettersi a sedere. Sgomberare il campo dai rumori della quotidianità e ingaggiare una lotta con le parole, verso dopo verso, riga per riga, facendo i conti con la densità della sua voce. Che è probabilmente figlia del mondo linguisticamente complesso, in cui l’autrice vive sin da quanto è nata. Italiana d’origine, argentina d’adozione, angloamericana in età adulta, Graziella è abitata da tre lingue che risuonano in lei sotto forma di polifonia di contrappunti e salti. Di strappi e rimandi a specchio. E se ha ragione Wittgenstein a scrivere che il limite del mio linguaggio significa il limite del mio mondo, ai tre mondi abitati dalla Sidoli corrispondono tre linguaggi diversi, e magari anche di più: perché l’intreccio delle sonorità, dei significanti, dei suoni, produce qualcosa d’imprevisto, di unico, forse persino di caotico. Ma è un caos foriero di bellezza, di desiderio e di passione.
Alcuni testi di questo canzoniere trilingue nascono direttamente in spagnolo, altri in inglese e sono qui pubblicati in lingua originale e nella versione italiana. Perché di questo si tratta. Non di traduzione, ma di versione. D’altronde c’è traduzione solo quanto il traduttore è una persona altra dall’autore. Uno scrittore, invece, che si auto-traduce riscrive il testo per due volte; lo riscrive facendolo vivere all’interno di due mondi, di due orizzonti linguistici diversi, a cui appartiene indistintamente. Abitando entrambe le lingue non traduce (non tradisce), ma riproduce, rievoca, riesegue.
Il male nei tigli, l’ho accennato, è un testo molto denso, e allo stesso tempo sfuggente. Testo che supera i generi di prosa, di poesia, si presta a letture molteplici e amoreggia continuamente con la filosofia.
Ora, prima di proseguire è necessario un chiarimento. Etichettare un autore non è mai possibile e nemmeno opportuno. Tuttavia, contraddicendomi subito - perché forse solo la contraddizione è l’unica modalità espressiva capace di tener conto della complessità - contraddicendomi, dicevo, mi sentirei di definire la poetica della Sidoli innanzitutto filosofica. È poesia filosofica delle migliori. Profonda e radicale nel suo darsi.
È nei versi il costante riferimento al male, tema così centrale da apparire già nel titolo. Male inteso non come realtà ontologica - ovvero come qualcosa che è, che esiste - bensì semplicemente come un qualcosa che accade e di cui si fa esperienza. Si avverte qui l’eco della teodicea medievale, secondo cui il male non era altro che diminutio boni: esiste solo fintantoché esiste il bene, l’unico vero essere. Esiste solo come privazione o diminuzione di bene. Ma quando il bene scompare, sparisce anche il male. E in questo senso leggiamo dunque:
Il Male non è cosciente
come il mare quando si abbatte indifferente
in tempesta sulla scogliera e sulle creature
il cui fuggire è inutile, prede ora solo
dello svuotamento del Bene, ombra assente
che scompare senza preavviso (…)
Va avanti
fino a esaurirsi delle sue involontarie voglie
per spegnersi poi così, senza spiegare mai,
perché la sua disconoscenza è assoluta, così -
perché non ci sono specchi una volta smarrito il Bene.
Appunto, non ci sono specchi una volta smarrito il bene. E il male non potrà riflettersi più, condannato a non esistere, travolto dalla fine dell’essere. Il male che travolge l’essere-bene finisce per schiantare se stesso e sparire nel vuoto cosmico, nella radicale dimenticanza.
In senso filosofico vanno letti anche i versi di Amputazione #2, in cui si parla di intelletto vegetativo e conoscitivo: e qui l’orecchio sente risuonare la voce di Aristotele e della filosofia greca. Anche se, in un perfetto sincretismo culturale, subito Graziella volge il suo sguardo all’intelletto del cuore. E l’intelligenza del cuore rimanda al sapere orientale. Si pensi alla medicina cinese che considera il cuore il raccordo tra il corpo e la mente. O ancora alla lingua giapponese che ha due diversi termini per significarlo: uno nomina l’organo fisico; l’altro indica la saggezza del cuore, appunto. Il cuore sa. Sa in modo strano. Conosce secondo parametri tutti suoi, ma sa.
Poesia filosofica dunque, ma non solo. Anche civile (eh sì, nonostante sia davvero orrendo questo termine, non ne trovo ora di migliori): voce che risuona nella critica alle culture sclerotizzate, definite da supponenza e ignoranza; così come il riconoscimento della diversità come valore, inteso quale fondamento per la costituzione di una nuova coscienza civile.
Tuttavia, filosofia e civismo si muovono all’interno di un orizzonte tracciato dal titanico scontro tra amore e morte. Tema questo che ha attraversato da sempre la poesia di ogni tempo e di ogni luogo. Si pensi al Cantico dei cantici, forse uno dei testi più antichi in tal senso. Nella versione comune leggiamo: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perche forte come la morte è l’amore (8, 6). In verità la traduzione è opinabile (ma non è questo il luogo per discuterne), perché bisognerebbe rendere il verso così: «perché più forte della morte è l’amore». Ed è precisamente in questo senso che Graziella Sidoli intende il rapporto tra amore e morte. La morte non è il sigillo, il male non dice l’ultima parola, ma l’amore vince e resiste; oltrepassa il confine e supera le regole, la legge. Perché l’amore è sempre illegale e ingiusto. Se l’amore non apre a una dismisura, se non spalanca le porte dell’infinito e non schianta la regola meschina, è accordo, contratto, ma non amore. L’amore è immeritato. Sempre. Il giudice giudica il giusto. L’innamorato ama anche colui che non lo merita.
Questo è il sapere del cuore che vince ogni male. E se anche così non fosse, alla fine, poco importa. La speranza sarebbe già abbastanza.
Ecco, di tutto questo Graziella Sidoli ci fa dono.
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