della VII edizione del concorso Faraexcelsior
(Antonio Vittorio Guarino, Cesare Davide Cavoni, Claudia Piccinno, Germana Duca e Teresa Armenti)
hanno decretato vincitore con la raccolta
Le campagne hanno bocche
Andrea Biondi (Treia, MC)
Andrea Biondi è nato a Rimini nel 1986. Nel 2009 si è laureato in Lettere presso l'Università di Urbino; nel medesimo anno e presso lo stesso ateneo ha conseguito il diploma in Scienze Religiose. Dal 2011 è docente di religione cattolica nella scuola pubblica italiana. Nel 2014 si trasferisce a Treia (MC) con moglie e figli. Attualmente è professore di religione cattolica della diocesi di Macerata. Ha scoperto la poesia leggendo la raccolta poetica Il ramarro di Paolo Volponi. Non ha mai pubblicato.
La notte
Le campagne hanno bocche
che sono porte del dolore.
Quando scendo ai campi
vedo macchie qua e là
come spiriti che affiorano.
La città dei morti è nei campi
con midolli che corrono lungo i fossi
e parole sparse su bianche lenzuola.
Sicuramente un uomo
ha disegnato su molti cocci,
deve avere molto amato.
Salmo
Sono uscito nella sera
davanti alle pastorali campagne
con la luna piccola falce
e una stella luminosissima.
Ho avuto il desiderio di una piccola pecora,
essere condotto per i campi brulli,
vuoti nella notte,
morire tra le braccia del pastore.
È venuto l'agnello a condurmi,
m'ha invitato con voce sottile
alla festa dei pascoli,
mi ha baciato con gli occhi di gennaio.
L'orgasmo
L'orgasmo delle campagne
ha spaccato le case,
le pietre sono rotolate nei fossi
e le famiglie sono scoppiate in pianto.
Io ho preso le carte,
ho pensato al ginepro.
Ho vergato versi sottili
che mi hanno fatto piangere.
I cuccioli d'uomo rifuggono le tane
quando i campi sciolgono in ombre.
Gesù! Gesù! Non farci morire.
La quiete delle campagne
La quiete delle campagne mi spaventa.
Scendo ai campi,
ho paura che la terra tremi.
Al lago della fornace
ci sono due gallinelle d'acqua,
non dicono nulla,
mi vedono e se ne vanno.
Gennaio è instabile
come i vapori nella macchia,
se ci entro la sera
non vedo più nulla.
I miei figli non temono:
l'istinto di mammiferi li fortifica.
«Spettri, agnelli e cristi vagano per i campi e le campagne, che tornano nella voce che li nomina, invoca ed evoca, quasi a richiamarli in vita da un passato ancestrale. Le campagne hanno bocche recita il titolo di questa silloge nei cui versi si sente l’eco di Pavese e del Pasolini campestre, bucolico delle poesie dedicate alla sua terra, o ancora di Attilio Bertolucci: tutti narratori di una realtà già all’epoca sempre meno reale e più proiettata verso quell’aldilà nel tempo che chiamiamo mito, sogno, archetipo. E l’autore sembra aver raccolto l’eredità di questi grandi: infatti riempie di fantasmi e simboli il suo racconto. Sullo sfondo di notti nelle quali “la luna ha steso sui campi un bianco mantello”, il Nostro intreccia l’antico sentimento panico e pagano alla pietà religiosa cristiana, e si incontrano così figure di uomini e di bestie, di più che uomini e ombre, di cristi, giani e saturni, che si susseguono, sovrappongono e sfilano nel corteo di immagini recondite e segrete.
Nella poesia Treia, Melkisedek, il misterioso re di Salem citato nella Genesi, arriva e invita a baciare l’agnello, e l’agnello (evidente richiamo al Cristo) ci protegge e incita a proteggerlo, a consolarlo, come si legge nella lirica “L’agnello errante”: “[...] sta l’agnello/ col vello sbiancato nel sangue/ e canta: «consolate l'agnello, consolate il mio popolo»”; e, ancora, ne La locanda quadrigesima: “La notte gli spiriti battono alla porta,/ noi stiamo dietro e non sappiamo cosa dire./ Chi ha il violino lo prende,/ chi ha il tamburo lo batte./ Arriva l'agnello con una fascia azzurra sugli occhi,/ batte le zampe sulla tavola e scrolla il capo./ [...]L'agnello, il mite, ci culla e ci allatta,/ ci fa addormentare in lunghe stoffe dorate:/ «dormire, risorgere, dormire».”
A testimoniare dell’intreccio su menzionato, dopo il Cristianesimo con i suoi simbolismi, ecco apparire Saturno, il vecchio dio dei campi, che nella poesia omonima presente nella raccolta “porta le nere catene” ma che stando a ciò che ci è stato trasmesso nel suo mito è anche il dio della tanto agognata età dell’oro, dell’abbondanza. E, quindi, con Saturno ecco il paganesimo della carnalità, del sangue che ribolle come mosto e gonfia il corpo che cerca un altro corpo; ecco la donna, che nella silloge appare in alcuni passaggi persino sotto forma di rifugio sacro, di tabernacolo, in altri, invece come sensuale e protettiva compagna dell’uomo. Così, agli spettri notturni che girano pei campi fanno da contraltare, anzi quasi da amuleto, da esorcismo, il calore e l’erotismo domestico, sapientemente lasciati assaporare al lettore in questi versi: “Hai preso in mano la pentola/ che avevo riposta in cucina,/ l'hai leccata per tutta la curva/ poi svenivi e avevi un corpo morto di piacere./ Io ho navigato sulla tua carne/ come un giovane nostromo che gioca,/ tu lanciavi risate da ferire la valle/ come squarci di godimento”. Ma dicevamo della donna, figura che attraversa i componimenti e va a sostituire, lei, luna di carne, la luna che poco sopra illuminava i campi, per diventare l’altra parte dell’uomo, forse la parte più antica, intima e vitale. Qualcuno leggendo i versi ad essa dedicati potrebbe trovare una certa nostalgia per l’immagine tradizionale di una femminilità incardinata sui ruoli dell’amante, della sposa, della materna consorte dell’uomo, ma qui, in questa raccolta, ne è celebrata la forza nella mitezza, la sensualità avulsa da qualsiasi schema sessista, non la sua sudditanza; perciò non si spaventi, questo qualcuno, e metta da parte il pregiudizio affrettato da contemporaneo, qui si parla di qualcosa di profondo, di serio: qui si parla di archetipi, di mito.
E dunque si lasci andare, chi avrà la fortuna di leggere la raccolta, alle suggestioni che essa stessa suggerisce; gusti fino in fondo il sapore del ricordo; passeggi con gli spettri tra i versi e incontri nelle case e nelle locande tutti i personaggi che gli si faranno incontro: troverà con somma sorpresa, che in fin dei conti, quel mondo così lontano, in cui l’inquietante e il confortante coincidono, non è del tutto perduto, ma sopravvive e lo ha già conosciuto – o quantomeno intuito – forse in qualche sogno, oppure nella sua stessa carne come lascito di una radice antica, comune e profonda.» (Antonio Vittorio Guarino)
«Poesie che raccontano storie e per questo si fanno leggere. Raccontano con garbo. Hanno alle spalle esempi preziosi nella nostra letteratura: si pensi a Pavese. Forse risentono un po’ troppo dell’influsso. Di sicuro in questa competizione non hanno rivali.» (Cesare Davide Cavoni)
«Il poeta partecipa al racconto della natura, fra memoria, desiderio, attesa. Ne nasce una raccolta densa, dove il dialogo ritmico-stilistico trasforma immagini e sentimenti in valore anche estetico.» (Germana Duca)
«Sulla terra ballerina, squarciata, sommersa nel dolore, percossa e bastonata, si eleva un singulto, che diventa sussulto, preghiera, pianto, canto, ora sommesso, ora agonizzante, ora grido di protesta. La speranza intanto si fa strada, riposando su versi vergati in fretta e sognando città alte, celesti che non crollano, diventando copiloti dell’astronave vivente, mentre si prende a morsi la vita.» (Teresa Armenti)
Opera II classificata
Dopo l’inverno di Vincenzo D’Alessio (Montoro, AV)
Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia e storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che hanno ricevuto premi e riconoscimenti, la più recente è La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016 ). Nel 2014 vince con Il passo verde la pubblicazione in Opere scelte (Fara 2014). La tristezza del tempo è inserita in Emozioni in marcia(Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonima antologia (Fara 2015). Tutte e tre le sillogi sono riproposte in appendice a Immagine convessa (Fara 2017).
I gabbiani vengono dal mare
a predare nidi di pettirossi
come pirati sulle antiche rotte
solcano i cieli con ali a falce
hanno fame, il mare è vuoto
gli dèi umani hanno prosciugato
il cibo, ridono malvagi
del sangue innocente senza fine.
Madri scrutano sconfitte i monti
staccano piume per nuovi nidi.
*1
San Valentino torna
nella scia del Maestrale
neve ai monti in basso
il temporale gonfia grondaie
Bevo il the serale agli agrumi
(a te piaceva tanto il profumo)
nella stanza colma di libri
sorrido ai vetri appannati
il focolare stride: cosa vuoi?
Guardo nel cielo Venere
si specchia nel tramonto
unica donna del mio vivere
così vicina al Sole.
*2
vento di Maestrale
raccogli il dolore
disperdilo nel fondo del mare
corallo diverrà, dura pietra
bello e lucente sul petto
della donna che mente.
*3
La lingua sazia
del suo lavoro
non appartiene al mondo,
salice piangente sradicato
sulla soglia dell’avvenire
Pulire gli argini
dal maldestro destino
fu opera dell’uomo
del suo nemico, stanca
dei supplizi l’orma antica
si abbandona al silenzio
dell’addio.
*4
Ho desiderato questo amore
ché durasse oltre la morte
è finito prima di arrivare
a cent’anni: spentosi dell’ardore
nel suo destino, dimenticato
dagli occhi umani
l’ha colpito un maleficio
ed io non so, se è stato amore.
*5
«Uno sguardo silenzioso, disgustato e pieno di rabbia alla terra, per i diversi tradimenti subiti, le continue sofferenze, le lotte contro il male, la visione dolorosa di una marea di corpi galleggianti. Uno sguardo fiducioso rivolto al cielo, per spiccare voli ardimentosi, sognando un mondo migliore, senza impostori, trascinato dal vento di primavera, che semina la vita e si posa sulla pianta dell’alloro, per riceverne la forza e il coraggio di andare avanti, nonostante tutto.» (Teresa Armenti)«È una poesia che mischia lirismo e racconto. Poesia che sembra cercare ancora una strada ben definita.» (Cesare Davide Cavoni)
Opera III classificata
Scordare il copione di Alessandro Zaffini (Pesaro)
Dicono che Alessandro Zaffini sia nato il 19 gennaio 1988 a Sassocorvaro, nel Montefeltro – più in dettaglio nell’ospedale che incombe sulla rocca ubaldinesca – tutto in una notte sola. Il suo segno zodiacale sarebbe quindi, per chi se ne intende, l’Acquacorno o il Capracquario. Dottore in Lettere moderne nel 2014 presso l’Università di Urbino, pare sia stato avvistato in seguito a disperdere la propria persona nel nordest italiano. Voce malferma, chitarra scordata e scrittore di testi per la band Giumara & the PinkNoise, ha pubblicato una silloge di poesie (Le api marce, Sigismundus 2013) dedicandosi con discontinuità ad arti spietate quali il kendo, la monogamia e il volantinaggio. Sa disegnare.
L’italiana
Quando il sipario si aprì, le luci mi sciolsero
dal viso la biacca, e non volevo.
Mani tracciavano gesti – non lo volevo.
Lo spettro più grande: saltare un passaggio, cacciarti
lontano, in fondo al teatro che vibra ancora
dell’ultima, orfana sillaba – ma non accadeva,
era facile muoversi, i passi portavano,
dall’abito, voce al copione: l’Innamorato,
l’Ottavio. Ma amavo davvero, non lo volevo.
Quando,
precipitata sul divano-letto, nascosti
tra le quinte, ti chiesi di scordare insieme
le battute, ripetevi le tue – non lo sapevo.
Si riaprì il sipario, le luci ti sciolsero
dal viso la biacca, e non volevi.
Mani tracciavano gesti – non lo volevi.
“Cronaca di un malore”
(dicembre 2011 – luglio 2012)
ad A.
Il tranello (preludio o quasi una canzonetta)
Chi a tentoni scompone l’enigma
smeraldo della sintassi
non conosce affetto. Vieti per lui
le collere dei ventricoli
i fumi della paternità
le falle dell’educazione.
Chi si aggira tra i relitti splendenti
di realtà in potenza
ignora il fango e la franca tensione
dei tessuti, la gioia buona
di carne e cuore
in simultanea.
A volte preferire che
nessuno si ami
estirpare il Male
senza capire che il Male
è soltanto un nome
dato alla vita.
Presenza
Crepitio di sogno e declino nelle tempie
il Montefeltro – doposbronza di chi viene al mondo
tra i vetri di un’auto.
Distese fresche di crepuscolo segnano
l’Inverno. Rade e nere fessure sui campi
i rami che saettano.
Qui ho trascorso vite intere, visto morire
i miei nonni, la casa vecchia di mia madre
venduta
eppure ho in mente solo l’aranciata
di quella mattina, il caffè
e il vino della sera – c’eri tu
straniera
a Ferragosto, qualche anno fa.
Rimani impressa più forte dell’infanzia
nelle architetture indelebili
mentre appeso in chiesa – in attesa – il Grande Rivale
non soffia un amen
(l’hanno bombardata e ricostruita;
di sicuro tra le macerie qualcuno
ha urlato)
«Poema compiuto sulla formazione alla vita e alla scrittura poetica, entro sipari universitari per lo più urbinati. Realtà e finzione, essere e tempo, amore e morte, studio, sport, divertimento: tutto tiene insieme una lingua contemporanea che sa mutarsi in sermo illustris in più luoghi dell’originale, prezioso canto.» (Germana Duca)
Altre opere votate
L'orma della farfalla di Gabriella Bianchi (Perugia)
Gabriella Bianchi è nata e vive a Perugia, dove ha lavorato come aiuto bibliotecaria. Ha pubblicato sette libri di versi: L’etrusca prigioniera, Canzoniere, Giardino d’inverno, Cartoline da Itaca (vincitore nel 2005 del premio per inediti umbri), Il paradiso degli esuli, Il cielo di Itaca e Quaderno di frontiera (premio Faraexcelsior 2014). Ha vinto alcuni primi premi ed è presente in varie antologie nazionali. Alcune sue composizioni sono state apprezzate da Maurizio Cucchi, Valerio Magrelli e Davide Rondoni. Sulla sua poesia così si è espresso Mario Luzi: “Le sue poesie le ho trovate buone, un dettato fine e vibrante. Alcune sono vere e proprie riuscite.”
VERSO TE
Oggi era come se venissi da te.
L’auto sfiorava l’orizzonte liquido
dei girasoli
oscillanti come miraggi.
Poi ho sbagliato strada
(sai, la distrazione dei ricordi…)
pensando di asciugare la brina gelida
dalla tua fronte.
E mentre la sera colmava di vino denso
le sue coppe,
ho sognato di renderti la vita con un bacio.
LA TUA CASA
Sento tintinnare il tuo ricordo
in fondo all’anima
come un centesimo caduto in un bicchiere.
La tua casa è vuota,
adesso è una tundra senza tempo.
Solo l’acqua piovana
che gocciola nei tubi
le dà voce
insieme allo svolazzo dei piccioni.
Questa casa di carta
il primo vento freddo
la porterà con sé.
Resterà solo un jingle
a svegliarmi nel cuore della notte
con la leggerezza di un sogno infantile.
VERRÀ UNA PRIMAVERA
Verrà una primavera
che mi porterà con sé
nella casa delle morgane.
Sarà una primavera inquieta
avara di germogli
e senza tenerezze,
simile a me
selvatica e scalpitante.
In punta di piedi traverserò il mare
fin dove ha inizio il mondo
e scenderò nel paese dei Cimmeri
dove tu mi prenderai per mano
e mi racconterai dall’inizio
la nostra storia.
REMEMBER
Ricordo il tuo giaccone di tweed
(da pescatore, dicevi)
e le tue guance arrossate dal freddo
salendo da via dell’Acquedotto.
Ti baciavo e con la mano
ti aggiustavo i capelli sulla fronte
spettinati dalla tramontana.
La felicità mi scaldava
come una sorgente di lava
scaturita nel petto.
Avevamo sempre mille cose da dirci
ma anche il silenzio parlava
con la sua rete di complici sguardi.
Il pomeriggio ci aspettava furtivo
in una stanza.
Perugia era levigata e familiare
come un libro di lettura per bambini.
L’ombra di ogni paura era volata via
nei mulinelli del vento.
«Impalpabile è l'orma della farfalla, tanto da dubitare del suo passaggio. L'autore ci trasmette una presenza attraverso un'assenza e lo fa alternando ricordi a paesaggi interiori, come a scandire una geografia dell'abbandono. Il lessico asciutto e senza orpelli trae ricchezza da uno stile ricco d'immagini, che ben fotografano lo stato d'animo di chi scrive.» (Claudia Piccinno)
«La raccolta, quasi un canzoniere in memoria dell'amato, declina una vasta gamma di sentimenti. Il tono lirico di fondo, alternato a scorci naturali e realistici, è sorretto da un flusso espressivo controllato e convincente.» (Germana Duca)
Marco Colonna è nato a Palermo il 4 aprile 1964, vive a Forlì. Giornalista, dirige (dal 1999) il portale web di cronaca e attualità politica Sesto Potere. Capoufficio stampa del sindacato Ugl segreterie dell'Emilia-Romagna e di Forlì-Cesena e Rimini e Responsabile settore Politiche Sociali e Lavoro di Ugl Forlì-Cesena e Rimini, scrive testi di economia e politica per: La Meta Sociale. Cura il canale You Tube Lotta alle mafie. Ha scritto articoli per: Il Messaggero ed. di Forlì, Gazzetta di Romagna, Il Resto del Carlino, La Voce di Forlì, Il Momento, RomagnaSera, Il Giornale, Lo Stato, Il Borghese, L'Uomo Qualunque. Ha collaborato con i Tg di VideoRegione ed Aria radio. Ha pubblicato libri di cinematografia. Poesie selezionate e segnalate nel Concorso FaraExcelsior 2016. Ha pubblicato il libro Ani+ma (Fara 2016). Poesie selezionate al concorso Zuppardo 2017. Poesia selezionata e segnalata al Concorso Pubblica con noi 2017. Poesia Dentro il tuo nome pubblicata nell'antologia poetica I respiri delle pietre (XVII Premio Gorgone d'oro 2017). Pubblica poesie nei siti: Scrivere.Info, Parole del Cuore, Portfolio Poetico, Poesia Nuova, PoesieInVersi e video-poesie nel canale YouTube Marco Colonna Poesie.
I
Ho camminato in spiaggia
tra le barche in secca
dacché mi hai sussurrato:
casa.
II
Ridevi in un letto
d' ospedale,
ora mi appare,
nel definitivo
spogliarti della fede
che ti faceva madre,
l'esatta misura
del tuo amore,
ora sei figlia
ed io ti sono padre,
polvere sarai di luce
ed io spiraglio,
sarai terra
che protegge
minuscole radici,
mondo sotterraneo
per creature mute
a contenere cuori
inarrivabili.
III
Ascolta, il letto in cui sognare
all'infinito a luci spente sara'
per te quel viale stretto che
saliva all'aria del salmastro
e moriva ai piedi della porta
sempre aperta dell'infanzia.
IV
Ogni casa chiede di essere
creduta e sorretta in noi
che siamo mura e custodiamo
il segreto dell'umano riabitare
il già vissuto e il disincarnato
di chi lascia spazi da colmare.
«Cosa resiste, o meglio chi resiste – superstite di ogni perdita che il tempo aggiunge – ad ogni nuova o antica presenza che il signore della clessidra e della falce toglie, strappa alla nostra vista, dal nostro corpo, e pianta in noi come seme di ricordo? Questo sembra essere l’interrogativo al fondo della silloge, che in forma epigrammatica attraversa l’originaria domanda sul dolore.
Nei versi si canta sommessamente il lutto, con pudore si passa per le strette crune dell’esperienza dolorosa: il filtro, il setaccio nel quale restano le spoglie nostre di un’altra vita (la stessa, forse), per farci più nudi, più definiti, più noi stessi. Ma è proprio questo compito che il dolore sembra disattendere: più la vita ci spoglia e meno ci sentiamo leggeri, più perdiamo in termini di relazioni e meno comprendiamo l’essenza della nostra persona. L’autore ne è consapevole, ed infatti nella silloge assistiamo ad continuo scambio e sovrapporsi di determinate figure, identità e ruoli: la madre non è più solo la madre, ma anche figlia; il figlio non è più soltanto il figlio, ma anche padre, ed il padre si confonde a tratti con l’invocato Padre, con la maiuscola.
Insomma, con l’esperienza della perdita è posto con forza il tema dell’identità, nel passaggio non incruento da quel “Siamo”, che nel titolo della silloge è significativamente barrato, al “Sono”. Problema che non riguarda esclusivamente noi, i sopravvissuti, ma che investe anche chi è andato perduto. Si nota, infatti, nella raccolta come l’altro a cui si rivolge l’autore passi da un “Tu” concreto (la madre) ad un “Tu” sempre più disincarnato e trascendente (il ricordo, o addirittura Dio stesso) a cui viene chiesto di rendere conto di quanto è accaduto, accade e sta accadendo in questa vita ammalata di tempo.
A mo’ di esempio citerò alcuni versi estrapolati dalla raccolta. Scrive l’autore, nella seconda poesia: “ora sei figlia/ed io ti sono padre,/ polvere sarai di luce/ ed io spiraglio”.
Ed ancora nella sesta: “Tua luce tua voce/ disarmata come terra/ mi dicevi: abita memoria/ spalanca custodisci/ padre sii cauta parola”. Per arrivare alle liriche XXVII e XXVIII nelle quali il “Tu” umano è quasi completamente trasceso in una entità cosmica che “ci detiene senza fiato” e della quale il Poeta dice: “Sei come il vento/che per strappare/l'anima alle nuvole/comincia dal pensiero/ di un viaggio che dissolve./ Fuoco tu sei sommerso/ d'acqua fertile silenzio”. Davanti a questo “Tu” non resta che “Spezzarsi/ essere nella delusione del creato/ se non raggiunge mai il divino,/ il già compiuto che tormenta e rassicura”.
E dunque, alla fine, cosa o chi resiste? Chi siamo? Chi e dove sono gli altri con i quali si sono intrecciate le nostre carni, i nostri pensieri, le nostre vite?
Nelle IV lirica si legge: “Ogni casa chiede di essere/ creduta e sorretta in noi/ che siamo mura e custodiamo/ il segreto dell'umano riabitare/ il già vissuto e il disincarnato/di chi lascia spazi da colmare”. E forse è proprio così: finché siamo in vita non possiamo che prenderci carico di tutte le relazioni che ci hanno costruito, formato,ospitando in noi quelle identità perdute, quei vuoti, quel “siamo” in cui non siamo più ma che permette a ciascuno di noi di dire ancora: “Sono”.» (Antonio Vittorio Guarino)
Gymnopedie di Michele Bordoni (Padova)
Nato a Civitanova Marche (MC) il 13 maggio del 1993, Michele Bordoni vive e studia a Padova. Laureatosi nel 2015 nell'ateneo patavino con una tesi su Rainer Maria Rilke in Teoria della letteratura sta continuando i suoi studi sul poeta boemo allargando l’orizzonte a figure quali Leopardi, Jabès, Maurice Blanchot e, soprattutto, Mario Luzi sulla cui poetica ha da poco conseguito la laurea magistrale (110 e lode). Sue poesie sono comparse nelle antologie Poeti e Poesia di Elio Pecora. Ha vinto il concorso Pubblica con noi con la silloge Gymnopedie inserita nel volume Gymnopedie, Architetture e altre opere belle (Fara 2017).
Lent et douloureux
Penelope
I
Coincidenza o destino? Forse amore.
Chissà da quale nodo siamo stretti,
se l’abbraccio fugace degli amici
oppure la pazienza della terra
e il folto di radici, il gorgo d’epoche
salito per le vene e fatto carne.
Il tempo non dà tregua né risposta
quando si fa minima ed angusta la distanza
dalla partenza.
Segni allora, segni
lasciati dall’uno all’altra dentro l’anima,
bruciati in sacrificio della vita
che sola sa e discerne le sue tracce.
II
(a Rainer)
Quest’andirivieni d’anime e di rondini,
il tuo corpo disteso di collina
in cui penetra un brusio di vita che continua
in esilio sui balconi, nelle strade…
non darmi l’illusione che sia pace.
Qui dove tutto pare immobile,
nella sua posa fra ricordo e sogno,
ottieni una risposta a questa pena
di sapere se è oblio, se è nostalgia
il mio non riconoscermi più in te
e nelle rughe dei miei anni.
Bleibend ist nirgends: forse dice questo
il vento alla mia pietra,
che bisogna dare aria, spazi, libertà del cielo
a chi cerca la chiusura della terra.
Forse dice questo, che non c’è luogo
alcuno per stare
se non l’esilità della parola,
il suo fuoco mite.
III
Vorrei che tu passassi come passa
a marzo un’acqua sparsa o come il fuoco
di nuvola sul mare.
Negare pure questo, il tuo essere
già stata o tutta persa, irredimibile.
Non è, la mia, fretta della schiarita;
è forse nostalgia, libertà forse
di te dalle catene del pensiero,
di te dalla tua immagine sospesa
sul filo senza rete del presente.
Ti aspetto qui nel sole che trasecola,
dove finiscono le tracce, s’apre
la presenza discreta dello sfondo
e il ricordo di te inchiodata a un nome
diventa voce senza più parole.
(a S.)
Sempre bianca rimane questa riva,
immacolata l’acqua, benedetta
l’impossibilità della distanza:
e noi poveri, pochi nell’ascolto
che si nega e dilaga nell’udito.
Si resta ad aspettare la parola.
Imparare lo strascico delle onde,
limitarsi a raccogliere sul lido
gli avanzi di quel mare che straborda.
E al fondo scomparire, ritornare
a casa, le mani ancora insabbiate.
Ma forse questo chiediamo sull’orlo
alla spuma, di trovarla in un difetto
di pronuncia, sepolta troppo dentro
la quotidianità. Di parlare
quasi a doverla masticare a vita,
dimenticando di doverla dire.
«Il titolo che richiama le opere per pianoforte del compositore francese Erik Satie, nonché l'antica festività spartana in cui gli efebi danzavano nudi, non poteva essere più appropriato per questi componimenti che s'intrecciano tra ambiguità e trasparenza. L'autore ben conosce i risvolti dell'animo umano, i moti della passione tra delirio e abbandono, attesa e desiderio e con uno stile ricercato e contemporaneo ci comunica un forte messaggio: “resta quel che si tace ad insegnare l'impossibilità del dire e del restare”.» (Claudia Piccinno)
Prima che il sole vada a dormire
di Agostina Spagnuolo (Carpiglia Irpina, AV)
Le persone ferite talvolta diventano poeti,
urlano il dolore e lo circondano di luce,
foss’anche quella delle sere solitarie,
là, nel cielo,
testimone silenzioso dei sogni dei bambini
che ancora vivono sotto la corazza dell’essere cresciuti.
UN REFOLO DI VENTO
È solo un refolo di vento
un soffio di flauto dolce
una corda fragile,
al tavolino del caffè.
E la gioia diventa pianto
e il pianto si fa gioia
quando il tempo
ti riporta antiche date
e volti
così, all’improvviso,
inaspettati eventi
come la scatola dei bottoni
dimenticata in fondo ad un cassetto
rimasta in silenzio per lungo tempo
come un dono
per dirti che è ancora là.
SCALZI PENSIERI
Scalzi pensieri
bussano
alle porte della notte
lungo i luoghi
della memoria,
mendicanti
nella nebbia.
Pensieri che pendono
dai rami del tempo,
il fiato rinchiuso
in un singhiozzo d’attesa.
Sono fermi
agl’istanti
della pellicola in stand by.
Pensieri nel vento
che scompiglia i capelli.
Pensieri sospesi
innocenti, bugiardi, incompresi,
in attesa,
impigliati
nelle vesti stracciate.
Pensieri incompiuti.
Tra le sinapsi di un ricordo
ti passa sopra,
la vita.
Nella festa dei fuochi,
scintille
rincorrono la notte.
L’ATTESA DEL MARE
Era l’attesa
del mare.
Un’idea sconosciuta.
Un sogno frantumato
al mattino
nel dormiveglia spaurito.
Un mondo lontano
per me che sapevo di terra.
Volevo conoscere
il mare.
Sulla sabbia bagnai le mie scarpe,
un giorno per caso,
nell’onda che andava e tornava.
Rimasi a guardare.
Ogni cosa poteva cambiare
come l’acqua che passa.
La vita è una danza
e decisi che potevo ballare.
«Trattasi di poesia del quotidiano, in cui le piccole cose assurgono a motivo d'intima riflessione e ogni verso ha una missione: ricomporre piano piano la quiete quotidiana.
Questa silloge narra di illusioni dissipate e occasioni disperse, ma lo fa con marginale rimpianto, perchè chi scrive è occupato in altri algoritmi, quelli dell'imparare a vivere...e pazienza se nel calcolo rientrano gli inganni e gli imprevisti, il poeta ha una missione: cantare la vita in tutta la sua verità.» (Claudia Piccinno)
Bestiario di Giancarlo Zizola (Asolo TV)
Carlo G. Zizola (Giancarlo per l’anagrafe), è nato e vive ad Asolo. Laureato in Sociologia a Trento, si occupa della attività di famiglia. Sposato, ha avuto tre figli. Ha sponsorizzato il teatro cittadino, organizzato eventi, da circa vent’anni si dedica alla poesia e ha pubblicato tre libri: Per le strade (Edizioni del Leone 2004), Vortici (Edizioni del Leone 2007) e La neve e il tempo (Edizioni El Squero 2016). È stato segnalato in diversi Concorsi di Poesia (tra questi il M. Luzi). Nel 2009 si è classificato 2° al Giunco (Brugherio, MI), ed è stato premiato ad Eboli (Il Saggio). Nel 2010 ha vinto il 1° premio al concorso di poesia Art Media di Castelfranco V., è stato premiato nuovamente a Eboli (Il Saggio) e segnalato al Giunco). Sue poesie sono apparse in quotidiani nazionali, antologie edite da riviste specializzate e in programmi radiofonici. Ha riscosso commenti lusinghieri da poeti e critici quali Paolo Ruffilli, Emilia Fragomeni, Ottorino Stefani. Nel 2016 ha pubblicato con Campanotto il suo primo romanzo Quando l’amore odia, inserito nella biblioteca dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Nel 2017 ha ultimato un romanzo giallo – La quarta punta del triangolo – e il quarto libro di poesia: Bestiario Poetico.
1. GLI SCIMPANZÉ IRREQUIETI
Nella luce intensa della luna,
volteggiavano da un ramo
all’altro con l’occhio vagante
sopra i rumori e le regole,
inseguendo un’irosa voglia
di vivere, un altro tempo;
sentivano il fiero ruggito
degli animali forti, belli,
il brivido di storie immerse
negli intrecci della foresta,
e non volevano più aggrapparsi,
con uno sguardo vano,
al gelido futuro di un lungo
giorno medio.
2. IL CAMALEONTE DALTONICO
Venni al mondo nel verde e nel giallo,
in colori che più non distinguo
sulle rive della luna, in una singolare
conversazione con la morte.
3. IL CANARINO COMPOSITORE
Rinchiuso in una gabbia dorata,
nelle notti affacciate sulla vanità
delle stelle sognava e s’illudeva
d’essere libero inseguendo,
con la voce e lo sguardo,
il misterioso tragitto della luna,
e come i poeti, componeva
dibattiti d’amore, canzoni
e trilli, saltellando felice
in quell’infinito spazio.
4. IL CAPRIOLO ABBANDONATO
In un tempo d’autunno,
fra rocce e muschio
e spazi ventosi racchiusi
in un notturno di luna,
vagava circondato
da ricordi simili
a mosche lucenti,
l’anima sentinella,
mille lupi affamati
il ventre tremolante,
e il buio sprofondava
nel suono inquieto
dei suoi passi.
«Sulla scia delle Favole di Fedro e del Bestiario di Leonardo da Vinci, vengono presentati animali con le loro peculiarità, chiusi nella loro solitudine, immersi nel loro paesaggio, guardati a vista dalla luna, inseguono sogni, fanno intagli nel tempo e vagheggiano l’amore. Il tono pacato, il ritmo calmo invitano a meditare sulla condizione umana, che non riesce ad afferrare il tempo.» (Teresa Armenti)
Né acqua per le voci
di Marina Massenz (Milano)
Peluzzi alfieri
Il grosso scarabeo scala
il muro della casa cambia
in più verde e poi di nuovo
in oro, riflessi abbagli cangiante
l’insetto gioiello e trasformista.
Piantata da poco ma già peluzzi
sottili dritti verso su, uno per uno
si possono quasi contare, alfieri
a lancia protesi, non la massa,
l’erba, ma il singolo filo.
Qualcosa di tenero molto resistente
e teso e resistente naturale.
Perché non dare da bere al bambino,
(lo senti, sentite che vuole un po’ d’acqua?)
soltanto perché ora gli manca la parola.
Transiti
La cascata come latte a ragnatela
scesa a piccoli pini, tra consunti
panni e stinte case che seducono
ombre snocciolate al monte.
Testimoni e accidentali ospiti
di terre reali assorbiamo
vapori che sgocciolano,
già la luna e già falciato il prato.
L’emergere del corpo al rito
di una veglia imprevista
vestito e nudo di sé.
Nella sotterranea
Presenza ambigua dello sguardo
(fittamente popolata la metropolitana).
Non è dato posarsi sui corpi
appesi assenti, puro caso
incontrare altri sguardi,
a vuoto si scorre pubblicità
in lieve distrazione "docce
scozzesi saune finlandesi"
il successo di lavacri che spostano
al riso in assenza totale di veri
scioglimenti, in memoriam a noi
esuli dai mormorii di nevi
che distillano gocce in zolla
ampolla arresa al colmare.
Questa agendina cade in pezzi
Questa agendina cade in pezzi,
la devo riparare, devo
evitare di ricopiare tutti
i numeri meno il tuo.
Il telefono suona ma la casa
non risponde. Ancora libri aperti
portacenere colmi, albe e tramonti
tra risse di bicchieri sporchi.
Si direbbe che sei appena uscito.
Ancora sul tavolo della cucina
medicine e (appese al muro come un trofeo)
le tue “stroncature editoriali”,
di cui andavi amaramente fiero.
Ma la musica tace, nella casa
sempre più buia, e il telefono insiste.
Nemmeno pensare che è un caso,
se da un po’ non ci sentiamo.
La via si farà grigia e informe,
tutta calcinacci e buche. Ma il tram
passerà ancora, con il solito suo
sferragliare. Forse migliaia
di foglietti scritti a mano
svolazzeranno per la stanza,
muti uccelli smarriti che nessuno
nel tempo saprà ricollocare,
indicando loro l’aria, l’uscita.
Foglietti sospesi e vorticanti urti
e gorghi tra mille parole a confondersi
le une nelle altre, tra anni e vite e passioni
in un caotico un po’ sarcastico danzare
l’ecatombe di quella tesa scrittura del cuore
del pensiero solo tracce. L’inchiostro
non è indelebile, sfuma, mentre squilla
ancora il telefono la casa si annebbi
sparisce e poi, poco a poco, la via.
«Franto e ricercato, questo il titolo di una poesia della affascinante, perché complessa, silloge Nè acqua per la voci; titolo che a mio avviso sembra quasi essere la rivendicazione da parte dell’autrice di una precisa poetica, in cui la complessità del reale è resa mediante un raffinato lavoro sul suono, sul ritmo, sull’intreccio dei significanti che ad un primo acchito disorienta il lettore, spaesandolo e costringendolo a ritrovarsi, con qualche graffio o strappo sulle vesti, come fosse stato imbrigliato da un rovo di more, in uno spazio altro, o meglio nello stesso punto ma con uno sguardo diverso sulla medesima realtà, in quanto la sintassi della silloge, barocca per l’ellissi ipertrofica del senso cercato, ne ha modificato la percezione. Sembra in alcuni punti di assistere ad una lotta microbiotica tra organismi (batteri, virus, germi) nella quale è difficile distinguere se gli elementi stiano per l’appunto aggredendosi oppure, addirittura, accoppiandosi. Il ritmo della raccolta si tiene proprio su tale ambivalenza e tensione: il frammento (la parola, il sintagma, il verso, la strofa, la singola poesia) si affatica per raggiungere il senso e allo stesso tempo lo respinge, lo circonda, quasi ad abbracciarlo, eppure resta guardingo sulla soglia. La domanda, allora, è: lo attornia per assediarlo o per proteggerlo?
Per tentare di dare una risposta occorre muoversi tra i versi col “passo” delle serpi, col fiuto del segugio e con la vista del falco. Insomma, per raggiungere la pienezza del senso occorre innanzitutto usare i sensi, la vista, l’udito, l’olfatto, affinché si possa capire chi o cosa si scioglierà nel paesaggio sintattico tratteggiato dall’autrice. E nel dire “paesaggio” ho detto forse una parola chiave, infatti nel testo emerge più volte un orizzonte nel quale si stabilisce un rapporto particolare tra il percetto e il percipiente, soprattutto nelle composizioni in cui dominano gli elementi naturali, che fanno da contraltare sensato ad un mondo, il mondo della contemporaneità e dell’attualità, che appare disintegrato e disorientato, malgrado il mito che esso ha costruito di sé. Così in Cinque caprioli l’autrice attraversa e si inoltra da “straniera”, ma “priva di minaccia”, nel fitto bosco dove mondi paralleli e possibili si danno nella statuaria bellezza del quinto capriolo, a rappresentare la mite e muta realtà animale che ci osserva e domanda dal suo silenzio qualcosa sulla nostra stessa esistenza. Realtà animale e naturale che quando entra in contatto con il nostro paesaggio, il paesaggio umano – che è irrimediabilmente paesaggio urbano, fatto di abitazioni-protezioni –, si riduce alla forma inquieta e inquetante dell’insetto, come nella prima poesia della raccolta, Peluzzi alfieri, dove appare l’immagine di un grosso scarabeo, “insetto gioiello e trasformista”; oppure nella poesia Il poggio, nella quale noi stessi veniamo paragonati “a farfalle/ notturne attorcigliate,/ sempre più strette intorno/ all’unico lampione”. E in mezzo a questi estremi, il desiderio segreto e primigenio di una assimilazione, di una compenetrazione tra uomo e natura, o meglio un cupio dissolvi dell’uomo nella natura; desiderio di cui sono testimoni versi come questi: “Dimenticatemi! Dimenticatemi!/ Io mi sottraggo, nel verde trasmigro,/ ramarro annunciato da campane a onde.” Ma tale trasmigrazione non spetta a noi, l’autrice ne è consapevole e dunque scrive, in un’altra lirica: “ la ricomposizione/ è nelle sue mani, non nelle mie/ pazze di gesti inconsulti, frenesie/ senza fine, balbettii dopo l’urlo”.
In questa ammissione di impotenza possiamo forse scorgere in filigrana la risposta alla domanda che ci siamo posti: se cioè in questa poetica “franta e ricercata” sia possibile una ricomprensione del frammento nel senso, del significante nel significato. Come l’uomo può ricomporsi con la natura attraverso una rinuncia, lasciando semplicemente che sia, così il frammento, rinunciando a possedere il senso nella sua interezza, può da esso stesso, dalla sua liquidità, farsi attraversare e in-formare. Del resto, nella raccolta, si leggono questi eloquenti versi: “Franto e ricercato/ nell’interno del corpo/ svuotato ventre/ lasciare che vada/ sciolto e sganciato/ niente ricerca d’interezza./ Spazzolata tutta la certezza/ dell’intero adeguarsi/ a pezzi sparsi qua e là/ a volte in quasi pace/ poi più niente al fondo del resistere in vitalità”.» (Antonio Vittorio Guarino)
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