sabato 22 luglio 2017

Uno splendore obliquo. La poesia di Sonia Lambertini




di Mario Fresa




La scrittura poetica – la sua rappresentazione sospesa, allusiva, tagliata – sembra ripetere, con ossessiva persistenza, la cerimonia di un gioco ambiguo: essa mostra ed elude, lancia-nasconde: e tu vedi che il reale compare-dispare, in un istante, nella ombrosa luminescenza di un solo verso.
La rappresentazione spezzata della poesia ricorda, in ciò, il famoso gioco del rocchetto analizzato da Freud: un’attività ludica nella quale un bambino «usava tutti i suoi giocattoli per giocare a ‘gettarli via’». E in che cosa consisteva, questo strano giocare a gettare via? Il bambino del racconto lancia un oggetto legato con un filo, lo allontana facendolo sparire; il nuovo piacere è costituito dalla riapparizione di quell’oggetto (e dal lancio rinnovato). «Questo era dunque il gioco completo – sparizione riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come gioco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto».
La voce di un poeta chiama le sembianze, le forgia e dà loro sostanza; eppure, le sue parole giocano, in fondo, sempre e soltanto con la morte: e proprio come quel bambino che sperimenta che cosa significhi essere e non essere più, esserci e svanire, apparire e dissolversi, il poeta avverte e inscena lo spettro della mancanza e, fissando per un attimo l’emergere della vita, il suo volto così bello e così facilmente consumabile, ne fotografa la vanità, la stupefazione del suo essere nulla.
Leggendo l’opera prima di Sonia Lambertini, Danzeranno gli insetti (Marco Saya, 2016), ci sembra di intravedere una segreta corrispondenza tra la sua scrittura e il gioco misterioso, apparentemente innocente, del racconto freudiano.

La poesia di Lambertini si muove con la consapevolezza di questo combattimento, aspro e solenne, contro lo specchio del mostrarsi e del perire: l’esistente è vissuto con l’angoscia irreversibile di uno scivolamento continuo nelle tenebre della nullificazione, in uno spazio della perdita in cui si mostra, minacciosa, la «graticola di dio» che «è sempre ben fornita», e che assicura «il taglio della carne curato».
La parola è straziata, rinchiusa nella dolente visione di «aste deserte», di angosciose rilevazioni di inservibili «numeri / stropicciati». Essa non giunge a una sintesi finale, né sa toccare il confine salvifico di una finanche provvisoria risposta.
La nostra voce espone, dunque, soltanto il nostro precipitare: la consapevolezza di non rientrare «tra i clienti affezionati».

Il poeta è il martire-testimone del proprio auto-annullamento, e della sconfinata vanità di tutto l’esistere.
Rileva Michel Butor che è appunto il sacrificio del martire, l’ostensione della propria morte, a «mostrare la testimonianza per eccellenza»; ed è appunto – paradossalmente – nel martirio che il grande sacrificato inizia a conoscere e a mirare, nella sua interezza, «il momento della verità […] in cui diventa davvero se stesso».
Nella scrittura di Sonia Lambertini si verifica una lotta costante con ciò che emerge all’improvviso e che testé si frange e si dissolve entro la scura vertigine dell’indistinto e del nulla: ed è così che, dilaniata e spezzata dall’insistere del «gioco completo della sparizione-riapparizione», la sua parola poetica si fa autentica e vivente proprio in virtù della estrema deperibilità (e della infinita fragilità) del mondo che registra e rappresenta.





*
Nel giorno del mio giudizio
quando il corpo sarà in scadenza
la bocca sarà colma di terra
danzeranno gli insetti
il ritmo assordante non mi farà dormire
e come nei banchetti degni di rispetto
trionferanno gli avanzi
le formiche ne faranno scorta
sottomano la mappa
cenni di anatomia
viaggio di sola andata.



*
Per sottrazione, mi ripeto.
Due passi in avanti
conto fino a tre
mi guardo alle spalle
e vedo che non sono
mai arrivata più in là del sei.
Il chiodo fisso di controllare le cose
con la matematica, un movimento:
meno anni, meno possibilità
meno tempo e luce
e poche parole
corte, le preferisco.
Il segno meno è una linea orizzontale
una lama sul collo,
un peso insopportabile.



*
Credo nella vita
– ho visto la luce
mio malgrado –
e nella morte.
Il resto è contorno,
l’ordine è in cucina
ma non arriva.



*
Brindo alla contraddizione
alla scelta sbagliata, all’incoerenza
al mio sguardo smarrito
seduto al banco dell’assurdo
mentre vomiti l’ennesima lezione
di sicurezza della vita
e solo dio sa la paura
che mi fanno quelli come te
che non si perdono mai
tra le parole, per strada
negli occhi di un altro,
il bisturi è affilato
i tuoi morti sono in aula
silenziosi, io
cerco solo meraviglia.



*
Taglio il letto a metà con il mio metro sottile da sarta
e senza fare rumore sul fianco sinistro divento
una zeta nera minuscola, un incastro mancato
io, che cerco sempre quello perfetto
conto gli animali e i piccoli insetti
cado nelle loro tane nere
centimetri di terra secca e minuscole ossa
gocce da bere nel mio sacco per l’inverno
io, che non posso vivere senza numeri
allungo la mano nell’idea che tutto è vicino
riempio il vuoto del mio fianco sinistro.








***

Questo scritto di Mario Fresa è già apparso sulla rivista «La Clessidra» (n. 1, 2015).


La foto riportata nel post è di Nobuyoshi Araki.





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