martedì 21 giugno 2016

“… ho nascosto la lingua in cantina”

Su Di una notte morente di Gianfranco Lauretano (prefazione di Marco Marangoni, Raffaelli 2016)
nota di lettura di AR

http://www.raffaellieditore.com/di_una_notte_morente

Un'atmosfera famigliare percorre le pagine di questa raccolta pulsante di vita anche attraverso le ore del sonno e tutt'altro che “morente” come potrebbe suggerire il nero della copertina (del resto il titolo stesso rimanda di fatto all'attesa del nuovo giorno). C'è una immersione francescana nel creato: «Per il sole grazie, per la pioggia / l'acqua penetra la terra / tocca le radici e sveglia i fiori» (Dieci grazie, n. 4, p. 18). Una fiducia nell'oltre nonostante le fatiche, le malattie e le croci quotidiane: «Grazie per l'alzheimer di mia madre / che avanza come un'omissione / (…) / non esiste addio ma solo / una provvisoria deviazione / sulla via…» (ivi, n. 2, p. 16). Una visione telogica del nostro esistere imperfetto eppure unico e prezioso: «Grazie per tutto quello che non ho capito / grazie a Dio davvero / se fosse già saputo / non avrei conosciuto niente / (…) / il tempo, quell'invisibile portento / rompe la crosta e ci denuda / e risemina la pelle e quindi dentro» (ivi, n. 7, p. 21). 
Le incombenze, le responsabilità, i lutti, i dolori, le gioie e i piacerei che accadono a noi e ai nostri cari, al nostro prossimo (vicino o distante) vengono da Lauretano prima intensamente vissuti e assaporati poi resi poesia con parole pregnanti nella loro sobrietà altamente evocativa: «Il tuo corpo come un fiore raro / una chiesa pronta per la liturgia / campo di un gioco infaticabile / a ben vedere è dove accade tutto / dove risiedo davvero e mi ritrovo» (p. 38); «Così i miei abbracci sono rari e attivi / hanno bisogno di una decisione / quei pochi che ritrovo nelle braccia / quando spuntano tra la pelle e il niente / dalla riserva scarsa che hanno dentro» (p. 41).
La dimensione del sogno e quella del mistero si intrecciano con gli aspetti più prosastici e concreti della quotidianità donando al lettore parole-vela che lo trasportano lontano e in alto – «Sapevo che esiste un verbo discreto / in terra o in mezzo alle nuvole / a dire ciò che interessa davvero» (p. 44) –, o parole-lama che penetrano nel profondo, rivelano commuovono: «Parlare  è un miracolo per me / che ho nascosto la lingua in cantina / da piccolo senza dirlo a nessuno // (…) // ma la lingua può darsi che scenda dal cielo / infatti ritorna e sistema i suoi suoni / con mille cerotti si aggiusta da sola» (p. 45); «… Sto qui nel silenzio ventoso /(…) / dove il sole cala crudelmente / portando gli anni come in uno zaino / (…) / e non smetto di pretendere le mie parole» (p. 49). 
Sì il poeta è un fingitore/plasmatore di parole, conosce «le strade del sonno» (p. 50), sa che «in ogni casa accade un racconto inaudito» (p. 53), riesce a captare la «luce tenue dietro l'orizzonte» (p. 54) e la minima voce nel silenzio, perché «neppure quello sta zitto» (p. 56). 

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