Mario Fresa |
Recensione di Marisa
Papa Ruggiero
Cosa ha inteso fare Mario Fresa con il suo ultimo libro di poesie, così inconsueto e spiazzante rispetto ai suoi precedenti, è una domanda che sulle
prime si affaccia nella mente di più di
un lettore. Mario Fresa ha schizzato delle stilizzazioni, delle annotazioni, assecondando
una dinamica visiva estemporanea, senza filtri emotivi o correttivi di sorta prelevati
dalla casualità quotidiana nel suo svolgersi al pari di certe istantanee
fotografiche e le ha appuntate, scrupolosamente, una per una con degli spilli su
piatte superfici di carta lasciando però i pezzi sparsi del puzzle sul tavolo come in attesa di una possibile
componibilità … ma, a differenza di certi rebus
che solleticano le nostre cellule grigie
inducendole a giungere a soluzione, in questo Stupore quieto la possibilità di decifrare il senso della maggior
parte di siffatti “quadri d’ambiente” ci è sistematicamente, inesorabilmente
precluso.
E ci chiediamo che cosa mai si rappresenta all’interno di questo
“teatro” in cui indoviniamo intrecciarsi innumerevoli fili riconducibili ad altrettanti
garbugli di eventi i cui nessi ci appaiono del tutto o in parte stravolti nello
scorrimento di snodi esistenziali nevralgici che solitamente sfuggono alla nostra
ordinaria attenzione; eppure, proprio all’interno di quegli scarti minimali, anonimi,
riusciamo a percepire che si stanno consumando fondamentali rivolgimenti del destino,
imprevedibili svolte fatali dai contorni inquietanti, come ad esempio, le agghiaccianti
esperienze del crimine, vissute talvolta da qualcuno dei personaggi, o quelle
altrettanto laceranti, patite da altri in istituti per malattie mentali: «qual
è la forza che ci spinge a uscire, a colpire?» (p. 72), o ancora, a p. 33: «…
Ma chi può togliere, da lì, quelle figure nere, / quegli eccitati inganni?» (ma
non udiamo nessuna voce, è solo la risonanza interiore di una coscienza che fa
eco sulla pagina e ci stringe alla gola), oppure, semplicemente, vediamo
profilarsi sequenze di eventi del tutto insignificanti, destinati, di lì a breve
ad essere dimenticati, o rimossi. «Nell’angolo accecante di questa dura luce di
titanio / perfino i nostri nomi sono finiti, adesso, nella rete / di un
biancume formicolante, nel fragile / attrito di un ricordo.» (p. 42).
Fresa ci
mostra, con veloci scatti allusivi, con irresistibili “passaggi dribblati” nel
ritmo dalla narrazione, una molteplice varietà di microeventi disegnati con
tratti sgomenti o ironici, partecipi o in qualche caso persino burleschi, che si
intersecano o si contrappongono da risultare replicabili all’infinito, se non
addirittura intercambiabili: «… avevo conosciuto, in un istante, la coincidenza
della gioia con l’improvviso scricchiolio di quelle cose che finiscono ed
esplodono, e che insieme ti risucchiano tutte in uno strano buio, fiammante e
sconosciuto …» (p. 49).
Ma più in generale, la telecamera interiore di Mario,
con la sua lente impietosa, intende metterci sotto gli occhi la perdita di
senso del reale nel suo complesso, la cruda degradazione etica, culturale,
antropologica della nostra attuale società, sempre più massificata, la cui
situazione appare così compromessa che non si può che osservarla costernati. Ed
è di tutto ciò che vuol renderci partecipi l’Autore convocandoci in questo
libro, nel quale, forse, ci sentiamo costretti, almeno in parte, a riconoscerci:
egli vuol farci condividere il proprio sgomento nel constatare l’incredibile
ottusità degli eventi, l’assoluta inesplicabilità del male: «Ma chi mi salverà,
pensavo, quasi piangendo; / chi mai mi salverà da queste mani / che hanno
smesso di capire, da queste mani che si fanno più fragili / e più esperte, più
dolci e più cattive?», (p. 70).
Direi che la peculiarità di questa scrittura, nonché
il suo pregio maggiore a mio avviso, consista nell’aver affrontato la materia
narrata da due differenti modalità di sguardo: quella attinente a uno scavo in
profondità fino a toccare frammenti di bruciante tragicità dell’essere, e
l’altra, parimenti consapevole, esposta ad una stupefatta, annichilita
lontananza di sguardo, raggiungendo, nell’alternanza armonica di registri diversi:
poesia e prosa narrativa, una ammirevole sintesi stilistica.
Al lettore, la constatazione di non poter leggere in
modo univoco la realtà esistente, al tempo stesso tragica e paradossale,
implacabile e astrusa. Potrà, invece, leggere tra le righe non solo la condivisione
di un dolore comune ma, come in filigrana, un invito alla riflessione, quasi una
sottile sfida a scavalcare le linee di contenimento imposteci dalle convenzioni,
dalla superficialità, dalla falsa coscienza e scegliere di andare oltre, tutti
insieme, sempre oltre le barriere di una stagnante rassegnazione, andare oltre
un quieto stupore.
Marisa Papa
Ruggiero
Mario Fresa
Uno stupore
quieto
Prefazione di Maurizio Cucchi
Edizioni Stampa 2009, Varese, 2013
pp. 80, € 10