lunedì 13 aprile 2015

Francesco Macciò su Stelle a Merzò di Adele Desideri

Adele Desideri,  Stelle a Merzò, postfazione di Paolo Lagazzi, nota critica di Tomaso Kemeny, Bergamo, Moretti & Vitali, 2013

recensione di Francesco Macciò

Stelle a Merzò si offre al lettore come una sorta di diario d’amore in versi. Un diario scandito da precise localizzazioni topografiche, che recano i nomi di Merzò e di altri paesini e luoghi dell’entroterra ligure di Levante (con dislocazioni anche nel capoluogo lombardo), e da indicazioni cronologiche, che contrassegnano appunto i giorni di una vicenda amorosa che nasce e si consuma nell’arco di una stagione estiva. La linea della scansione spaziotemporale sulla quale si colloca la successione dei testi puntella le costruzioni e i crolli di una vicenda amorosa appesa, come scrive Paolo Lagazzi nella postfazione, al “brivido dell’evanescenza”. Il resoconto scritto però, affidato anch’esso all’evanescenza della memoria (“Ti racconto, se posso, quel che ricordo”), è declinato in un linguaggio poetico tutt’altro che rarefatto ma denso e materico; l’impianto comunicativo si distacca dalla misura della referenzialità, pur sempre necessaria alla dimensione del racconto, e attinge a forme più complesse di mediazione sintattica e a scelte lessicali connotate da valenze allusive, come ad esempio in questi versi, dove il taglio marcato dell’enjambement – “lisa/ stoffa” – e la quasi rima, rima al mezzo – cartapEStA : scommESsA – innescata dalla disposizione chiastica dei sintagmi in clausola, scandiscono il motivo del consumarsi delle cose e della loro fragilità nell’inconsistenza del ricordo: “Ci raduniamo qui/ in attesa di una donna che/ con il filo – con l’ago – riannodi/ gli orli slabbrati, rammendi la lisa/ stoffa e sui capelli ponga fiori/ di cartapesta – segnali/ di una memoria mancata,/ di una fallita scommessa.
Alla linearità delle coordinate spaziotemporali che caratterizza il libro, si oppone in qualche misura un altro movimento, che fa ruotare aggrovigliandoli i nuclei persistenti della storia d’amore sfumandone al contempo i riflessi nelle pieghe della memoria. Di tale costruzione, di tale modalità percettiva si fa lascito una scrittura tesa, vibrante, che prende forma a troppo breve distanza dalla realtà che l’ha originata perché possano esserne riassorbiti in toni più riposati i segni e le conseguenze. Ed ecco, allora, emergere, in tutta la sua totalizzante e pervasiva presenza, l’Io che incrocia le esperienze di vita e poesia in un delirio amoroso capace di attrarre a sé le cose e di dare un senso altro alla realtà che circonda la persona amata: “Sono la tua stanza, legnaia/ – lettiga in un canto della cucina,/ rubata alla gelosa cagna.// Sono cancellata dipinta di fresco,/ sciacqua-piatti/ bocconcino di carne alla griglia,/ borsa, cianfrusaglia, scarpa”, fino a porsi di fronte ad essa con incrollabile fierezza e solidità, come termine di attrazione e insieme di resa: “Io posso/ il tuo seme disperdere,/ e il sigillo applicare/ alla perduta estate.//...// Aspetto/ la tua insipiente lungimiranza,/ la settembrina resa”.  L’aspetto però che più di ogni altro conferisce potenza e originalità al timbro della voce di Adele Desideri è il ricorso in numerose poesie a un linguaggio biblico e rituale. Che si innesta sulla trama narrativa e avvolge la spirale amorosa sia per alcuni significativi accenni (“...Tra i fiumi dell’Eden/ ogni creatura era perfetta”) sia soprattutto per enucleare, imprimendoli nella carne, i segni premonitori di un fallimento: “questo silenzio che nel cavo delle mani/ disegna stigmate così poco divine/ – il cerchio perfetto in cui l’amore fallisce”. Sono evocazioni del sacro che incontriamo fin dalla poesia incipitaria, volta quasi a “religare” gli amanti con il “sancire” la loro reciproca fides, ma capace nel contempo di creare un vertiginoso capovolgimento del divino nell’umano; come se l’individuazione della figura maschile, oggetto d’amore e di deragliamento amoroso (“Sei uno, tre e due”), si ponesse già in una dimensione “altra”, sovrapponendosi alla precarietà delle cose e conferendo ad esse un senso, una destinazione: “Sei uno, tre e due./ Come cometa attrai/ e conduci alla grotta sotto il monte,/ dove vive Colui che segna l’inizio, la fine,/ il ricongiungimento di terra,/ cielo, colpa, perdono”. E valga, almeno, ancora l’esempio, tra i tanti che si potrebbero addurre, di una poesia collocata verso la fine del libro, la poesia 5 settembre, Airola, dove un’allusiva rassegna di azioni di vita quotidiana, nelle quali la figura femminile si situa come intermediaria tra la Terra e il Cielo, viene ribaltata in una successione di immagini neotestamentarie, in cui si rapprende la forza dell’Eros scomponendosi nei suoi elementi, che contrappongono, alla pienezza della gioia, sofferenza, spine, chiodi, sanguinanti ferite.
L’altro meccanismo, che combinandosi con queste accensioni liriche scritturali risolve in linguaggio poetico gli assetti narrativi della silloge, è dato dal dispositivo ad alta frequenza della rima in clausola, cui ho già sommariamente accennato. In 2 settembre, Milano, ad esempio, sullo sfondo della consunzione della vicenda amorosa, altrove correlata all’occultamento delle stelle a Merzò e qui a una loro disorientante rotazione, la conclusiva rima baciata (follia : mania) scandisce una circolarità che non dà tregua a chi è ancora avvolto nelle spire di un amore potente e “corrosivo”, e istituisce una iunctura tra i due termini, “follia” e “mania”, che insistono su una stessa area semantica e, nei loro consistenti, archetipici echi letterari, si rinforzano vicendevolmente e sembrano scorrere l’uno nell’altro: “...le stelle a Merzò,/ quando, all’imbrunire, girano su se stesse/ e consegnano alla luna/ l’universo di nuovo spezzato/ della mia mente – questa follia,/ questa corrosiva, insensata mania”.

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