Adele
Desideri, Stelle a Merzò, postfazione di Paolo Lagazzi, nota critica di
Tomaso Kemeny, Bergamo, Moretti & Vitali, 2013
recensione di Francesco Macciò
Stelle a Merzò si offre al lettore come una sorta di diario d’amore
in versi. Un diario scandito da precise localizzazioni topografiche, che recano
i nomi di Merzò e di altri paesini e luoghi dell’entroterra ligure di Levante
(con dislocazioni anche nel capoluogo lombardo), e da indicazioni cronologiche,
che contrassegnano appunto i giorni di una vicenda amorosa che nasce e si consuma
nell’arco di una stagione estiva. La linea della scansione spaziotemporale
sulla quale si colloca la successione dei testi puntella le costruzioni e i
crolli di una vicenda amorosa appesa, come scrive Paolo Lagazzi nella
postfazione, al “brivido dell’evanescenza”. Il resoconto scritto però, affidato
anch’esso all’evanescenza della memoria (“Ti racconto, se posso, quel che
ricordo”), è declinato in un linguaggio poetico tutt’altro che rarefatto ma
denso e materico; l’impianto comunicativo si distacca dalla misura della
referenzialità, pur sempre necessaria alla dimensione del racconto, e attinge a
forme più complesse di mediazione sintattica e a scelte lessicali connotate da
valenze allusive, come ad esempio in questi versi, dove il taglio marcato dell’enjambement – “lisa/ stoffa” – e la
quasi rima, rima al mezzo – cartapEStA : scommESsA – innescata dalla
disposizione chiastica dei sintagmi in clausola, scandiscono il motivo del
consumarsi delle cose e della loro fragilità nell’inconsistenza del ricordo: “Ci
raduniamo qui/ in attesa di una donna che/ con il filo – con l’ago – riannodi/ gli
orli slabbrati, rammendi la lisa/ stoffa e sui capelli ponga fiori/ di
cartapesta – segnali/ di una memoria mancata,/ di una fallita scommessa.
Alla
linearità delle coordinate spaziotemporali che caratterizza il libro, si oppone
in qualche misura un altro movimento, che fa ruotare aggrovigliandoli i nuclei
persistenti della storia d’amore sfumandone al contempo i riflessi nelle pieghe
della memoria. Di tale costruzione, di tale modalità percettiva si fa lascito
una scrittura tesa, vibrante, che prende forma a troppo breve distanza dalla
realtà che l’ha originata perché possano esserne riassorbiti in toni più
riposati i segni e le conseguenze. Ed ecco, allora, emergere, in tutta la sua
totalizzante e pervasiva presenza, l’Io che incrocia le esperienze di vita e
poesia in un delirio amoroso capace di attrarre a sé le cose e di dare un senso
altro alla realtà che circonda la persona amata: “Sono la tua stanza, legnaia/
– lettiga in un canto della cucina,/ rubata alla gelosa cagna.// Sono
cancellata dipinta di fresco,/ sciacqua-piatti/ bocconcino di carne alla
griglia,/ borsa, cianfrusaglia, scarpa”, fino a porsi di fronte ad essa con
incrollabile fierezza e solidità, come termine di attrazione e insieme di resa:
“Io posso/ il tuo seme disperdere,/ e il sigillo applicare/ alla perduta
estate.//...// Aspetto/ la tua insipiente lungimiranza,/ la settembrina resa”. L’aspetto però che più di ogni altro
conferisce potenza e originalità al timbro della voce di Adele Desideri è il
ricorso in numerose poesie a un linguaggio biblico e rituale. Che si innesta
sulla trama narrativa e avvolge la spirale amorosa sia per alcuni significativi
accenni (“...Tra i fiumi dell’Eden/ ogni creatura era perfetta”) sia
soprattutto per enucleare, imprimendoli nella carne, i segni premonitori di un
fallimento: “questo silenzio che nel cavo delle mani/ disegna stigmate così
poco divine/ – il cerchio perfetto in cui l’amore fallisce”. Sono evocazioni
del sacro che incontriamo fin dalla poesia incipitaria, volta quasi a
“religare” gli amanti con il “sancire” la loro reciproca fides, ma capace nel contempo di creare un vertiginoso
capovolgimento del divino nell’umano; come se l’individuazione della figura
maschile, oggetto d’amore e di deragliamento amoroso (“Sei uno, tre e due”), si ponesse già in una dimensione “altra”,
sovrapponendosi alla precarietà delle cose e conferendo ad esse un senso, una
destinazione: “Sei uno, tre e due./ Come
cometa attrai/ e conduci alla grotta sotto il monte,/ dove vive Colui che segna
l’inizio, la fine,/ il ricongiungimento di terra,/ cielo, colpa, perdono”.
E valga, almeno, ancora l’esempio, tra i tanti che si potrebbero addurre, di
una poesia collocata verso la fine del libro, la poesia 5 settembre, Airola, dove un’allusiva rassegna di azioni di vita
quotidiana, nelle quali la figura femminile si situa come intermediaria tra la
Terra e il Cielo, viene ribaltata in una successione di immagini
neotestamentarie, in cui si rapprende la forza dell’Eros scomponendosi nei suoi
elementi, che contrappongono, alla pienezza della gioia, sofferenza, spine,
chiodi, sanguinanti ferite.
L’altro
meccanismo, che combinandosi con queste accensioni liriche scritturali risolve
in linguaggio poetico gli assetti narrativi della silloge, è dato dal
dispositivo ad alta frequenza della rima in clausola, cui ho già sommariamente
accennato. In 2 settembre, Milano, ad
esempio, sullo sfondo della consunzione della vicenda amorosa, altrove
correlata all’occultamento delle stelle a Merzò e qui a una loro disorientante
rotazione, la conclusiva rima baciata (follia
: mania) scandisce una circolarità che non dà tregua a chi è ancora avvolto
nelle spire di un amore potente e “corrosivo”, e istituisce una iunctura tra i due termini, “follia” e
“mania”, che insistono su una stessa area semantica e, nei loro consistenti,
archetipici echi letterari, si rinforzano vicendevolmente e sembrano scorrere
l’uno nell’altro: “...le stelle a Merzò,/ quando, all’imbrunire, girano su se
stesse/ e consegnano alla luna/ l’universo di nuovo spezzato/ della mia mente –
questa follia,/ questa corrosiva, insensata mania”.
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