martedì 25 novembre 2014

Su Legni di Paolo Pistoletti

Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2014 


recensione di Germana Duca Ruggeri


http://www.ladolfieditore.it/index.php/it/perle/perle-poesia/legni.htmlDell’incontro con Paolo Pistoletti, avvenuto a Fonte Avellana nel solstizio d’estate 2014 (nell’ambito di Dove sta andando il mio italiano?, tema di una kermesse promossa da Alessandro Ramberti) mi è rimasto il ricordo di un giovane profondo, mite, sommesso, che introduce e legge alcune poesie tratte da Legni, sua raccolta di esordio. E mi è rimasto il libro – elegante, sobrio, prefato da Marco Beck – ricevuto in dono al congedo: una cinquantina di testi, coinvolgenti come il titolo che li lega. Nella sua asciuttezza, esso nasconde un albero semantico, da cui diramano memorie, immagini, meditazioni, verità. Legni-mobili, certo; ma anche legni a pezzi su una catena di montaggio, simile a quella che trasporta noi umani nella selva, fino alla sortita. Quasi una visione anticipata del testo eponimo che racconta il ricovero del poeta a Careggi, reparto rianimazione: «dove a un certo punto uno non è più niente / tutto lì nel mentre, tanto che a sorpresa / non avendo più materia, si smette di tremare / senza cassa senza risonanza / la mancanza ricompone tutto / porta a zero la distanza […] e allora si esce. / In corsia si dice che un giro / moltiplicato per sempre sia l’eternità.»
Parole semplici, immagini minime. Per Paolo uscire significa mettersi in guardia, iniziare un rapporto costantemente aperto con il giorno e la notte, gli umori del cielo, lo stato delle persone vicine e lontane (rom e migranti compresi), l’evidenza delle cose, il vuoto delle strade. Ecco allora lo spazio, una stanza dietro la soglia della silloge: «la luce accesa / di là dietro il bancone della cucina»; con il poeta vivono Silvia, la sposa, e Maria, la loro bimba «sguardo da lupo». A seguire, altre stanze: quelle dei propri genitori, l’appartamento sfitto al piano di sotto, il pub, l’ufficio, la rete… Pochi passi e c’è il tempo che vola via svelto dal polso, c’è un asciugarsi di legni che ci somiglia; c’è il padre Boris, scomparso all’improvviso, cresciuto come un bosco.
Da lui scaturiscono immagini e pensieri, i quali, intrecciati alla forza delle cose che lo evocano, danno il ritmo a una lingua essenziale, benché prosastica, con versi spesso ipermetri, tratta dalla vita vissuta: «Di sera stavamo dentro al focolare io e mio padre / a guardare il fuoco come due api il loro alveare. […] Per la nuova stagione che arriva sempre / con la legna verde, di fumo eravamo / nel fumo siamo tornati con la cera / buona lasciata sui legni di casa». Interni domestici, ma anche visioni aperte; come questa, marina: «E laggiù oltre il blu mio padre / che con la schiuma sui capelli / è l’onda più grande che c’è». Il tempo in Pistoletti è il come e il quando (si noti la frequenza di tali espressioni nei testi), l’inquadratura del reale che si fa immagine da tramutare in poesia: “un esercizio - egli ha affermato a Fonte Avellana - da riprendere di continuo, una ascesi”. Tale esercizio - che, pari al libro, si direbbe dedicato “al ritorno a casa già iniziato “ - ora sfoglia la vita come un calendario, ora la rovescia come una clessidra, per una durata che, nonostante le apparenze, è uguale per tutti; e molto più della legge ci accomuna.
L’autore, nel montaggio di Legni, ha alternato vuoti e pieni, dentro e fuori, statica e dinamica, quasi stanze e finestre, vetri e vetrine, ascensore, garage e automobile fossero protesi del suo corpo e dei suoi sensi, tra il già e il non ancora. In questo mi sembra di ravvisare un quid montaliano che, mentre rinvia al “varco”, chiama in causa il “consueto inganno” di certe nostre percezioni, come accade in Forse un mattino andando. Paolo Pistoletti attualizza l’intuizione di Montale e la sviluppa in tre poesie – Pensare, Campagna, Campo – collegate da ordinari spostamenti in automobile e dall’osservazione del reale mediata dallo specchietto retrovisore, nella varianza degli approdi. Da Pensare: «Ecco è tutto qui il mio pensare, / come in auto quando dallo specchietto / alle spalle vedi che passa dietro / la strada, e allora senti che a reggerti sulla schiena / è tutto quello scorrere / quel grande fiume di asfalto / e mondo che ti porta / dritto a casa / fin dentro al garage.»
In Campagna cambia lo sfondo, si rovescia la scena: «sul vetro s’affollano gocce / che salgono su dalla strada / come una mandria fosca che poi passa / nello specchietto proprio dove due curve fa / stava più storto un ulivo / come un crampo che non molla / la presa poco diversa dalla nostra storia / che dentro ci afferra come quando / dallo sportello ci tirano fuori per la giacca / e ci tengono in pugno per il bavero. E allora / appoggiati alle fiancate stiamo sempre ad aspettare / poi chissà quali urti chissà quali risarcimenti.»
Ancora più ampie e analitiche le dinamiche cognitive delineate in Campo: «quando manca un gesto / che scosti l’abbaglio del mondo / dallo specchietto quel grande scorrere / che non torna fino a qua. […] mentre adesso che siamo in marcia / c’è sempre questo suono che sale / dal serbatoio quasi vuoto che si direbbe un amen /una eco capovolta del nostro frinire di cicale.» 

Ma è nella poesia per il vecchio maestro M.S. che il pensiero di Pistoletti si articola fino a superare la dualità con il mondo, per identificarsi con «il rovescio della polvere», il mistero di luce che con pazienza ci attende: «Fino a quando tu, / tu ti senti dal sistema elettrico / del mondo non più attratto / finalmente senti in te / come il rovescio della polvere». L’espressione richiama i ritmi ben differenti cercati da Luigi Socci ne Il rovescio del dolore; un rovescio che non attiene alla gioia, né all’attesa, piuttosto a un sorridere a denti stretti dinanzi al tracimare del negativo. Da Legni viene fuori un’altra storia: «Ma poi quando mi volto allora non mi bastano più gli occhi / come in una pagina quando con l’ultima riga non è finita / adesso con te in questa stanza / pare tutto una notte bianca una sete di luce che non passa». Così in Fuori: «Ma a volte qualcosa / si accende dentro davvero / e allora come torce / si esce fuori dal cono delle nostre ombre, / come un drago dal naso / come quando ero bambino». Fino all’explicit: «come da bambino lassù sulla cima delle scale / quando esplodevo di rabbia come un matto / e poi a metà della scena sentivo / con chiarezza che ero felice / – alle spalle la soffitta accesa – / e allora facevo voto di stare lì per sempre / dentro a tutto quel niente di polvere alzata.»
Dell’esordio poetico di Paolo Pistoletti ancora molto si potrebbe scrivere, ma preferisco concludere richiamando uno dei nuclei più elementari intravisti fra le pagine; in una certa misura, la cellula ritmica fondamentale della silloge: in bianco e nero o a colori, con tutte le sue ombre, luminescenze, tonalità, illusioni, la vita non è solo uno stato in luogo ma qualcosa che trascorre mentre la abitiamo. Qualcosa che somiglia all’esistenza di un albero, al cuore del legno, al cuore dei legni.

Urbino, 19 novembre 2014

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