lunedì 22 luglio 2013

I versi di un'etrusca prigioniera

di Matteo Veronesi


L'etrusca prigioniera, si intitolava la raccolta d'esordio di Gabriella Bianchi (della quale queste brevi riflessioni toccheranno soprattutto il dittico costituito da Cartoline da Itaca, del 2005, e Il cielo di Itaca, del 2011 mentre Il paradiso degli esuli, edito da Fara nel 2009, rappresenta una sorta di intermezzo, di cesura, ma non netta spaccatura, dall'indole narrativa e lirico-realistica, che inframmezza la continuità e la coerenza fluenti del discorso lirico e meditativo articolato nei due libri in questione: «Del viaggio, preferisco le soste / dove i pioppi tremuli / segnano il confine tra l'autostrada / e l'antico»); e, in effetti, la sua poesia appare, nello spirito e nella struttura così come nella concezione e nella stessa partitura stilistica, divisa, come secondo la dottrina augurale etrusca, fra la terra e il cielo, il tempo e l'eterno, la discontinuità caotica degli accadimenti e il ricorrere perpetuo dei grandi cicli inesorabili: e lo spazio stesso della poesia, libro pagina verso sillaba, è templum e methlum, misura e spazio celesti discesi e riverberati nella materia e nell'immanenza; come la voce della poesia è l'eternità aggiogata al tempo, etrusca prigioniera della modernità, aurora rivelatrice ed esiliata nel crepuscolo dell'essere.
La corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo si riflette nell'uso della quartina come unità di un discorso continuo, come cellula unita ad altre ad intessere un sommesso ed assiduo carmen perpetuum. Una concisione da epigramma greco – ma si potrebbe pensare anche ad Omar Khayamm, o ala poesia cinese – sposata ad una vasta arcata narrativa, inglobata in un disegno ampio e coerente, sia come struttura che come visione esistenziale.
«Padre, – apri il cancello di cera / che sovrasta l'asse invernale / Lasciami entrare nei cerchi rarefatti / lontano dai guitti». L'axis mundi delle antiche cosmogonie diviene il tramite fra la terra e il cielo, il ponte per elevarsi dal grigiore e dalle finzioni della vita ordinaria ad un'eternità che si staglia aureolata dall'evanescenza dei suoi cerchi d'empireo. Il padre terreno è immagine e metafora ed ombra del Padre celeste.
Come i libri augurales degli Etruschi, anche il libro poetico fissa sulla carta i segni astrali, in cui è filigranata la sorte. Libro che da un lato è aperto verso quel cielo di cui è specchio, dall'altro affonda le proprie radici nella terra, anzi è esso stesso, in quanto liber, corteccia, figlio ed emanazione della terra, e ad essa è destinato a tornare. «Di notte i libri tornano alberi / le pagine s'innervano in foglie / la copertina in corteccia / la parola scritta in radici». «I libri sono “horti conclusi” / e io cerco un libro vivo». «Tutti dobbiamo entrare nel calice / e risalire lo stelo / scioglierci nella terra / e rigerminare». Si sovrappongono – essenzializzati, illimpiditi – i grandi archetipi del Libro vivente, della Parola di Vita, della Morte e Risurrezione, del ciclo di germinazione e rifioritura. La Parola, il Libro sono hortus conclusus – spazio sacro ed inaccessibile, ma anche grembo sacerdotale della Grande Madre («Madre bambina / madre d'anteguerra / madre legata a un filo / madre d'argilla», come in un mormorio, in un sussurrio di lauda o di litania).
«Quasi un'anima d'etrusco, / di un morto che uno spazio accolse, / ma con la quieta figura per coperchio», scrive Rilke nell'ottava delle Elegie Duinesi. «Schoos ist Alles»: «Tutto è grembo». L'Itaca della parola poetica è il grembo originario, da cui nascono e a cui tornano l'esistenza, il pensiero e il linguaggio. Questo è il messaggio di un'anima etrusca esiliata nella nostra modernità opaca – ma che proprio dal passato trae la linfa e la forza della propria parola.

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