L'etrusca prigioniera, si
intitolava la raccolta d'esordio di Gabriella Bianchi (della quale queste brevi
riflessioni toccheranno soprattutto il dittico costituito da Cartoline da
Itaca, del 2005, e Il cielo di Itaca, del 2011 –
mentre Il paradiso degli esuli, edito da Fara nel 2009, rappresenta una
sorta di intermezzo, di cesura, ma non netta spaccatura, dall'indole narrativa
e lirico-realistica, che inframmezza la continuità e la coerenza fluenti del
discorso lirico e meditativo articolato nei due libri in questione: «Del
viaggio, preferisco le soste / dove i pioppi tremuli / segnano il confine tra
l'autostrada / e l'antico»); e, in effetti, la sua poesia appare, nello spirito
e nella struttura così come nella concezione e nella stessa partitura
stilistica, divisa, come secondo la dottrina augurale etrusca, fra la terra e
il cielo, il tempo e l'eterno, la discontinuità caotica degli accadimenti e il
ricorrere perpetuo dei grandi cicli inesorabili: e lo spazio stesso della
poesia, libro pagina verso sillaba, è templum e methlum, misura e
spazio celesti discesi e riverberati nella materia e nell'immanenza; come la
voce della poesia è l'eternità aggiogata al tempo, etrusca prigioniera della
modernità, aurora rivelatrice ed esiliata nel crepuscolo dell'essere.
La corrispondenza fra microcosmo
e macrocosmo si riflette nell'uso della quartina come unità di un discorso
continuo, come cellula unita ad altre ad intessere un sommesso ed assiduo carmen
perpetuum. Una concisione da epigramma greco – ma si potrebbe
pensare anche ad Omar Khayamm, o ala poesia cinese – sposata ad una vasta
arcata narrativa, inglobata in un disegno ampio e coerente, sia come struttura
che come visione esistenziale.
«Padre, – apri il
cancello di cera / che sovrasta l'asse invernale / Lasciami entrare nei cerchi
rarefatti / lontano dai guitti». L'axis mundi delle antiche cosmogonie
diviene il tramite fra la terra e il cielo, il ponte per elevarsi dal grigiore
e dalle finzioni della vita ordinaria ad un'eternità che si staglia aureolata
dall'evanescenza dei suoi cerchi d'empireo. Il padre terreno è immagine e
metafora ed ombra del Padre celeste.
Come i libri
augurales degli Etruschi, anche il libro poetico fissa sulla carta i segni
astrali, in cui è filigranata la sorte. Libro che da un lato è aperto verso
quel cielo di cui è specchio, dall'altro affonda le proprie radici nella terra,
anzi è esso stesso, in quanto liber, corteccia, figlio ed emanazione
della terra, e ad essa è destinato a tornare. «Di notte i libri tornano alberi
/ le pagine s'innervano in foglie / la copertina in corteccia / la parola
scritta in radici». «I libri sono “horti conclusi” / e io cerco un libro vivo».
«Tutti dobbiamo entrare nel calice / e risalire lo stelo / scioglierci nella
terra / e rigerminare». Si sovrappongono – essenzializzati, illimpiditi – i
grandi archetipi del Libro vivente, della Parola di Vita, della Morte e
Risurrezione, del ciclo di germinazione e rifioritura. La Parola, il Libro sono
hortus conclusus – spazio sacro ed inaccessibile, ma anche grembo
sacerdotale della Grande Madre («Madre bambina / madre d'anteguerra / madre
legata a un filo / madre d'argilla», come in un mormorio, in un sussurrio di
lauda o di litania).
«Quasi un'anima
d'etrusco, / di un morto che uno spazio accolse, / ma con la quieta figura per
coperchio», scrive Rilke nell'ottava delle Elegie Duinesi. «Schoos ist
Alles»: «Tutto è grembo». L'Itaca della parola poetica è il grembo originario,
da cui nascono e a cui tornano l'esistenza, il pensiero e il linguaggio. Questo
è il messaggio di un'anima etrusca esiliata nella nostra modernità opaca – ma
che proprio dal passato trae la linfa e la forza della propria parola.
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