recensione di Narda Fattori
Il viaggio è la metafora della vita: c’è un inizio in cui
siamo inetti e bisognosi cui segue un’infanzia gioiosa spesso (dovrebbe essere
sempre) e quindi un gioventù ebbra di sogni e una maturità quietata, l’oasi che
si è raggiunta per riposare, non più nell’arsura, nella fatica,
nell’insoddisfazione.
Il viaggio è invece un percorso che non termina su questa
plaga, che non giunge, con la mente satolla all’oasi: ci chiama a lacerarci
ogni giorno per la meta che sempre si allontana e si nasconde. Eppure il
viaggio è qualcosa di buono anche quando fa male perché si oppone alla stasi,
all’imputridimento dell’immo
bilità, perché ci fa spalancare lo sguardo sempre su nuovi panorami, perché costruisce un territorio all’essere e deprezza l’avere , l’ingombro del trattenere.
bilità, perché ci fa spalancare lo sguardo sempre su nuovi panorami, perché costruisce un territorio all’essere e deprezza l’avere , l’ingombro del trattenere.
Il viaggio è anche coartazione quando è ricerca di un luogo
dove lavorare, quando spinge in territori stranieri, quando ti allontana dalle
radici e senti la linfa farsi esigua. Ecco perché i viandanti amano tornare:
impressa indelebilmente nella pupilla, ma soprattutto circolante nel sangue, ci
sono i luoghi cari, le persone amate, le matrici dell’identità.
D’Alessio un tempo , come tanti meridionali, ha chiuso la
sua valigia di cartone e se n’è andato al nord: è andato con la mente, il suo
cuore è rimasto nei paesaggi dell’Irpinia che lo hanno visto farsi giovane
laureato con tanti sogni sulle spalle.
L’esperienza dell’emigrante gli ha fornito occhiali dalle
lenti ben adeguate per vedere l’ingiustizia, con sorelle e fratelli (egoismo,
prepotenza, opportunismo, menzogna, maldicenza…) , spadroneggiare sul mondo.
Ovunque e in nessun posto era la sua casa. L’emigrante tornò, tornò per amore
della terra e della sua gente , ma ormai l’opportunismo si era fatto padrone ;
bisognava combatterlo, ma con quali armi? La delusione grande si assimila che
la propria terra è là dove c’è corrispondenza d’anime.
Si veda la poesia Monologo a pagina 19 dove il viandante è
tracciato anche simbolicamente nei sandali, nella stanchezza, nel suo riposare
sotto l’ombra dell’albero. Ma non è questo il luogo di sosta che appacifica,
solo «la luce senza fondo della notte
può regalare la forza di rivivere».
Ma non si piega Vincenzo: «Tempo che mi urli dentro / non hai pace, cemento hanno / portate
dentro aie/ gli asini sono morti dio dolore / la terra abbandonata ai
costruttori /… / noi siamo i muli non venduti / affaticati dal viaggio di
ritorno / ai figli cediamo pezzi di carta / ai politici parole di sventura /…»
Questa è poesia , poesia civile, quella che non ha lo
sguardo fisso sul proprio ombelico, centro del mondo, ma si occupa e si
preoccupa dei tempi. E se è vero che sempre si è detto , riferiti a quelli
contemporanei, mala tempora currunt, qui non si fa una lode passatista
dei bei tempi andati, ma si mette in luce un evento che è sotto gli occhi di
tutti.
Così «L’erba che muore
sotto i camion / piange verità di
anni chiari / illesi nelle nostre menti a salvarci.»: il passato è
memoria ma anche valore, oggi spezzato, svenduto, che imbruttisce
imbellettando.
Sorte questa che ci tocca a tutti, noi che mangiamo pane e
seppelliamo gli stessi anni.
Poesia che ci riguarda, che ci tocca, nella mente,
nell’animo; anche noi viaggiamo sullo stesso treno che le ore del dolore
rendono interminabile.
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