mercoledì 5 settembre 2012

Su Vento di fronda di Giuseppe Iuliano


Delta3Edizioni,  2012
recensione di Vincenzo D'Alessio
Nella collana “Pugillaria” diretta dal critico letterario Paolo Saggese, è stata inserita la nuova raccolta del poeta Giuseppe Iuliano dal titolo Vento di fronda. Questa nuova raccolta segue la precedente  Rosso a sera pubblicata nel 2010 presso lo stesso editore. A due anni di distanza “il vento” è tornato a spirare più forte complice della voce del poeta per portarla più in là, oltre le terre irpine, a piegare “l’erba voglio di legge senza misura” (pag. 23). Il poeta è  interiormente un uomo fragile, si mostra raramente nella sua vera identità, cammina tra la gente cosciente della difesa della propria anima: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera” (S. Quasimodo, Ed è subito sera). Così scriveva il Nobel Salvatore Quasimodo agli inizi del XX secolo, scandendo la solitudine umana del poeta, dell’umanità di fronte al dolore dell’esistere, all’inconsolabile perdita della vita. Il poeta è la terra dov’è nato. I suoi versi sono la consolazione della distanza tra passato, presente e necessità d’avvenire. Scrive per consolare la sua anima e, dono immenso della Natura, scrive per gli uomini che hanno occhi per amare e lingua per capire.
All’alba di questo XXI secolo, Giuseppe Iuliano, è il poeta che il filologo Federico Italiano, nel suo lavoro Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan (Edizioni Mimesis, 2009) definirebbe “conoscitore territoriale, che è conoscitore del mondo, della natura e dei suoi processi, e che costituisce sempre più il midollo della moderna produzione poetica.”
Il  Nostro è “moderno” pur avendo le radici ben salde nella produzione poetica del Novecento. La sua poesia è forte, generosa, icastica, senza orpelli. Si avvale dell’anafora per rendere agile il verso, sceglie l’asindeto per accostare più di un lemma. La rima compare raramente, così l’assonanza, mentre il verso libero scorre come un fiume in piena.
Iuliano è la sua terra: l’Irpinia. Metaforicamente padre e madre di un poeta che vuole il cambiamento ad ogni costo: «L’Irpinia è chiusa, prigioniera / nel recinto di precarietà / come gregge allo stallo» (C’è silenzio ai paesi, pag. 53). E nella poesia che  quasi  chiude la raccolta dirà con più forza: «Amo l’Irpinia. Odio il suo silenzio muto» (Animaterra, pag. 87). Nella composizione che citiamo, l’anafora «Amo questa terra» scandisce come un metronomo i battiti di un cuore giovane, di un’anima verde, inarrestabile di fronte alle: «superbie di ogni padrone / che ha voce e unghie aguzzine» (Pietre e fionde,pag.72) Il Nostro ha vissuto dolorosamente e consapevolmente il sisma del 23 novembre 1980, e la difficile ricostruzione: lo rivive, e  lo trasmette, nei versi della poesia Semi marciti a novembre (pag. 29), rammentando ai vivi la ciclicità di questi eventi, non solo per l’Irpinia: «Non ci risultano al presente / sensi di colpa, gesti di dolore. /  Neppure  ci consolano ricordi / di offerte di perdono» (pag. 30). Quanta bella gioventù, bambini, sono scomparsi in questa naturale tragedia.
 L’intera raccolta che abbiamo tra le mani è per il lettore, attento e seguace della poesia meridiana, un momento alto di liberazione dall’infelice presenza dei politici, e del potere temporale dei preti,  codificando l’atto più bello e più semplice che un poeta-bambino potrebbe realizzare, affidare: «Tocca alle mani / abili di pietra e fionda / muovere alla difesa e alla giustizia» (Pietre e fionde, pag. 72). Come si può sopportare l’odio, l’oppressione, il cieco sfruttamento, per sessant’anni senza reagire? Basta!, dice testualmente Iuliano nei versi di questa raccolta, non è più tempo di politici che dopo la fiducia del voto affermano solo gli interessi personali e quelli dei propri amici. È stato il tempo di «File al pellegrinaggio / di santi protettori / numi del mito contadino» (E diventammo villaggio globale, pag.31): i favoriti ricostruivano l’abitazione terremotata, ottenevano posti di lavoro per figli e parenti, ridevano della mala sorte che si affastellava sulle spalle di quegli emigranti, liberi nel pensiero, che lasciavano l’Irpinia.
Il poeta ne ha conosciuti tanti. Ha vissuto questi eventi non passivamente ma ricercando le radici della Civiltà Contadina che guardava scomparire nell’affanno dell’avere e nel perdurare dell’emigrazione verso il Nord. Oggi il poeta, come tutti noi Italiani veri, è stanco delle offese e nel gemito ritrova il climax poetico per offrire ai lettori l’arma della ripresa dal basso: «Prudono le mani / che riescono ancora / a stringere il pugno. / (…) I nervi sono tesi / come la molla di fionda / pronta a colpire e tramortire.» (pag. 69). L’archetipo dell’arma semplice che sconfisse il potere oppressivo del gigante Golia ritorna in questa stupenda raccolta di poesia civile sottoforma di invito al movimento che nacque a Parigi nel 1648 contro il potere violento del cardinale Giulio Mazzarino: “La fronda” era , infatti, la fionda, l’arma con la quale il popolo rompeva i vetri delle finestre del cardinale e dei suoi proseliti.
Il vento, complice e compagno del poeta, forza inesauribile della Natura che spira sulla schiena dell’Appennino campano, a Sud di ogni mondo sfruttato, vento libero, inafferrabile, che porta ovunque la voce della libertà, della poesia, è lo strumento al quale Giuseppe Iuliano affida con sincera fede terrena la poetica della sua esistenza: «Al vento chiedo frusta di giustizia / su questa terra spremuta offesa / vuota d’umanità, serva / di profezia di nessun verbo, erba voglio di legge su misura» (pag. 23). Il Nostro ha visto il fallimento dei colossi costruiti dopo il sisma dell’80 sulla terra coltivata da millenni da genitori e figli, li chiama per nome “Irisbus, Almec” (Le nostre paure, pag. 41), e dispera che si trovi una soluzione al dissanguamento dovuto all’emigrazione che una volta dall’America mandava “le pezze” (sinonimo di dollari). Oggi nel clima globale del fallimento industriale non trova spazio l’idea di nuovi artigiani o antichi mestieri contadini. Paure vere che si articolano nei versi della poesia (Nodi da sciogliere, pag. 76): «Resta stretto questo spazio / folla di comprimari / dove ognuno stima terra e raccolto / l’albero della vita» (si veda la foto di copertina della raccolta realizzata dall’ autore).Ognuno sta solo, ed è il male peggiore di questo XXI secolo. Nel piccolo grande Sud di ogni mondo si parte già sconfitti, con o senza  laurea, con o senza le comprimarie esperienze di lavoro. Tutti siamo stati sconfitti dal “potere oscuro” delle oligarchie politiche ed economicoclientelari che hanno cancellato tradizioni, artigianato, contadini, riempiendo le case degli uomini,oggi, di oscuri presagi: «Qui  padri e figli / si impiccano alle colpe / e si litigano il lavoro» (Testimoni del tempo, pag. 80). Non è questo il mondo di giustizia che abbiamo sognato dopo i disastri del XX secolo. Non è così che il voto degli Italiani ha rappresentato l’orgoglio della ritrovata libertà.
Bene scrive il direttore della collana, Paolo Saggese, nell’accorata postfazione alla presente raccolta, invito ai lettori attenti e sagaci: «Infatti, soltanto la ribellione rispetto alla realtà stessa, può produrre la “rivoluzione meridionale”, che significa assunzione di una morale e di una cultura nuove necessarie per considerare il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro» (pag. 90).

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